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simo poco è mancato ch' egli non gustasse amarissimi frutti: poichè già una parte de' popoli cospiravano colla regina sua madre, e col principe Emanuele; e s'intendevano con Napoleone, per riporre in seggio il re Carlo. Ma noi, per divino beneficio, siamo in condizione diversissima: tutti ci troviamo egualmente figli del santo padre; senza distinzione di meriti. Quelli che per l'età poterono provare il governo pontificio, e videro che se non era perfetto, prevalevano i beni ai mali; ne hanno conservato il desiderio. I giovani, cioè il maggior numero, hanno veduti e provati tanti mali,' che facilmente debbon credere migliore di tutti il governo più pacifico. Ma chi può vantarsi che il pontefice gli sia obbligato dell' acquistare o ricuperare questi paesi? Onde il principe, ed i ministri, hanno intera libertà di compartire le grazie, come la giustizia, la saviezza, ed anche il piacer loro vorrà. E chi sarà meno modesto e discreto che l'infimo de' sudditi, avrà gran torto. Perciò quando vedo ed ascolto alcuni, che voglion farsi troppo innanzi, e respingere i loro fra. telli; e quasi vorrebbero sedere a' lati del trono di Pio Settimo, e regnare con lui; son costretto a ricordarmi il ventesimo di san Matteo; e que' Zebedei, e quella vecchia stoltamente ambiziosa e quel giusto risentimento, audientes indignati sunt de duobus fratribus; e quella divina risposta, nescitis quid petatis. La quale risposta già mi par di udire anche dalla bocca di Pio Settimo, e de' suoi degni ministri. Sono anche persuaso che a quest'ora non dispiaccia Vostra Eccellenza reverendissima, che io dessi a chi ne abbisogna quel piccol cenno di usare modestia discrezione; e di non usare col governo importunità, nė arroganza.

E ciò feci perchè naturalmente amo, e vorrei che tutti amassero il bene e non per alcuno mio interesse. Io sono, Eccellenza reverendissima, un forestiere, di piccolissima qualità: e da molti anni mi trovo qui, per un piccolo ufficio di studi, che mi fu caro perchè mi lasciava studiare: del quale mio ufficio tengo e dico a tutti, che il governo presente disporrà, a suo beneplacito, senza che io ne dica una parola. Nè io vedrò dappresso Vostra Eccellenza, se già non fosse per ubbidirla; ma e qui e dappertutto, parlerò ben volentieri delle sue virtù; e specialmente della compassione agl' infelici e per fine, chiedendole perdono di questo mio scrivere, troppo lungo, e forse troppo alla semplice; m'inchino e bacio umilmente la mano

A Vostra Eccellenza reverendissima.

AMBROSOLI.

- IV.

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Al presidente della Società di lettura in Piacenza.

Vi scrivo come ad amico venerato e caro, come a persona insigne tra i buoni nel nostro infelice paese, come a presidente della nostra società di lettura, che sempre amerò. Voglio si sap. pia che ho deposto il nome di piacentino; il quale so certamente di avere onorato: rinuncio a Piacenza; dove per disavventura nacqui, e per mia stoltezza ritornai. Siane pur contenta la turba, che bastò ad ingannare e violentare il forestiere, il quale dispone di noi. Per quanto può l'uomo oggidi aver patria, ho fatta mia patria di affezione Firenze: qui ho deliberato vivere, e morire; se il destino consente che io pur viva e muoia in Italia. Qui spenderò quanto mi avanza di vita e di mente, a coltivare non bassi pensieri, e a scrivere. Qui studierò di pote re, almeno colle buone intenzioni, meritare le troppo cortesi e troppo amorevoli accoglienze, che dai supremi capi del potere, e da ogni gente ricevo: delle quali, mio malgrado, mi taccio i particolari; per non lasciare occasione a qualche maligno d'interpretare che io, sotto colore di gratitudine, voglia essere ambizioso di un mio assai piccolo infortunio, troppo piccolissima parte delle miserie italiane, e troppo compensato.

Ma per quanto io m' abbia cavato dal cuore Piacenza, e riempitolo di Firenze; non sono ingrato a Parma, dove tanto universale grido si alzò, vendicatore della giustizia e dell' onor mio: son gratissimo a Bologna, dove trovai questa volta raddoppiate le tante consuete amorevolezze; e dove i preti più celebrati per dottrina e per severità di costumi vollero spontaneamente dimostrarmi che niente abborriscono l'uomo, del quale non possono approvare tutte le opinioni: ringrazio tutti i buoni che da ogni lato d'Italia han voluto farmi sapere quanto amino la mia non mai turbabile costanza di rimaner sempre non timido amico al vero.

