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sono ordinate a' coetanei ed a'posteri, e non a'defunti. certo solamente colui che stanco de' vivi volesse scrivere pei morti, e guidato dalla Sibilla gire all' Eliso, e colà recare i suoi libri, colui solo dovrebbe scriverli al solo modo de' vecchi : e tutte fuggire attentamente le parole di nuovo trovate, per timore che quelle sante ombre non potessero ora intendere quelle cose che già in vita non poterono udire. E questo consiglio sarebbe a que' morti carissimo, e a tali scrittori necessario. Ma chi scrive a' vivi, come pur tutti facciamo, chi serive nodrito di tante belle ed alte dottrine che dopo quella età sopravvennero, e dopo si grandi e magnifici poemi che ne'seguenti secoli si cantarono, conoscerà che non tutto l'oro dell' italiana favella si trovò ne' confini del trecento: ma molto pur ne scuoprirono l'altre età e fu oro sì bello e vero che non potrassi gittare giammai senza oltraggio apertissimo di tutti que' classici che sono l'onore e il lume dell'italiana republica. Perciocchè si lasci quel che dice Boezio che atto di niunissimo ingegno è sempre usare le cose trovate e non mai trovarne egli è pur certo, che per tale consiglio questa favella di ricchissima che ella è, si farebbe la poverissima di tutte l'altre. Perchè dicendosi d'usare quella del solo trecento, bisognerebbe aggiugnere di voler poi lasciarne tutte quelle ree condizioni da noi di sopra considerate; e con questo direbbesi di volere scrivere con una sola parte d' una parte della universale favella. Conciossiachè parte di questa è la lingua del trecento: e parte di essa parte è quella che si sceglierebbe onde schivarne le qualità già dannate. E per tal modo, quasi fosse poco il ritrarre l'idioma dall'ampio cerchio di cinque secoli dentro le angustie d'un solo, si tornerebbe anche a restringerlo in più brevi confini, che già non era nello stesso trecento.

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E miserabile veramente se ne farebbe la nostra condizione; quasi fosse per noi destino il vivere da schiavi sempre; perchè, usciti così di fresco dal servaggio delle straniere voci, doves. simo ora cadere nel servaggio de' morti. Ma perchè incurvarci a sì strana catena? ridurci a si nuova guisa di povertà? far vane le cure e l'opere maravigliose di tanti ingegni? e spogliarci di tanta pompa ? e tremare in nudità maggiore che non fu quella de' vecchi? Questo al certo è consiglio non da prudenti: e lo diremo anzi simigliante a quello di colui che volesse farci dimenticare i velluti, le porpore e le delizie tutte dell' Italia vi

1 Di sopra. Nei capitoli IX-XII del primo libro.

2 Straniere voci. Le voci francesi usate da molti nello scorso secolo..

vente, per tornare a cingerci di cuoio, e d'osso, come già facevano Bellincion Berti e la donna sua.' Questo non sia; chè come tra' vivi ci restiamo, così scriviamo pe' vivi: e per essi adopreremo tutte quelle voci e quelle forme che ora da' letterati si conoscono per buone e nobili; e spezialmente quelle che, poste negli scritti de' grandi, furono poscia da altri grandi imitate. Nè permetteremo che di sfregio sì disonesto vadano offesi i sapienti autori del Vocabolario, che non nel solo trecento, ma da tutti gli ottimi di tutti i tempi tolsero e tolgono quell' ampio tesoro che è aperto a' bisogni dell' eloquenza, ed a mostrare l'ampiezza tutta e la forza di questa mirabile ed ancor vivente favella.

E finch' ella sia vivente si potrà sempre accrescere: tuttochè la licenza se n'abbia a concedere con grande parcità; e deggia poi farsi in ogni giorno minore. Imperocchè quanto più s'è ringrossata la massa delle voci, tanto più la favella è salita verso la sua perfezione; e quanto più ella è perfetta, tanto è maggiore il pericolo che le voci nuove sieno o inutili o avverse alla natura di lei. Ma perchè quelle cose che ancora non avessero un proprio nome che le significasse, si hanno a significare, i sapienti Accademici della Crusca nella prefazione al Vocabolario hanno promesso che saranno registrate anche le voci future le quali fossero di buona e necessaria ragione. E già nel 1786 elessero consiglio d'indicare molti autori da cui molte si togliessero. Del che sia lode a quell' Accademia così famosa: nè sappiamo quindi il perchè il valente Lami, che pur toscano era e si tenero delle glorie della sua patria, dicesse: il Vocabolario es. sere compilato quasi fosse di lingua morta. Perchè se il dice tale per gli esempli posti sotto le voci, egli danna un sussidio bellissimo agli scrittori, e il miglior modo per cui conoscasi il vero prezzo delle parole, e l'unica via per che si scuoprano i naturali loro collegamenti. Ma se dice il Vocabolario essere come di lingua morta, credendo che in quello non si vogliano altro che le voci dei morti, egli è del pari in errore. Perchè anzi in essa prefazione si legge « che l'Accademia ha seguita non la sola autorità, ma eziandio l'uso, come signore delle favelle vive: tale essendo la natura di queste, di poter sempre arrogere nuove voci e nuovi significati. » Non istaremo qui coi più rigorosi a cercare fino a qual punto sia stata messa ad effetto questa protestazione; nè quale sia l'uso seguitato dall' Accademia ; l' universale o piutVedi DANTE, Par., c. xv. E n'è cenno in questo Manuale vol. I,

