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sarebbe di grande utilità in correggere molti luoghi dubii od errati delle edizioni.

Non lieve difficoltà ci si presentava nella scelta della ortografia, in che si avessero a publicare le opere del nostro Autore. La maggior parte degli scrittori di quella età posero alla ortografia poca cura, scrivendo spesso le stesse parole con diversa forma, ora strettamente attenendosi all'etimologia, ora seguendo la pronunzia volgare. Non così il Castiglione, il quale, non nella tessitura dei periodi, ma nella scrittura dei vocaboli, reputa doversi conservare e conserva difatti la forma latina in modo, che le sue opere a' nostri giorni riescirebbero di pressochè impossibile lettura. Noi pure opiniamo, e l'abbiamo altrove1 dichiarato, doversi nella scrittura delle voci italiane seguire piuttosto l'etimologia, che non l'incerta ed incostante pronunzia del volgo. Ma questa regola non deve estendersi tant' oltre, che più che l'ortografia si muti la forma stessa dei vocaboli, ovvero si ammettano modi repugnanti all' indole della nostra lingua, figliola bensì della latina, ma avente regole, carattere, scrittura propria. Chi tolererebbe, che per popolo scrivessimo populo, come vuole il Castiglione, ed Hercule, ed excepto, e così via? Ritenemmo adunque bensì costantemente la forma di vocaboli adottata dall'Autore; ma quanto all'ortografia non la seguimmo se non in parte, onde non allontanarci di troppo dalla scrittura che l'Autore professa voler seguire, nè tuttavia rendere il libro illegibile.

Abbiamo conservato le più importanti fra le annotazioni dei precedenti editori, ed aggiuntone alcune nostre; alle annotazioni abbiamo premesso brevi cenni biografici sui personaggi introdotti dal Castiglione ad interlocutori nel Dialogo. Il testo fu con somma diligenza e a più riprese confrontato e

Dialogo di Santo Gregorio: Volgarizzamento di Fra Domenico Cavalca. Testo di lingua ridotto alla vera lezione da Carlo Baudi di Vesme. Torino, Stamperia Reale, 1851: nella prefazione, a pag. XII.

corretto sulle edizioni Aldine. Insomma non fu da noi omessa cura o fatica, affinchè questa nostra riesca ottima fra le edizioni del Cortegiano; e simile diligenza porremo intorno agli altri scritti del Conte Baldassar Castiglione, che daremo fra breve, accresciuti di un gran numero di lettere inedite, non meno importanti per argomento, che notevoli per purezza di lingua, e per chiarezza, semplicità e nobiltà di dettato.

CARLO VESME.

1 gennajo 1854.

Al reverendo ed illustre signor

DON MICHEL DE SILVA

VESCOVO DI VISEO.

Quando il signor Guid'Ubaldo di Montefeltro, duca d'Urbino, passò di questa vita, io, insieme con alcun'altri cavalieri che l'aveano servito, restai alli servizii del duca Francesco Maria dalla Rovere, erede e successor di quello nel stato; e come nell'animo mio era recente l'odor delle virtù del duca Guido, e la satisfazione che in quegli anni aveva sentito dell'amorevole compagnia di così eccellenti persone, come allora si ritrovarono nella corte d'Urbino, fui stimolato da quella memoria a scrivere questi Libri del CORTEGIANO: il che io feci in pochi giorni, con intenzione di castigar col tempo quegli errori, che dal desiderio di pagar tosto questo debito erano nati. Ma la fortuna già molt' anni m' ha sempre tenuto oppresso in così continui travagli, che io non ho mai potuto pigliar spazio di ridurgli a termine, che il mio debil giudicio ne restasse contento. Ritrovandomi adunque in Ispagna, ed essendo d'Italia avvisato, che la signora Vittoria dalla Colonna, marchesa di Pescara, alla quale io già feci copia del libro, contra la promessa sua ne avea fatto trascrivere una gran parte, non potei non sentirne qualche fastidio, dubitandomi di molti inconvenienti, che in simili casi possono occorrere; nientedimeno mi confidai che l'ingegno e prudenza di quella Signora (la virtù della quale io sempre ho tenuto in venerazione come cosa divina) bastasse a rimediare che pregiudicio alcuno non mi venisse dall'aver obedito a' suoi comandamenti. In ultimo seppi, che quella parte del libro si ritrovava in Napoli in mano di molti; e, come sono gli uomini sempre cupidi di novità, parea che quelli tali tentassero di farla imprimere. Ond' io, spaventato da questo pericolo, determinaimi di riveder subito nel libro quel poco che mi comportava il tempo, con intenzione di publicarlo; estimando men male lasciarlo veder poco castigato per mia mano, che molto lacerato per man d'altri. Così, per eseguire questa deliberazione, cominciai a rileggerlo; e subito nella prima fronte, ammonito dal titolo, presi non mediocre tristezza, la qual ancora nel passar più avanti molto si accrebbe, ricordandomi, la maggior parte di coloro che sono introdotti nei ragionamenti, esser già morti: chè, oltre a quelli de chi si