In così fortunato e glorioso esilio, che mi ha fatto e pubbli cato concittadino ad ogni buono italiano, desidero non separarmi dalla Compagnia, nella quale è raccolto il meglio di quella che fu mia patria. Se voi, riverito e caro presidente, se gli altri compagni lo comportano, io rimarrò sempre vostro farò pagare ogni anno anticipata per intero la contribuzione: manderò, come solevo, qualunque libro mi sarà donato. Bramerei sapere se piacerebbe alla Società che io un qualche di lasciassi stampare i discorsi che vi feci, e quelli che di qua forse vi manderò, quasi come se vi fossi presente.

Per ultimo vi prego, mio caro presidente, che vogliate certificare della mia non mutabile riverenza ed amicizia que'soci, ai quali vi parrà che sia a grado; e piacemi sperare non sian pochi ma certamente i nostri segretari Gaetano Dodici e Pietro Gioia; rari uomini, rari amici,

• quorum sapientia monstrat

Vervecum in patria crassoque sub aëre nasci

Magnos posse viros, et magna exempla daturos. ▾

NOTA. La Società gli concedette di esser avuto sempre come presente, e dar voto per procuratore. Di più con tutti i voti (meno uno) lo nominò suo presidente onorario perpetuo.

Prefazione al libro per la solenne dedicazione del busto di Luigi Biondi nella Villetta Di-Negro in Genova (1840).

Assai è noto con quanto di magnifica eleganza il marchese Giancarlo Di Negro abbia date molte solenni feste nella sua Villetta di Genova all' onore or di eroi italiani, or di suoi amici illustri. Innumerabili persone, in tutta Italia e fuori, conoscono la rara amenità del luogo, e quel maraviglioso prospetto di città e di mare, che il possessore cortesissimo concede liberalmente di godere ogni giorno a tutti: ed è famoso lo spettacolo ch'essa rende illuminata copiosissimamente in quelle notti festose; al quale concorre plaudente un popolo numeroso nel sottoposto passeggio dell' Acquasola. Similmente noto, poichè più volte ripetuto, è il rito della festa; e con qual pompa si porti e si accompagni alla sua destinata sede nel giardino il busto marmoreo di colui che si celebra: cantandosi dai musici un inno che il sire della Villetta ha composto. E ciò suol farsi dopo che alquanti poeti, che il marchese poetando precede, e prima di essi un oratore, hanno lodato il soggetto di tale solennità.

In quest'anno 1840, la notte del 28 di luglio, l'inno posto in musica dal maestro Novella, fu cantato dagli allievi della Scuola di canto. Amorevol pensiero del buon marchese; acciocchè i fanciulletti e garzoncelli da lui protetti, non tardassero ad entrare nel desiderio di meritar lode. Frattanto la moltitudine si disperde, per curiosità o per delizia, nel giardino, e poi, appagata delle variate bellezze, ritornando allo spazio coperto di tenda infiorata che poco prima accolse l'accademia letteraria, lo trova trasformato in sala di danzatori.

Piacque al signor Giancarlo che la solennità di quest'anno onorasse il suo illustre e diletto amico defunto Luigi Biondi: e

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dovette venirgli ben caro che maggior d'altre volte fosse il concorso de' forestieri; tra' quali splendeva grande e insolito numero di nobiltà e cittadinanza milanese. E caro dovett' essere all' oratore e ai poeti che il tema proposto a' loro ingegni, meno sublime di quello del 1837 (che fu uno de' maggiori e più sfortunati uomini di tutti i secoli) fosse tanto meno malinconico; e in vece di lamenti giustissimi contro l'ingratitudine non evitabile ai meriti supremi, potessero proporre un piacevole esempio di un vivere senza travagli e non senza decoro, che più facilmente si consegue da un'amabile mediocrità. Poichè a Luigi Biondi non fu impedito il farsi agiato, e conte e marchese. Ne per ottenere amore e riverenza dagli uomini liberi gli fu necessario di astenersi dalle invidiate (e invidiose) Corli; com'era consiglio del poeta cortigiano di Augusto. Per acquistare benefizi di principi e grazia di tre re, non gli bisognarono odiosi e turpi servigi, nè viltà di adulazioni: gli valsero quelle arti medesime che gli procacciarono in ogni parte d'Italia tante amicizie d'uomini lodati; l'ingegno polito e ornato di lettere, piuttosto amene che gravi; la conversazione urbanissima, la moderazione e decenza de' costumi, l'equabile perseveranza nelle affezioni. A lui (come si direbbe in istil vecchio, e con senso virgiliano) furono sopra ogni cosa dolci le Muse: provossi in vari generi di poesia; fece del suo; volgarizzò de' primari latini: piacque a coloro che sino ad oggi si ostinarono di avere in riverenza ed amore gli esempi sommi dell' arte; nè si smossero al sentire vituperata, quasi servile e caduca timidezza, la vereconda osservanza del vero o verisimile, e tra i veri la scelta amorevole e giudiziosa del buono e bello. Verrà forse grave a non pochi, ma di maraviglia a nessuno, che le romorose audacie della turba contraria fossero agramente riprese dall' oratore signor Lorenzo Costa, come temerità e follíe. Imperioso comunque tacito maestro il tempo quieterà le contese, che già troppo lungamente (e poco utilmente) strepitano; e forse darà il suo luogo alla ragione.

