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ed eleganza nella pronunzia, e son tenuti communemente per buoni e significativi, benchè non siano toscani, ed ancor abbiano origine di fuor d'Italia. Oltre a questo, usansi in Toscana molti vocaboli chiaramente corrotti dal latino, li quali nella Lombardia e nell' altre parti d'Italia son rimasti integri e senza mutazione alcuna, e tanto universalmente s'usano per ognuno, che dalli nobili sono ammessi per buoni, e dal volgo intesi senza difficoltà. Perciò, non penso aver commesso errore, se io scrivendo bo usato alcuni di questi, e piuttosto pigliato l'integro e sincero della patria mia, che 'l corrotto e guasto della aliena. Nè mi par buona regola quella che dicon inolti, che la lingua volgar tanto è più bella, quanto è men simile alla latina; nè comprendo perchè ad una consuetudine di parlare si debba dar tanto maggiore autorità che all' altra, che, se la toscana basta per nobilitare i vocaboli latini corrotti e manchi, e dar loro tanta grazia che, così mutilati, ognun possa usarli per buoni (il che non si nega), la lombarda o qualsivoglia altra non debba poter sostener li medesimi latini puri, integri, proprii, e non mutati in parte alcuna, tanto che siano tolerabili. E veramente, sì come il voler formar vocaboli nuovi o mantenere gli antichi in dispetto della consuetudine, dir si può temeraria presunzione: così il voler contra la forza della medesima consuetudine distruggere e quasi sepelir vivi quelli che durano già molti secoli, e col scudo della usanza si son difesi dalla invidia del tempo, ed han conservato la dignità e 'l splendor loro, quando per le guerre e ruine d'Italia si son fatte le mutazioni della lingua, degli edifizii, degli abiti e costumi; oltra che sia difficile, par quasi una impietà. Perciò, se io non ho voluto scrivendo usare le parole del Boccaccio che più non s' usano în Toscana, nè sottopormi alla legge di coloro che stimano che non sia licito usar quelle che non usano li Toscani d'oggidì, parmi meritare escusazione. Penso adunque, e nella materia del libro e nella lingua, per quanto una lingua può ajutar l'altra, aver imitato autori tanto degni di laude quanto è il Boccaccio; nè credo che mi si debha imputare per errore lo aver eletto di farmi piuttosto conoscere per Lombardo parlando lombardo, che per non Toscano parlando troppo toscano: per non fare come Teofrasto, il qual, per parlare troppo ateniese, fu da una semplice vecchiarella conosciuto per non Ateniese. Ma perchè circa questo nel primo Libro si parla a bastanza, non dirò altro, se non che, per rimover ogni contenzione, io confesso ai miei riprensori, non sapere questa lor lingua toscana tanto difficile e recondita; e dico aver scritto nella mia, e come io parlo, ed a coloro che parlano come parl' io: e così penso non avere fatto ingiuria ad alcuno; chè, secondo me, non è proibito a chi si sia scrivere e parlare nella

sua propria lingua; nè meno alcuno è astretto a leggere o ascoltare quello che non gli aggrada. Perciò, se essi non vorran leggere il mio CORTEGIANO, non mi tenerò io punto da loro ingiuriato.

Altri dicono, che essendo tanto difficile e quasi impossibile trovar un uomo così perfetto come io voglio che sia il Cortegiano, è stato superfluo il scriverlo, perchè vana cosa è insegnar quello che imparar non si può. A questi rispondo, che mi contenterò aver errato con Platone, Senofonte e Marco Tullio, lasciando il disputare del mondo intelligibile e delle Idee; tra le quali, sì come (secondo quella opinione) è la Idea della perfetta Republica, e del perfetto Re, e del perfetto Oratore, così è ancora quella del perfetto Cortegiano: alla imagine della quale s'io non ho potuto approssimarmi col stile, tanto minor fatica averanno i cortegiani d'approssimarsi con l'opere al termine e mêta, ch'io collo scrivere ho loro proposto; e se, con tutto questo, non potran conseguir quella perfezion, qual che ella si sia, ch'io mi sono sforzato d'esprimere, colui che più se le avvicinerà sarà il più perfetto; come di molti arcieri che tirano ad un bersaglio, quando niuno è che dia nella brocca, quello che più se le accosta senza dubio è miglior degli altri. Alcuni ancor dicono, ch' io ho creduto formar me stesso, persuadendomi che le condizioni ch' io al Cortegiano attribuisco, tutte siano in me. A questi tali non voglio già negar, di non aver tentato tutto quello ch' io vorrei che sapesse il Cortegiano; e penso che chi non avesse avuto qualche notizia delle cose che nel libro si trattano, per erudito che fosse stato, mal averebbe potuto scriverle: ma io non son tanto privo di giudicio in conoscere me stesso, che mi presuma saper tutto quello che so desiderare.

