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M' opprime, e in tribunal ride, s'io piango;
E in corte e in chiesa indietro io resto, e fuora,
Se costui vien, che d'esser ricco ha il frutto
In ogni soglia. Chi ha danari, ha tutto.
Perciò sulle tue scale, o Ugon, se vedi
Dottrina a te prostrarsi, amor, giustizia,
Conte, duce e pretor leccarti i piedi,
Reverenza ti par ciò ch'è avarizia.
È idolatria dell' or quella che credi
Sacrata a te umiltà, lode, amicizia.
Questa che ti fa onor devota schiera
Teme pe' suoi danari, o ne' tuoi spera.
Chi l'òr che Pirro offria spregiar sostenne,
Chi spogliò Perseo, e ritornò mendico1
(Duri esempi!), avean sotto alle cotenne
D' ignuda probitate il fumo antico.

Ma tu cerca il danar, non dond' ei venne;
Il tempo a eroi pitocchi ora è nemico.

Dunque il mèl prendi, e lascia a quei le pecchie :
Di Mida hai l'òr, nessun vedrà le orecchie.2

IACOPO VITTORELLI, nacque in Bassano nel 1749 ed ivi morì nel 1835. Il suo unico pregio consiste in una leggiadra facilità di verso e lindura di stile.

Ascolta, o infida, un sogno
Della trascorsa notte:
Parevami le grotte

D' Alfesibéo mirar;
D'Alfesibéo, che, quando
Alza la verga bruna,
Fa pallida la luna,
Fa tempestoso il mar.
Padre (io gridai), nel fianco
Ho una puntura acerba :
Con qualche magich' erba
Sanami per pietà.

1 Chi spregiò l'oro offerto da Pirro, fu il console Fabricio; chi vinse Perseo ultimo re di Macedonia, fu Paolo Emilio.

'Di Mida ec. Mida re di Frigia ebbe da Bacco il dono di tramu tare in oro qualunque cosa toccasse: ma per aver preferito Pane ad Apollo cbbe le orecchie d'asino. Vedi Vol. II, pag. 187.

Rise il buon vecchio e disse:

Fuggi colei che adori.
Erbe per te migliori
Alfesibéo non ha.

Guarda che bianca luna !

Guarda che notte azzurra !

Un'aura non susurra,

Non tremola uno stel.
L'usignoletto solo

Va dalla siepe all' orno
E, sospirando intorno,
Chiama la sua fedel.
Ella, che il sente appena,

Già vien di fronda in fronda
E par che gli risponda :
Non piangere, son qui!
Che dolci affetti, o Irene,
Che gemiti son questi?
Ah! mai tu non sapesti
Rispondermi così!

FILIPPO PANANTI di Ronta nel Mugello studiò giurisprudenza nella università di Pisa, ma si diede intieramente alle lettere e alla poesia. Nel 1799 (aveva allora ventitrè anni) andò in Francia, e fu maestro in Soreze ma dopo due anni lasciò quel soggiorno; visitò la Spagna e l'Olanda; e andato a Londra vi si stabilì poeta stipendiato del teatro musicale. Più tardi volle ritornare alla sua patria, ma fu preso dai pirati d' Africa. Per intercessione del console inglese riebbe la libertà; e allora venuto a Firenze vi publicò le sue opere, cioè Il poeta di teatro, Prose e versi, Viaggio in Algeria: nelle quali ben può dirsi che spesse volte è negletto piuttosto che semplice, e si vale senza necessità di modi forestieri o non per anche accettati dalla conversazione delle persone meglio educate; ma piace nondimeno e merita di piacere per l'abbondanza delle locuzioni vive, efficaci, e per la costante disinvoltura. Morì nel 1837.

DAL POETA DI TEATRO.

Un Poeta.

Una mummia il poeta par che sia,

E un di quei stenterelli secchi secchi;
Non si sa come stia su quei due stecchi.
Ha un viso lungo lungo rifinito,

Che pare uscito fuor dello spedale;
Ha una barbuccia che pare un romito,
Un codin come quello del maiale :

Un cappello che sembra un spicchio d'aglio,
E che ripara l'acqua come un vaglio.
Ha un vecchio vestituccio di stamina
Con le maniche tutte rattoppate;
Regge le tasche con una forcina,
E son dentro di pelle foderate;

E quando è a qualche buon desinaretto,
Vi fa sgusciare un' ala di galletto.
Ha un par di calzonucci corti corti,
Che un spauracchio si potrebbe farne;
Invece di botton, due spilli torti
Che sempre gli punzecchiano la carne,
E quando gli si attaccano alla pelle,
Il povero signor vede le stelle.
Nere ha le calze, tutte bucherelli,
Ma l'ingegno vien subito al riparo;
Se le incinfrigna con due punterelli,
E inzuppa un bel ditin nel calamaro :
Ogni dì dà le scarpe al ciabattino,
Ma le dita fan sempre capolino.3

2

Modi tenuti dall' autore viaggiando a piedi per farsi conoscere u nato bene. n

2

Di tutto io faccio dalla parte mia
Per poter meritar questo rispetto;
Me ne vo adagio adagio per la via,

Per mostrar che lo fo per mio diletto;

Vi fa sgusciare. Vi fa scappar dentro.