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tosto il particolare. A noi basta il vedere ch'ella sapientemente concorre nell' assioma di Dante: Che lo bello volgare seguita uso, e lo latino arte. Ciò è a dire che la sola arte suole adoperarsi quando una favella è già tutta estinta: ma fin ch' ella vive, non può tanto seguirsi l'arte ch'ella si divida dall' uso. Per la qual cosa noi qui arditamente affermeremo che lo scrittore è come il Principe, che non regna sicuro se il popolo nol possa amare: e come non si occupa mai felicemente il trono col solo popolo, così nè anche senza il popolo si può lungamente tenere. Questo intesero e intendono gli scrittori classici di tutte le nazioni e di tutte l'età. Nè Cicerone e Virgilio amarono tanto i loro avi, che per quelli spregiassero i coetanei: scrivendo orazioni e poemi colle sole voci di Catone e di Curio. Nè Catone, nè Curio medesimi si erano partiti dall' usanza de' loro tempi adoperando le brutte voci de' Fauni e l'orrido numero di Saturno, o la favella che si parlò quando le vacche d'Evandro muggivano per lo Foro romano. I fondatori dell' eloquenza latina tentarono anch'essi di farsi nobili, siccome il tentarono sempre tutti i maestri delle nazioni nobili. E grande fu Livio Andronico e Plauto, che detto era la Musa decima; e Lucilio, che inventò la Satira; ed Ennio da Taranto, che ristorò l' Epica; e Lelio e Cecilio, che con altissimo animo recarono la tragedia e la Commedia greca sul pulpito di Roma. Ma comecchè veramente costoro fondassero favella e stile, e fossero creduti Classici, pure e Cicerone e Cesare e Lucrezio e Catullo e Orazio furono venerati anch'essi come maestri del dire: e spezialmente quando arricchirono il patrio sermone colle dovizie dei Greci. Gli eccellenti Italiani adunque si mossero a fare il simigliante: videro non essere possibile le cose epiche e le politiche scrivere colle sole parole de' padri loro: tolsero il fondamento e le norme dalla vecchia favella: nulla mutarono di ciò che era buono e prouto al bisogno: ma dove la conobbero scarsa per cantare armi ed eroi, e per dipingere le tremende arti dei re, recarono nella loquela tutte quelle dizioni che a bene spiegare si nuovi ed alti concetti mancavano. Così al modo de' saggi coltiva. tori fecero più bella e magnifica questa pianta, levandole d'intorno molte vane frasche e dannose, recidendone i rami già fatti secchi e da fuoco, e innestandovi alcuni altri tolti dai tronchi greci e latini: i quali subito vi si appresero, e tanto felicemente si fecero al tutto simili al tronco italiano, che più non parvero rami adottivi, ma naturali. Onde visti quei frutti novelli, la fama gridò ottimi e classici coloro per cui si produssero: e li pose al fianco del Petrarca e di Dante e di tutti i più solenni maestri. Non si può or dunque più gittare, ma tutto deesi adoperare che