La difesa adunque di queste accusazioni, e forse di molt' altre, rimetto io per ora al parere della commune opinione; perchè il più delle volte la moltitudine, ancor che perfettamente non conosca, sente però per instinto di natura un certo odore del bene e del male, e, senza saperne rendere altra ragione, l'uno gusta ed ama, e l'altro rifiuta ed odia. Perciò, se universalmente il libro piacerà, terrollo per buono, e penserò che debba vivere; se ancor non piacerà, terrollo per malo, e tosto crederò che se n'abbia da perder la memoria. E se pur i miei accusatori di questo commun giudicio non restano satisfatti, conténtinsi almeno di quello del tempo; il quale d' ogni cosa al fin scopre gli occulti difetti, e, per esser padre della verità e giudice senza passione, suol dare sempre della vita o morte delle scritture giusta sentenza.

BALDESAR CASTIGLIONE.

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IL PRIMO LIBRO DEL CORTEGIANO

DEL.CONTE BALDESAR CASTIGLIONE

A MESSER ALFONSO ARIOSTO.

I. Fra me stesso lungamente ho dubitato, messer Alfonso carissimo, qual di due cose più difficil mi fosse; o il negarvi quel che con tanta instanza più volte m'avete richiesto, o il farlo perchè da un canto mi parea durissimo negar alcuna cosa, e massimamente laudevole, a persona ch'io amo sommamente, e da cui sommamente mi sento esser amato; dall'altro ancor, pigliar impresa, la qual io non conoscessi poter condur a fine, pareami disconvenirsi a chi estimasse le giuste riprensioni quanto estimar si debbano. In ultimo, dopo molti pensieri, ho deliberato esperimentare in questo, quanto ajuto porger possa alla diligenza mia quella affezione e desiderio intenso di compiacere, che nelle altre cose tanto suole accrescere la industria degli uomini.

Voi adunque mi richiedete ch'io scriva, qual sia al parer mio la forma di Cortegianía più conveniente a gentiluomo che viva in corte de' principi, per la quale egli possa e sappia perfettamente loro servir in ogni cosa ragionevole, acquistandone da essi grazia, e dagli altri laude; in somma, di che sorte debba esser colui, che meriti chiamarsi perfetto Cortegiano, tanto che cosa alcuna non gli manchi. Onde io, considerando tal richiesta, dico, che se a me stesso non paresse maggior biasimo l'esser da voi reputato poco amorevole, che da tutti gli altri poco prudente, arei fuggito questa fatica, per dubio di non esser tenuto temerario da tutti quelli che conoscono, come difficil cosa sia, tra tante varietà di co

stumi che s' usano nelle corti di Cristianità, eleggere la più perfetta forma, e quasi il fior di questa Cortegianía; perchè la consuetudine fa a noi spesso le medesime cose piacere e dispiacere: onde talor procede, che i costumi, gli abitì, i riti, e i modi, che un tempo son stati in pregio, divengon vili, e per contrario i vili divengon pregiati. Però si vede chiaramente, che l'uso più che la ragione ha forza d'introdur cose nuove tra noi, e cancellar l'antiche; delle quali chi cerca giudicar la perfezione, spesso s'inganna. Per il che, conoscendo io questa e molte altre difficoltà nella materia propostami a scrivere, son sforzato a fare un poco di escusazione, e render testimonio che questo errore (se pur si può dir errore) a me è commune con voi, acciò che se biasimo avvenire me ne ha, quello sia ancor diviso con voi; perchè non minor colpa si dee estimar la vostra avermi imposto carico alle mie forze diseguale, che a me averlo accettato.

Vegniamo adunque ormai a dar principio a quello che è nostro presupposto, e, se possibil è, formiamo un Cortegian tale, che quel principe che sarà degno d'esser da lui servito, ancor che poco stato avesse, si possa però chiamar grandissimo signore. Noi in questi Libri non seguiremo un certo ordine o regola di precetti distinti, che 'l più delle volte nell'insegnare qualsivoglia cosa usar si suole; ma, alla foggia di molti antichi, rinovando una grata memoria, recitaremo alcuni ragionamenti, i quali già passarono tra uomini singolarissimi a tale proposito: e benchè io non v'intervenissi presenzialmente, per ritrovarmi, allor che furon detti, in Inghilterra, avendogli poco apresso il mio ritorno intesi da persona che fedelmente me gli narrò, sforzerommi a punto, per quanto la memoria mi comporterà, ricordarli, acciò che noto vi sia quello che abbiano giudicato e creduto di questa materia uomini degni di somma laude, ed al cui giudizio in ogni cosa prestar si potea indubitata fede. Nè fia ancor fuor di proposito, per giungere ordinatamente al fine dove tende il parlar nostro, narrar la causa dei successi ragionamenti.

II. Alle pendici dell'Appennino, quasi al mezzo della Italia verso il mare Adriatico, è posta, come ognun sa, la piccola città d'Urbino; la quale, benchè tra monti sia, e non

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