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Sicilie, dopo aver travagliata la casa normanna, volsero le armi sacre e le guerriere contro la sveva. Sempre perdenti, ma incapaci ad essere oppressi e disfatti, risorgevano dopo le perdite più adirati e nemici.

Clemente IV papa, nell' anno 1265, poichè tre papi che lo precedettero avevano tentata vanamente l'ambizione di Enrico III re d'Inghilterra, instigò contro Manfredi il fratello di Luigi re di Francia, Carlo d'Angiò, famoso in armi; che, viepiù spinto dalle irrequiete brame della moglie, venne con esercito all' impresa. Coronato in Roma re delle Sicilie (1266) passò nel regno e combatte Manfredi accampato presso Benevento. La virtù dello Svevo non bastò contro la fortuna del Franco e l'infame tradimento de' Pugliesi mori Manfredi nella battaglia. Carlo stava contento sul trono, quando Corradino figlio di Corrado, venne a combatterlo (1268). Il giovinetto, vinte in Italia le città guelfe, vincitore in Tagliacozzo dove gli eserciti si affrontarono, godevasi nel campo le gioie della vittoria e le speranze dell'avvenire, allor che il re gli spinse contro fresca legione, tenuta in serbo; così che Corradino, disfatto, fuggitivo e poi tradito, fu prigioniero del felice Carlo e un anno appresso, per crudeltà di quel re o consiglio del pontefice, ebbe (quell' ultimo figlio della casa sveva) troncato il capo. La stirpe degli Angioini si stabili nel regno delle Sicilie.

Ella diede sei re, due regine: dominarono 175 anni tra guerre esteriori ed interne. Per opera di quei re angioini furono morti Manfredi e Corradino, re svevi; poi Andrea e Giovanna I, della propria stirpe: l'altro re, Carlo da Durazzo, sorpreso negli inganni che ordiva alle due regine di Ungheria, fu ucciso: Ladislao mori di veleni oscenamente prestati. Ai tempi loro per il vespro di Giovan di Procida furono uccisi ottomila francesi, dominatori della Sicilia: de' tempi loro fu il parteggiare continuo de' baroni del regno per opra loro, nato lo scisma nella Chiesa, due o tre papi contemporanei divisero le spoglie della sede apostolica e le coscienze de' popoli cristiani. Carlo I e Ladislao avevano virtù guerriere, aveva Roberto prudenza di regno; questa e quelle oscurate dai vizî del sangue. Gli altri re della stirpe furono flagelli del regno.

Alfonso I di Aragona, dopo che fugò Renato, ultimo degli Angioini, stabili nell'anno 1441 la dominazione degli Aragonesi, che fini nel 1501 con la fuga di Federico. Dominarono in manco di 60 anni cinque re di quella casa, quattro dei quali, Ferdinando I, Alfonso II, Ferdinando II e Federico, s'ingomberarono sul trono nel breve spazio di tre anni; anche interrotto il regnare

dalle felicità e dal dominio di Carlo VIII. Quella stirpe aragonese, superba e crudele, mosse o respinse molte guerre, abbattè le case più nobili e più potenti del regno, impoverì l' erario, suscitò tra' baroni gli umori di parte. Le quali divisioni ed universale fiacchezza causarono che lo Stato, da potente regno, cadesse a povera provincia di lontano impero. Ritenga la memoria degli uomini che in poco più di tre secoli e mezzo regnarono quattro case, ventidue re, senza contare i transitori dominî di Lodovico re d'Ungheria, del papa Innocenzo IV, di Giacomo d'Aragona e di Carlo VIII: ritenga che per pochi tempi di pace si tollerarono lunghi anni di guerra; che per travagli sì grandi avanzò la civiltà; che in tanti mutamenti fu osservato essere vizio dei Napoletani la incostanza politica, ossia l'odio continuo del presente e 'l continuo desiderio di nuovo Stato cagione ed effetti delle sue miserie.

Quando Federico, ultimo degli Aragonesi, combattuto dal re di Francia, tradito dal re di Spagna suo zio, fuggì d'Italia, i due re fortunati, nel dividere l'usurpato regno, per luogotenenti ed eserciti combatterono: Consalvo il gran capitano restò vincitore; il regno intero cadde a Ferdinando il cattolico, e sotto forma di provincia fu da vicerè governato. Cominciò il governo vicereale che per due secoli e trent'anni afflisse i nostri popoli. Primo de' vicerè fu lo stesso Consalvo.

