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Passò poscia a Brescia, e vi cominciò ad insegnare a quella gioventù i precetti della grammatica e della rettorica, e quivi, pago d'una decente mediocrità, vivea tranquillo. Ma l'anno 1438 essendo venute le armate di Filippo Maria Visconti, duca di Milano, intorno a Brescia per istringerla quindi d'assedio, e a questo flagello aggiugnendosi la fame e la peste, disperato il Concorreggio fu costretto d' uscirne, lasciandovi la famiglia, con intenzione però di trarnela quanto prima. Si recò intanto a Cremona, ove passati pochi giorni cadde ammalato si fieramente, che dopo essere stato in estremo pericolo di morte a gran fatica pur si riebbe in capo a due mesi. In questo frattempo eragli morta di pestilenza la moglie, unita. mente a due figliuoli. Affitto e misero corse egli a sfogare i suoi mali in seno del suo caro amico e precettor Vittorino, che trovavasi allora a Borgoforte, luogo del Mantovano, e con lui si stette alcun tempo. Calmata Ja pestilenza accompagnò Vittorino a Mantova, col quale visse ancor buona pezza. Finalmente, vinto dai consigli di lui, si risolvette d'ammogliarsi novellamente con una fanciulla Veronese. Intanto era riu. scito al conte Francesco Sforza, generale dei Veneziani, di liberar Brescia dall' armi del Duca di Mi. lano, che da molto tempo affliggevanla con stretto assedio. I Bresciani, lieti per si fausto evento, per. ciocchè odiavano pure il pensiero di dover vivere sotto la tirannia del Visconti, invitarono di bel nuovo il Concorreggio a ritornare fra loro, e ad ammaestrare la gioventù. Si parte Gabriele da Mantova, e si reca a Brescia. Quivi giunto trova pur troppo che se i mali maggiori eran cessati, le conseguenze de' mali duravano ancora. Pochi eran gli scolari che a lui coneorrevano, e que' pochi medesimi non gli pagavano nulla. Ond' egli si trovò oppresso da' più crudeli bisogni a segno di dover vendere i proprj libri per procacciarsi di che sostentar la famiglia. Il marchese

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Giambatista Pallavicini, suo amico e condiscepolo, informato della sua situazione infelice, lo fece invitare a Roma, ov' egli trovavasi. Ma Gabriele comechè de. sideroso ne fosse, nou seppe risolversi ad abbandonare la moglie ed un bambolino, di lei nato poc'anzi, riflettendo altresì che poco potea sperare in una corte ecclesiastica un uomo ammogliato, ed ammogliato per la seconda volta, in una corte ove tutti gl' impieghi lucrosi agli ecclesiastici si dispensavano. Però continuava a vivere in Brescia come potea, invocando mille volte la morte che venisse a liberarlo da tanti mali, e lagnandosi de' Bresciani che l'aveano, come egli dicea, raggirato ed ingannato. Tutte queste notizie furono tratte per noi da una lettera del Concorreggio medesimo, indirizzata al Pallavicini nominato più sopra, in data dei 17 luglio, 1441, la quale ine dita si conserva nell' Ambrosiana di Milano, e d'essa ci ha comunicata una copia il signor marchese D. Gian-Giacomo Trivulzio, da noi ricordato altra volta. In altre lettere poi di Gabriele, pubblicate dal Cardi nale Querici (1), a cui fu affatto ignota la precedente, impariamo come il Concorreggio ebbe nella persona dell'immortal Francesco Barbaro un gran protettore ed amico, che seppe raddolcire i suoi mali. Noi non ripeteremo qui le eterne lagnanze di Gabriele contro i Bresciani, contro la scarsezza dei discepoli, che pur molti n'ebbe e di gran merito, a detta del Prendilacqua (2), contro la negligenza con cui gli si pagava l'annuo stipendio dopo che fu pubblicamente condotto, e contro color che tentarono altresì di cacciarlo di Brescia, perchè crediamo che tai lamenti proce dessero in gran parte da quell' acre e satirico umore da cui parea dominato, accresciuto altresì dall' obbli

↑ (1) Diatrib. ad Epist. Franc. Barbar, pag. XCVII, e seg. (2) Pag, 71.

gazion di mantenere la moglie con sei figliuoli in tempi di carestia, e di continui bellici turbamenti, che da molt'anni le belle, ma infelici contrade, infestavano di Lombardia. Direm piuttosto ad onore di Brescia che il Concorreggio, simile a quegli amatori queruli che sempre mordono il giogo della cara loro nemica, ne lor soffre però il cuore di romperlo, se parlò male ognora di quell' illustre città, non seppe nientemeno abbandonarla giammai. Ben egli avea fatto pensiero l'anno 1448, dopo la morte del duca Filippo Maria Visconti, di ritornare a Milano sua patria e di terminarvi i suoi giorni, da che inteso avea che quella città, stanca della tirannide de' Visconti, i vessilli avea inalberati di libertà; ma sentendo poi che le cose prendevano fosco aspetto, e che il saggio governo prima istituito degenerava in anarchia, dalla quale al dispotismo non è che un passo, abbandonò quel pen siero. Avea posla qualche speranza nella mia libera patria, dic' egli scrivendo al Barbaro, ma pur troppo, barbari ladroni, e sceleratissimi demonj l'han rovinata ed all' ultima estremità condotta. Nella storia di que' tempi può vedersi la spiegazione di queste parole, ed in ciò pure che noi stessi abbiamo accennato all'ar ticolo di Carlo Gonzaga.

