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Scitiche lance e i disastrosi piani

Non pria tentati e i gran deserti e i fiumi,
Tanti forti abbattea che non umano
Ivi ardimento a perigliar condusse ;
E tra 'l ferro nemico e la vincente
Commossa per sua man fiamma cadea
La magnanima Mosca, e a lei fea plauso
Da paventosa meraviglia presa
La sorella regal, che quella luce
Vedea splender sul mare; allor che fiero
Portento incomportabil di quel cielo
Parve si tosto, e su le gelid' ale
Fuor dagli antri rifei borea fu mosso.
Tal su l'aere un rigor corse, che i fiumi
Restâr subitamente, e di lor foga
Impediti i volanti e piombar d'alto
Fûr visti, e l'arme frangersi, e le vesti
Indurir su le membra, e sostar tosto
Attoniti pel campo i corsier vinti.
Che val, miseri, allor voce, nè sprone,
Ne l'instante flagello? Entro i lor petti,
Ogni spirto guerrier dorme, chè l'ossa
Possiede un gel di morte, e irresoluto
D'atra piaga depasce il sangue bruno
L'umide nari, e d'un medesmo fato
Cadon le torme: sul funereo piano
Stanno i vasti cadaveri, e repente
In confuso tenor ferve pedestre

La facenda e 'l conflitto, e come sempre
Più s'addensan le morti, inerti e sparse
Stan le salme di guerra e le gran ruote
E le predate spoglie e i cavi bronzi
Di morte, e i derelitti egri guerrieri
(Ahi vista miserabile!) a' fuggenti
Dai plaustri querelandosi; nè intanto
La bufera crudel resta e la neve
Combattuta nell' aëre, e per entro
Il tumulto e le grida e i feri scontri.
Dov' eri allor? qual su l'amato capo
Pendea turbin di guerra? ove più oprasti
La giovin destra? e quale era il tuo fato,
Fratel mio, de la vita a me più caro ?
Ahi! che le senza te tornate schiere

E i presaghi del ver sogni e un segreto
Sentimento del cor troppo mi parla !
Vanto d'eletta schiera, amor deʼforti,
Di mia patria speranza, onor de' tuoi
Come cadesti, ahimè! qual duol, qual morbo,
Qual, mietea cruda man sì gentil stame?
Miser! chi sa se l'alterezza e l' onte
Del tuo superbo vincitor, cui forse
Tu pascevi i cavalli, e la perduta
Speme di libertate il non servile
Per disdegnoso duolo animo vinse?
Chi sa se la nemica ira fuggendo
Di selva in selva e de le fere il morso
(Gelo in pensarlo) te solingo, errante,
Non soccorso, non visto alfin le lunghe
Fami domâro e le rigenti brume?
Come cadesti, ahimè ! qual più de'tuoi
Ne l'ultimo sospir chiamasti a nome?
Lasso chè invan la pia madre e l'amante
Genitor sospirasti e il fratel tuo
D'amor più che di sangue; e niuno al seno
Di noi ti strinse, nè il fuggente spirto
Raccolse, e niun ti disse il vale estremo.
Ne l'infelice tuo fato, nè quella
Che di tanto desir, di tanta speme
Cara e trista memoria a noi sol resta,
A me di carme generoso e quale
A l'estinte si debbe alme de' forti
Lice onorar; chè nel turbato petto
Tace ogni nobil estro, e da mia vena
Non tragge assidua doglia altro che pianto!
Se non che forse, se avverrà che prive
D'alcun favor non sién queste ch'io spargo,
Come consiglia amor, pietose note

Da' cenomani colli, al mio lamento
Itale madri sconsolate, o caste
Vergini amanti, e vedovate spose
Risponderanno, e quanti al pianto invoglia
La congiunta pietade. Onor del prode
È il publico compianto, e si fa meno
Il dolor ne le afflitte alme diviso.

DAL DUE NOVEMBRE.

Sull' emiciclo riservato ai suicidi ed agli acattolici.

Ahi terra

Sconsecrata, ove lagrima non cade
Di congiunto, ove tumulo non sorge,
Non sasso ricordevole, non croce !
Quanti ardete captivi in disperata
Fiamma d'amor, quanti de' mali al fondo
Folgorò la sventura, o in cui, sommossa
Da tempeste frequenti, o in nubi avvolta
D' ingenita mestizia, o affascinata
Ad esche insane ed a maliarde fonti,
Ragion non regna in sua balia secura,
Paventate accostarvi. Il proprio ferro
Vibrâr questi furenti al proprio petto.
Qual fin, qual corso di colpabil vita

A questi, rei del proprio sangue, misti
Qui condanna a giacer quest' altri estinti?
Dal cattolico ovile agne divise

Spirâr costoro, e non gli accolse in grembo
La Sposa di Gesù: ma, come vivi
(Tua mercede, o Sofia), non paventaro
Ceppi, nè rogo insegnator di fede,
Cosi nè man che d'anatéma armata
L'avel n' espugni, e le reliquie al vento.
Ne disperda, ei paventano sepolti.

PEL RITRATTO DI F. U.