Mutarono gli ordini politici. Per magistrato novello, detto Consiglio Collaterale, gli antichi magistrati decaddero di autorità e di grido; la grandezza dei ministri dello Stato scemò; gli uffiziali della reggia restarono di solo nome, l' esercito sciolto; l' armata serva dell' armata e del commercio spagnuolo; la finanza esattrice risiedeva nel regno, e fuori la dispensiera di danaro e di benefizî. I feudatari abbassati da che senz'armi, i nobili avviliti nel consorzio di nuovi principi e duchi per titoli comprati. I seguaci di parte angioina, benchè tornati per accordo di pace agli antichi possessi, ricevevano poco e tardi; erano spogliate le parti sveva e aragonese; Ghibellini e Guelfi al modo stesso travagliati; tutto andò al peggio.

E così passarono, ora più ora meno infelici, due secoli di servitù provinciale sino a Filippo V e Carlo VI. Imperarono in quel tempo sette re della casa di Spagna, da Ferdinando il Cattolico a Carlo II; e travagliarono in vario modo e principi e regno trenta romani pontefici, da Alessandro VI a Clemente XI. Si ebbe gran numero di vicerè, de' quali alcuno buono, molti tristi, parecchi pessimi. Il dominio della casa spagnuola finì per la morte di Carlo II nell'anno 1700; ed in quello ha termine la storia di Pietro Giannone.

La battaglia di Marengo dopo l'arrivo del generale
Desaix sul campo.

Alle quattro ore dopo il mezzogiorno giunto Desaix, il primo consolo, correndo quelle file, diceva: «Abbiamo dato indietro assai passi; è tempo di avanzare, per poi riposare nella notte, come è nostro costume, ne' campi della vittoria. » I resti più numerosi de' Francesi accampavano a Sangiuliano, dove Desaix venne, e dove il generale Zach andava, certo di vincere, con cinquemila soldati. Ma lo affrontò in ordinanza, quasi uscito di terra, esercito francese; ed essendo impossibile al Tedesco evitar la zuffa o aver soccorso, però che già da due ore i volteggiamenti delle due parti andavano soli senza ordini, senza nesso, senza capo supremo, a consiglio di molti capi e della sorte, smarrisce, ma pur combatte con valore alemanno: muore Desaix; Kellermann, generale di Francia, corre con mille cavalli sopra Zach, e, tre volte traversando la linea de'soldati, uccide, abbatte ed imprigiona i resti col suo capo. Procedono lo stesso Kellermann e Murat e Boudet, che teneva le veci di Desaix, contro gli altri corpi, i quali, vedendo la meravigliosa schiera, tornano fuggitivi verso Marengo i Francesi, che poco innanzi difendevano a mala pena il piccolo terreno dove trista ventura li aveva ridotti, prorompono nel piano e uccidono e fugano i troppo assicurati vincitori. Così cambia della fortuna il favore e la faccia.

Si riparano i fuggitivi a Marengo e a Pedrabona, per dar tempo agli avanzi della disfatta di valicare la Bormida; e però, combattendo sino a notte piena, quanti poterono ripassare il fiume posero il campo sotto Alessandria. Furono morti e feriti nella battaglia settemila dei Tedeschi, settemila de' Francesi; perderono inoltre i Tedeschi tremila prigionieri, venticinque cannoni, altre armi e bandiere; tra' morti e feriti d'ambe le parti si contavano parecchi generali e numero grande di uffiziali minori, ma più compianta dalle schiere e dalla Francia fu la morte di Desaix. Il valore degli eserciti fu grande; il primo console non combattè:1 lentezza ne' Tedeschi al mattino; ordinanze poco sapienti incontro alle ordinanze de' Francesi; tutte le schiere tedesche impegnate, combattenti senza ultima riserva; nessuno assalto estremo, nessuna azione, facile nelle fortune, ardimentosa; e d'altra parte ostinato proponimento del primo console, arrivo al maggior uopo del generale Desaix, sorte, destini, furono le cagioni della vittoria de' Francesi.

1 Non combatte, se non quanto fu necessario per aspettare Desaix.

AMBROSOLI. IV.