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fa menzione nel proemio dell'ultimo, morto è il medesimo messer Alfonso Ariosto, a cui il libro è indrizzato; giovane affabile, discreto, pieno di soavissimi costumi, ed atto ad ogni cosa conveniente ad uomo di corte. Medesimamente il duca Juliano de' Medici, la cui bontà e nobil cortesia meritava più lungamente dal mondo esser goduta. Messer Bernardo, cardinal di Santa Maria in Portico, il quale per una acuta e piacevole prontezza d'ingegno fu gratissimo a qualunque lo conobbe, pur è morto. Morto è il signor Ottavian Fregoso, uomo a' nostri tempi rarissimo; magnanimo, religioso, pien di bontà, d'ingegno, prudenza e cortesia, e veramente amico d'onore e di virtù, e tanto degno di laude, che li medesimi inimici suoi furono sempre costretti a laudarlo; e quelle disgrazie che esso costantissimamente sopportò, ben furono bastanti a far fede che la fortuna, come sempre fu, così è ancor oggidì contraria alla virtù. Morti sono ancor molti altri dei nominati nel libro, ai quali parea che la natura promettesse lunghissima vita. Ma quello che senza lacrime raccontar non si devria, è che la signora Duchessa essa ancor è morta; e se l'animo mio si turba per la perdita di tanti amici e signori miei, che m' hanno lasciato in questa vita come in una solitudine piena d'affanni, ragion è che molto più acerbamente senta il dolore della morte della signora Duchessa, che di tutti gli altri, perchè essa molto più che tutti gli altri valeva, ed io ad essa molto più che a tutti gli altri era tenuto. Per non tardare adunque a pagar quello che io debbo alla memoria di così eccellente signora, e degli altri che più non vivono, indotto ancora dal pericolo del libro, hollo fatto imprimere e publicare tale qual dalla brevità del tempo m' è stato concesso. E perchè voi nè della signora Duchessa nè degli altri che son morti, fuor che del duca Juliano e del Cardinal di Santa Maria in Portico, aveste notizia in vita loro, acciò che, per quanto io posso, l'abbiate dopo la morte, mandovi questo libro, come un ritratto di pittura della corte d'Urbino, non di mano di Rafaello o Michel Angelo, ma di pittor ignobile, e che solamente sappia tirare le linee principali, senza adornar la verità di vaghi colori, o far parer per arte di prospettiva quello che non è. E come ch'io mi sia sforzato di dimostrar coi ragionamenti le proprietà e condizioni di quelli che vi sono nominati, confesso non avere non che espresso ma nè anco accennato le virtù della signora Duchessa; perchè non solo il mio stile non è sufficiente ad esprimerle, ma pur l'intelletto ad imaginarle: e se circa questo o altra cosa degna di riprensione (come ben so che nel libro molte non mancano) sarò ripreso, non contradirò alla verità.

Ma perchè talor gli uomini tanto si dilettano di riprendere, che

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riprendono ancor quello che non merita riprensione, ad alcuni che mi biasimano perch' io non ho imitato il Boccaccio, nè mi sono obligato alla consuetudine del parlar toscano d'oggidì, non restarò di dire, che ancor che 'l Boccaccio fosse di gentil ingegno, secondo quei tempi, e che in alcuna parte scrivesse con discrezione ed industria, nientedimeno assai meglio scrisse quando si lasciò guidar solamente dall'ingegno ed instinto suo naturale, senz'altro studio o cura di limare i scritti suoi, che quando con diligenza e fatica si sforzò d'esser più culto e castigato. Perciò li medesimi suoi fautori affermano, che esso nelle cose sue proprie molto s' ingannò di giudicio, tenendo in poco quelle che gli hanno fatto onore, ed in molto quelle che nulla vagliono. Se adunque io avessi imitato quella maniera di scrivere che in lui è ripresa da chi nel resto lo lauda, non poteva fuggire almen quelle medesime calunnie che al proprio Boccaccio son date circa questo; ed io tanto maggiori le meritava, quanto che l'error suo allor fu credendo di far bene, ed or il mio sarebbe stato conoscendo di far male. Se ancora avessi imitato quel modo che da molti è tenuto per buono, e da esso fu men apprezzato, parevami con tal imitazione far testimonio d'esser discorde di giudicio da colui che io imitava: la qual cosa, secondo me, era inconveniente. E quando ancora questo rispetto non m'avesse mosso, io non poteva nel subietto imitarlo, non avendo esso mai scritto cosa alcuna di maniera simile a questi Libri del CORTEGIANO: e nella lingua, al parer mio, non doveva; perchè la forza e vera regola del parlar bene consiste più nell'uso che in altro, e sempre è vizio usar parole che non siano in consuetudine. Perciò non era conveniente, ch'io usassi molte di quelle del Boccaccio, le quali a' suoi tempi s' usavano, ed or sono disusate dalli medesimi Toscani. Non ho ancor voluto obligarmi alla consuetudine del parlar toscano d'oggidì; perchè il commercio tra diverse nazioni ha sempre avuto forza di trasportare dall'una all'altra, quasi come le mercanzie, così ancor nuovi vocaboli, i quali poi durano o mancano, secondo che sono dalla consuetudine ammessi o reprobati: e questo, oltre il testimonio degli antichi, vedesi chiaramente nel Boccaccio, nel qual son tante parole franzesi, spagnole e provenzali, ed alcune forse non ben intese dai Toscani moderni; che chi tutte quelle levasse, farebbe il libro molto minore. E perchè, al parer mio, la consuetudine del parlare dell' altre città nobili d'Italia, dove concorrono uomini savii, ingegnosi ed eloquenti, e che trattano cose grandi di governo dei stati, di lettere, d'arme e negozii diversi, non deve essere del tutto sprezzata: dei vocaboli che in questi lochi parlando s'usano, estimo aver potuto ragionevolmente usar scrivendo quelli che hanno in sè grazia,

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