Ecco il profugo amico, ecco le care
Forme, sant' opra di paterno affetto;
Ecco il pensier, più che le forme, obbietto
Di man sdegnosa di lavor vulgare:
Ecco un lustro di affanni, ecco le amare
Sue pene impresse in quel parlante aspetto,
E il sospir del natio dolce ricetto

Ch' Appennin parte, e cinge l' Alpe e il mare: Ecco i vestigi de' trascorsi eventi

In quel sembiante, come in guasto campo,
Ov'abbia il nembo imperversato e i venti:

Ecco il doppio periglio, e il doppio scampo,
E la speranza di men rei cimenti,
Come in nubilo cielo incerto lampo.

GIOVANNI GHERARDINI. Chiunque abbia conosciuto Giovanni Gherardini, dovette maravigliarsi trovando in quello scrittore tanto irritabile, e spesso anche mordace, un uomo di rara urbanità e modestia, di conversazione costantemente piacevole e amabile. Avviato dal padre alla medicina, nella quale fu laureato dottore, esercitò per qualche tempo quella professione; ma attese sempre di preferenza alle lettere. E da principio coltivò la poesia, e tradusse in versi sciolti gli Amori delle piante di Erasmo Darwin, per tacere di altri lavori di minor mole, ma non per questo meno pregevoli. Fu dal 1806 al 1814 compilatore del Giornale Italiano: lo diresse con fama di ottimo cittadino, e scrisse moltissimi articoli assai lodati sopra argomenti scientifici e letterari. Entrò dei primi (fino dall'anno 1811) nella controversia lungamente famosa della lingua, alla quale più tardi doveva poi rivolgere intieramente il suo ingegno e la sua rara operosità: e vi entrò con quello spirito di libertà alcun poco battagliera allora comune a molti, e vi durò costante fino all'estremo. Nel 1812 publicò una Serie di voci italiane ammissibili benchè proscritte dall'elenco del signor Bernardoni (col quale visse poi sempre amicissimo), e ne inviò un esemplare a una dama con questi versi :

« Quell' io che fui già interprete

Delle amorose piante
Or torno alle grammatiche
Retrogrado pedante :
Torno; ma sol per rompere
A' despoti la fronte:
Vinta la pugna, intrepido
Risalirò su 'l monte. >>

E vinse realmente la pugna, ma non risali sul monte; nè per questo rimase pedante. Non voglio dire con ciò, che il Gherardini non abbia più scritte poesie dopo d'allora, ed anche poesie meritamente lodate: ma la sua celebrità mentre visse non fu di poeta; nè il suo nome avrebbe certezza di durare a lungo, come durerà senza dubbio, nella stima e nella riconoscenza dei posteri, se

non avesse perseverato in quella via per la quale si mise con quel libretto. Caduto il regno d'Italia cessò dall'ufficio di giornalista, scrisse alcuni drammi, tradusse il Corso di letteratura drammatica di A. G. Schlegel, scrisse gli Elementi di poesia ad uso delle scuole, fu dal 1819 al 1821 professore di storia nel liceo Longone; e quando quella cattedra fu trasferita ad altri, cooperò validamente alla Collezione delle Opere classiche del secolo XVIII publicata dalla Società tipografica de' Classici italiani in Milano, fino al 1824: nel quale anno poi un suo zio materno, facendolo erede d'una ricca sostanza, lo tolse alla necessità di vendere (come diceva egli stesso) a dramma a dramma l'ingegno oppresso ma non ancor dómo. E che non fosse ancor dómo ne fecero testimonianza non dubbia i molti volumi publicati di poi; nei quali non sai se più abbondino o la dottrina e l'erudizione filologica, o la ricchezza della lingua e la vivacità delle imagini e dello stile; benchè una fiera paralisi percotendolo nella parte destra del corpo lo costringesse per due anni (dal 1834 al 1836) a giacere senza poter nè anche leggere. Riavutosi da quel malore, che gli lasciò un leggiero distorcimento della bocca (a cagione del quale, più che di una cotal.debolezza delle gambe da lui qualche volta accusata, ne' ventisei anni che sopravisse, non volle più esser veduto per le vie di Milano), riprese i suoi studi, e scrisse le Voci e maniere di dire italiane additate a' futuri vocabolaristi, l'Appendice_alle_grammatiche italiane, la Lessigrafia italiana e il Supplimento a' vocabolari italiani; colle quali opere mentre rese un segnalato servigio alle nostre lettere, assicurò al proprio nome una lunga celebrità. Nelle Voci e maniere e nel Supplimento a vocabolari potè essere considerato come continuatore della Proposta del suo amico Vincenzo Monti; e nella prima si compiacque anche di farne rivivere talvolta la sdegnosa vivacità: ma può dirsi che se il Monti, diffondendo per tutto lo splendore del suo ingegno poetico, ci diletta e ci attrae più fortemente, il Gherardini, accoppiando a più pensata dottrina molto maggior ricchezza di fatti o di esempi, ci è più sicuro maestro e più utile esempio. Della dottrina posta e seguíta da lui così ragiona egli stesso nella prefazione alle Voci e Maniere:

« Secondo il modo che io considero le cose della lingua, mi pare che s'abbia a far differenza tra nudi vocaboli e forme di

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