7

La notte, dispensiera benigna di quiete, passava dolente al campo alemanno e dolentissima al capitano; nè riposavano i Franchi, perchè intenti a ricomporre le scemate schiere, e valicar nel mattino la Bormida. Melas, veterano di guerra, sventurato, incerto tra pensieri vari, avendo incontro esercito forte e vincitore, alle spalle in Acqui l'esercito di Suchet, con se poche squadre e sconfidate, i generali migliori o morti o feriti o prigioni; convocato consiglio ed avuto più rimproveri che ristoro alla sfortunata vecchiezza, decise in animo di concordar col nemico il passaggio dell' esercito nell'alta Italia, per così adunare sessantamila soldati su le sponde del Mincio; appoggiare il dosso agli Stati dell'Impero; e cominciare con migliori auspicî nuova guerra. Diceva sovente nel suo dolore, nè saprei se a maraviglia o a conforto: «La battaglia era vinta per noi, ma quegli è l'uomo del destino. » Gli lacerava il cuore l'avviso decantato della vittoria, ed arrossiva della vergogna di mandare altri nunzi di dolenti venture. Aveva scritto nel primo foglio: «Per lunga e sanguinosa battaglia ne' piani di Marengo, le armi di S. M. l'imperatore hanno battuto compiutamente l'esercito francese condotto in Italia e comandato nell' azione dal generale Buonaparte. Altro foglio dirà i particolari della battaglia, ed i frutti della vittoria, che nel campo stan raccogliendo i luogotenenti generali Ott e Zach. Di Alessandria, il 14 di giugno del 1800, al cadere del giorno. » Poi scrisse:

<< Cadendo il giorno, il nemico, afforzato da esercito novello, combattendo negli stessi campi di Marengo per gran parte della notte, ha battuto il nostro esercito vincitore nella giornata. Ora noi, accampati sotto le mura di questa fortezza, raccogliamo i miseri avanzi della battaglia perduta, e consultiamo de' rimedi per quanto ne concede lo stato delle cose, o la fortuna del vincitore. Di Alessandria, alla mezzanotte del 14 al 15 di giugno. »

Alla prima luce del giorno, le già formate colonne dei Francesi assalirono il campo che guardava i`tre ponti della Bormida; e lo espugnavano, se Melas non mandava oratore a Buonaparte per trattare accordi e poichè l'esercito francese abbisognava di riposo e di migliori ordinamenti, il primo console mandò negoziatore in Alessandria il generale Berthier.

Battaglia di Trafalgar.

Il di 21 (ottobre 1805) si affrontavano (Nelson e Villeneuve) nelle acque di Trafalgar, e seguì battaglia sanguinosa, stupenda per virtù per valore; della quale non fo racconto, perchè ser

bato allo storico felicissimo delle geste di Francia; e solamente ne dirò quello che importi alla piccola nostra fatica, o che, per la maraviglia de' casi e per gl'insegnamenti che ne derivano, diviene istoria di ogni età e di ogni popolo.

Gl' Inglesi con quaranta navi restarono per ardite ordinanze vincitori di nemico più forte: imperciocchè Villeneuve sperava dar battaglia in linee parallele; e Nelson, procedendo a colonne, sfondava in due punti l'ordinanza francese, e combattendo con tutti i suoi legni parte dei legni del nemico, la inferiorità scom. pariva. Gli ordini paralleli rammentano in terra e in mare la infanzia della tattica; e può giovarsene un capitano quando abbia maggior forza e libertà di movimenti: chè l'andare così formato al nemico può esser utile, lo aspettarlo è danno. Perderono i Francesi per difetto d'arte; ma quanto in uomini possa valor di guerra, disciplina, pazienza, disperazione, mostravano in quel giorno. Il vascello che aveva nome il Redoutable perdè, sopra seicento quarantatrè uomini di equipaggio, cinquecento ventidue morti o feriti; all' Achille si apprese il fuoco, e nell'incendio combatteva; le trombe ad acqua erano spezzate, mancavano i mezzi di salvezza; le batterie una dietro l'altra bruciavano, bruciavano gli alberi, le antenne; era inevitabile e vicino lo scoppio della polveriera. E allora tre vascelli nemici si slontanarono, e i difensori dell' Achille, volgendo un guardo mesto a sè stessi, provvedevano a salvarsi, altri a nuoto, altri sopra tronchi di legno gettati in mare. Fu visto, spettacolo sublime, andar gl' Inglesi sopra piccole barche intorno all' incendio per aiutare e raccôrre que' fuggitivi: ponendo a rischio la propria vita per salvarla ai Francesi, non più nemici, ma uomini commiserevoli. Così pochi scamparono, saltarono gli altri col vascello allo scoppio delle polveri. Andò preso il Bucentoro (la capi tana sulla quale era Villeneuve) con altri sedici vascelli, e prigioniero l'ammiraglio con quanti restavano sopra quelle navi. Nè fu allegra la vittoria per gl' Inglesi, che videro uccisi oltre due migliaia dei loro prodi, e i propri legni guasti, e dei legni predati due soli capaci di entrare in porto rimorchiati. E maggiore di ogni perdita fu la morte dell'ammiraglio Nelson, primo capitano di mare per eccellenza d'arti e per ardimento e fortuna: morì su la capitana il Victory, di palla di spingarda; bea to, perchè in tal punto, che la vittoria era certa.

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