fu materia a quei libri, i quali dureranno finchè vivrà memoria di noi. Che se si dovesse scrivere nella sola lingua de' vecchi, non solo faremmo danno alla copia dello stile, ma ancora alla nostra gloria. Imperciocchè si converrebbe dire e giudicare imperfetti tutti gli autori che dal trecento infino a questa età con intelletti sani ed anime dignitose scrissero, o poetando, o perorando, o filo. sofando. E se poi senza questi si dovesse venire al confronto dei Francesi, degl' Inglesi, degli Alemanni, non avremmo un' epopea, non una storia, non un trattato di filosofia che s'avesse più ardire di chiamar ottimo. Cosi al cospetto di quei nobilissimi popoli noi, svergognati e quasi mendichi, vedremmo questo superbo idioma, tolto dal primo seggio a cui si stimava innalzarlo, tra gli ultimi confinarsi; e noi rimanerci senza l'onore di quei libri onde viuciamo la gloria di molte genti, nè siamo ancor secondi ad alcuna. Aggiungasi che, salvo la divina Commedia, il Decamerone e il Canzoniere, gli altri volumi del trecento saranno meno validi a sostenere la guerra del tempo, e ne' lontani giorni sa. ranno o già perduti o non letti: ed ultimi potranno mancare nella memoria dei tardissimi posteri questi poemi del Furioso e della Gerusalemme, e queste opere di filosofi e di gravissimi istorici, perchè di tanto ci fa fede la fama che n' uscì non pure all' Italia, ma ai termini della terra. Quindi le cose scritte al modo di questi autori saranno sempre più lette e meglio intese, e più durevoli e più care a quanti amano Italia. Come dunque sbandire i preziosi vocaboli in tanto preziose carte riposti? Chi sarà così folle che voglia persuaderci ad abbandonarle ? e chi sì valente che il possa? Diremo anzi che il popolo, usato a commuoversi alla maraviglia, al terrore, alla pietà nel leggere questi autori, accuserebbe di freddi e digiuni coloro che non adoperassero quelle voci, quelle forme, quegli artifici, quegli stimoli onde ora egli è assuefatto a sentirsi dolcemente rapire, come per incanto, il cuore e lo spirito. Che se in questi più nuovi libri sieno talvolta alcune guise non belle, e alcune voci non elette, queste non seguansi; anzi si guardino come colpe: perchè, siccome già dimostrammo, nullo, per quanto siasi eccellentissimo, dee stimarsi mai interamente immacolato. Non tali però si credano tutte le cose che appieno non rispondessero con gli antichi. Basta che queste sieno state accolte per buone dai buoni, e imitate da loro, e per tali tenute nell' universale, e costantemente. Perciocchè stimiamo che della liugua affatto si avveri ciò che di tutte le umane cose affermava Pitagora quello, cioè, esser vero che si reputa vero.

DA UNO SCRITTO INTORNO LA MORTE
DI PANDOLFO COLLENUCCIO.

Introduzione e fine.

La memoria degl' infortuni de' sapienti parmi si debba raccomandare a' posteri, come quella degli onori e de' premî che riportarono per la loro virtù, e specialmente dove per la santa loro vita meritavano tutt' altra fine da quella che per l'ira della fortuna incontrarono; onde, perdutasi coll' andare del tempo ogni ricordanza della loro innocenza, non sieno i buoni confusi coi tristi, nè i giusti principi cogl' iniqui. Pe' quali errori la storia farebbesi strumento di ogni malizia; e scaldando gli animi al delitto, e facendoli freddi alle opere d' onore, non più sarebbe maestra della vita, ma consigliatrice d'ogni scelleratezza. Veggendo io adunque una grandissima discordanza di opinioni intorno la morte di Pandolfo Collenuccio, ed essendomi venuti a mano alcuni documenti singolari ed autentici, onde chiarire l'istoria del suo supplicio, ho fermato di farne memoria, affinchè, o di. strutte dalla età o disperse dagli uomini quelle carte che ne danno fede, non rimangasi incerto il caso miserabile di sì gran letterato, nè sia un tempo creduta giustizia di re quella che fu vendetta vilissima di tiranno.

L'autore racconta quindi come Giovanni Sforza Signore di Pesaro, per favorire Giulio Varano da Camerino, tenne più mesi in prigione il Collenuccio, lo spogliò d'ogni bene e lo esigliò; come più tardi, fingendosi ravveduto e rappattumato, lo indusse a ripatriare, dove dopo brevi carezze lo fece imprigionare di nuovo e ordinò la sua morte; trascrive un Inno alla Morte composto dal Collenuccio quand' ebbe notizia della sentenza, e il testamento scritto da lui poche ore avanti il morire; quindi conchiude:

Scritte queste cose il Collenuccio morì in quella carcere strangolato, serbando sempre quella sua costanza; la quale parmi molto vicina a' costumi d'Atene e di Roma ed agli esempli di Socrate e di quanti imitarono quel divino. Chè senza dubbio il suo nome sarebbe celebrato al pari di que' nomi chiarissimi, se in cambio di Pesaro egli avesse avuto per patria Atene e Roma. Laonde noi abbiamo voluto in parte emendare il difetto della fortuna, e mantenere memoria di questi ultimi suoi scritti, sì perchè non man

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