Incinfrignare per Ricucire alla peggio, dicesi in molti luoghi di To scana. E dicono anche Rinfrtnzellare. Vedi FANFANI, USO Tosc.

3 Fan ec. Cioè sporgono, escono alcun poco dai buchi.

AMBROSOLI. IV.

17

Per mostrar che ho da spender, si domanda,
Dove si trova la miglior locanda.
Mi do anco l'aria di naturalista;
Vado osservando con il capo basso,

Ed un' erba od un fior strappo, o fo vista;
Or metto in tasca una conchiglia, un sasso:
E quando mi do l'aria di pittore

Sto un punto a contemplar delle mezz' ore.'
Quando son presso a qualche paesetto,

2

Vo dietro a un ciglio, o in qualche fossatello;
E se sudato son seggo un pochetto:

Mi spolvero la veste ed il cappello ;
Poi, dove scorre una fontana pura,
Mi rifò bella tutta la figura.

Poi quando sento che non son più stanco,
Cavo di tasca un paio di scarpini,

3

Mi metto al collo un fazzoletto bianco,
Tiro fuori la gola 3 e i manichini,
Mi rilego la coda, e sulla testa
Mi do una nappatina lesta lesta.
E poi giù me ne vengo passo passo,
E preso son per un villeggiatore

Che fuor del luogo è andato un poco a spasso;
Dall' artigiano e dal lavoratore
Delle gran scappellate mi si fa,
E son fin preso per il podestà.
Entro all' alloggio con disinvoltura,

E dico: Ho fatto conto di restare.
Se chiedon dove è la cavalcatura,
Rispondo Volean farmela pigliare ;
Ma è il più bel giorno che si può vedere,
Ad ire a piedi gli è proprio un piacere.
E per non aver l'aria d' esser stracco,
Sembro per la cucina un terremoto,
E ripeto a ogni po': Corpo di bacco,
Fa veramente bene un po' di moto!

1 Sto delle mezze ore a comtemplar un punto. 2 Ciglio o ciglione è Terreno rilevato. 3 La gola. Il collo o colletto della camicia. Mi rilego la coda. Allude all' usanza di lasciarsi crescere i capelli alla nuca e portarli ravvolti e legati. Mi do una nappatina (da Nappa, che è l'unione di più fili di seta, lana od altro) significa: Mi do colla nappa la polvere ai capelli, m'inciprio i capelli.

Se volesser sapere dove io stassi,1

Rispondo Sto qui oltre a quattro passi.

MICHELE COLOMBO nato a Campo di Piera, picciola terra tra Venezia e Trevigi, ai 5 di aprile 1747, prese l'abito e gli ordini tutti di sacerdote senza darsi per questo al ministerio sacerdotale. La sua vita fu al tutto aliena dai casi publici, e quanto mai dir si possa privata e modesta. Stette come maestro ed educatore per undici anni presso il conte Folco Lioni di Ceneda; poi in Conegliano presso il conte Piero Caronelli; poi in Venezia ed in Padova presso G. B. Da Riva; e finalmente in Parma fu educatore e maestro del cav. G. Bonaventura Porta, che poi per quarantadue anni lo ebbe ospite, amico e compagno, e nelle cui case morì il giorno 17 giugno 1838. Le sue cure e i suoi studi furono sopra tutto intorno alla lingua italiana: la quale diligentemente promosse coi precetti e coll' esempio.

Varie specie di affettazione nello scrivere,

E' ci ha di quelli che mettono infinito studio nelle parole, sicchè par che si piglino molto minor cura de' concetti, che del modo di esporli. Questi gran cercatori di parole sono di più fatte. Alcuni vogliono che quanto ha di più splendido e sfarzoso debbasi trovare ad ogni patto nel loro dire. Hanno perciò ricorso alle figure più luminose, e queste affastellano di tal maniera, che tu sei sopraffatto da un continuo bagliore; e ti par d'essere côlto da un di que' temporali in cui l' un lampo senza interruzione succede all' altro. Tali sono per lo più gli scrittori del secento. Altri non isplendidezza ma dignità affettano nel favellare. Grave è il loro stile, e maestoso l'andamento de' lor periodi ma questi sono soverchiamente lunghi, compassati, rotondi, e pressochè tutti lavorati sulla stessa foggia; ci si trovan continue trasposizioni, per lo più maggiori di quel che comporta la lingua nostra, e non di rado con discapito sommo della chiarezza. Certo l'orecchio se n'appaga; ma la mente se ne stanca; e il dicitore saggio parla alla mente e non all' orecchio. Caddero in questa sorta di affettazione non pochi scrittori del secolo decimosesto; e pare a me che moltissimo vi pecchi uno de' più gran letterati di quella età, voglio dire il cardinal Bem1 Stassi, dassi. Generalmente si scrive stessi e déssi.

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