Finalmente Francesco Barbaro, che assai lo stimava, ed era continuamente da lui stesso sollecitato con lettere, si mosse in favor suo; ed essendo venuto Podestà in Brescia per la Repubblica Veneta Lodovico Foscarini, a lui scrisse caldamente raccomandandogli il Concorreggio, ed esortandolo a far sì che dalla città gli fosse accresciuto l'annuo onorario. Coltiva l'a. micizia di costui, gli dice, che in umanità ed in dot. trina è tanto eccellente, che può essere d'ornamento e d'ajuto ai dotti uomini e virtuosi. E più sotto: Io pure quando fui costì consigliai la città ad acrescergli lo stipendio, il che mi parea che ben meritasse un pro•

fessore, che, quanto era in lui, avea difesa la patria colle ottime arti e discipline ch'egli insegnava. Qual profitto abbia egli fatto altri se lo vegga; in quanto a me, giudico, ch'egli non mancò nè di studio, nè di diligenza per far sì che gl'ingegni bresciani al colmo maggior pervenissero dell'eccellenza. Rispose a questa lettera il Foscarini di aver veduto ed abbracciato il Concorreggio, d'aver in lui trovato un uom molto amabile e pien di dottrina, e che userebbe di tutta la sua autorità acciocchè l'annuo salario gli fosse

aumentato.

Niuna opera del Concorreggio, ove le lettere citate si eccettuino, è a noi pervenuta ; e pare infatti che cosa di qualche importanza egli non abbia composta. Parla egli stesso però in una di quelle lettere, che furono pubblicate dal cardical Querini, di una sua epistola intorno alla Libertà, che Francesco Barbaro gli avea fatto ricercar con premura, ma di cui egli non avea serbata copia nessuna, e ch'era quindi andata smarrita. Soggiugne poscia egli stesso, scrivendo al Barbaro, che quella sua epistola, non epistola dovea chiamarsi, ma sibben profezia, perciocchè molte di quelle cose, che in essa avea presagite, erano poi appuntino accadute in Italia, sebben egli avesse avuta la disgrazia medesima che ne' prischi tempi avea avuta Cassandra, cioè di preveder sempre il vero, e di non essere creduta giammai. Ma egli prosegue, non fui creduto, perchè fui povero. e Calone stesso sarebbe deriso, se nudi i piedi entrasse in senato, ove al contrario si farebbono plausi ad Oreste, e qual profeta sarebbe riguardato, ov' egli fosse magnificamente vestito, ecc.

Nella Prefazione all'edizion fatta da Pilade Bresciano l'anno 1499, di tutte le Vite di Plutarcó tradotte, loda molto l'editore l'opera e la parte che

Rosmini

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v'ebbe il Concorreggio (1); onde si scorge da ciò ch'egli ebbe lunga vita, e che anche nella senile sua età trovavasi in Brescia. Amava egli di chiamarsi piuttosto Veneziano che Milanese, comechè sua patria fosse Milano. Poichè Milano, scriv'egli al Barbaro, ha perduta la sua libertà, io non son più legato con vincolo alcuno alla mia patria: odiai sempre i tiranni. Tu, e moll' altri m'han dovuto conoscere Veneziano, anzi che Milanese. La mia moglie è Veronese, ed i miei sei figliuoli son nati tutti a Brescia, ecc.

Filippo Argelati (2) ha pure un articolo intorno al Concorreggio, ma egli non ha fatto che ripetere quauto ha detto il cardinal Querini, citando solamente la prima lettera inedita al marchese Pallavicini, della quale noi abbiam qui fatta l'analisi.

XXXII.

PIETRO MANNA CREMONESE.

PIETRO Manna cremonese, compiuti felicemente i suoi studj ne' Vittoriniani licei, si restitui a Cremona, ove pel corso di quaranta e più anni con grandissima celebrità insegnò la grammatica e la rettorica. Sin da. gli ultimi confini della Gallia Cisalpina a lui concor sero i discepoli, fra' quali molti figliuoli de' più gran principi. Ciò imparasi da una lettera di Daniel Gae tano, pur cremonese, premessa ai Commentarj di Pomponio Leto sopra Virgilio, stampati a Brescia l'anno 1487, ed a lui dedicati. Mori l'anno 1484 in Cremona, e fu sepolto nella chiesa di S. Domenico, come appar dall'iscrizion sua sepolcrale ch'ivi ancora si

(1) Card. Querini, Diatriba ad Epist. Franc. Bar., pag.

CXXVI.

(2) Bibl. Scrip. Mediol. Col. 1753.

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