Lungi da noi la petulanza di lodare l'orazione e i versi, che ciascuno vorrà giudicare leggendo. Ben ci sarà lecito aggiunger la nostra debil voce alle tante che lodano e ringraziano il si gnor Di Negro, perchè gli giova mostrare ai ricchi e alle città come potrebbero cogli urbani piaceri comporre qualche nobil pensiero e utile esempio.

1 Cristoforo Colombo.

Di Carlo Giacomo Stuart e della sua spedizione come pretendente al trono d' Inghilterra.

Il coraggio e la costanza ottengono sempre ammirazione, ma non le avremo in pregio quando siano ministre di privata ambizione; bensì quando si travaglino (qualunque sia l'esito) alla felicità di molti. Questo bel giovane di 23 anni, saziato de' piaceri, delle caccie, delle brigate, degli ozî romani; stimandosi abbastanza sciente di guerra, per quel tanto che ne vide, poco più che fanciullo, sotto Gaeta; vuol fuggire le cose tranquille, e i suoi; correre lontano a forti fatiche certissime, a quasi certi pericoli della vita. Magnanimo giovane, se gli arde l'animo (quale d'un altro Moisè) a liberare un popolo dall' oppressura: abbracciamolo di tutto cuore, esaltiamolo, raccomandiamolo alla celebrità di tutti i secoli. Ma se non gli cape in mente miglior pensiero che di vivere più contento da re in Londra che da principe in Roma; io gli griderò acerbamente:

Dove e a che vai, temerario giovane? Puoi giocare la tua testa se ti piace ma quale coscienza ti mena con sì fallaci cupidigie, con sì ingannevoli speranze, a tirare a morte cotante migliaia d' uomini; che non ti fecero nessun male, che da te non avranno alcun bene? mettere in desolazione tante migliaia di famiglie, in devastazione tanta larghezza di paesi? E diamo (cosa appena possibile) che succedano le cose a tua voglia: sarà compenso degno a tanti danni, che l' economo di tre nazioni britanniche sia scozzese piuttosto che annoverese, si chiami Carlo Terzo piuttosto che Giorgio Secondo ? Dalla cacciata de' tuoi

1 Alla intelligenza di questa pagina potranno giovare le notizie seguenti: Nell'anno 1603, morta Elisabetta (Tudor), Giacomo VI re di Scozia (di casa Stuart) ereditò il trono inglese. Come re d'Inghilterra fu Giacomo I. Nel 1625 gli succedette il figliuolo Carlo I, che fini decapitato nel 1649. Suo figlio Carlo II ebbe il trono soltanto nel 1660, dopo la morte di Cromwell, già capo di quel movimento a cui era soggiaciuto Carlo, e poi, con titolo di protettore, sovrano assoluto dell' Inghilterra. Carlo II mori nel 1685 odiatissimo, lasciando il trono a suo fratello Giacomo II. Questi dopo tre anni di regno dovette fuggire, e si ritrasse a Parigi dove mori esule nel 1701. Al trono inglese, perduto così da Giacomo II, fu assunto suo genero Guglielmo d'Orange, governatore dell' Olanda. Il figlio di Giacomo II, fu vanamente riconosciuto re d'Inghilterra da Luigi XIV di Francia, con titolo di Giacomo II. Nel vero il trono inglese, perchè Guglielmo mori senza figli, fu tenuto per dodici anni da sua cognata Anna Stuart; è dipoi (1714) fu dato a Giorgio di Brunswick-Annover. Al tempo della spedizione di Carlo Stuart (figliuolo di Giacomo ancora vivente) regnava Giorgio II. In vece pertanto di un re di questo nome, se il pretendente fosse stato vittorioso, avrebbe regnato in Inghilterra un Carlo III. Agli Stuart nocque sopra tutto l'avere cercato di promuovere la religione cattolica abbassando la protestante.

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