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abbandoni, patimenti, seduzioni, affanni, gioie, rimorsi, sfacciate fantasime, bugiarde meretrici della umana vita sorgete, accorrete, affrettatevi; purchè nei vortici dei trascorsi tempi possiate almeno qualche istante seppellire le crudeli ansie, te dolorose umiliazioni di questi giorni, io vi sarò grato o antiche memorie: e nel mio cuore discenderà una calma che in nessun' altra guisa mi è conceduto sperare.

Caddero un giorno i miei sguardi sopra una singolare litografia. L'artista si era dilettato a rappresentare un vecchio aggrinzato nel cantone del fuoco colle molle in mano in atto di agitare la cenere. Avvampava la fiamma lietamente e mandava intorno sprazzi di luce e di calore cui stava raccogliendo il vecchio con grande sollecitudine quasi avesse paura che qualche atomo né andasse perduto; ed intanto non cessava di frugare nella cenere, e frugava e frugava continuamente. Come se le molle fossero una bacchetta magica, usciva dalla cenere un grigio vapore che si sollevava in mezzo alla fiamma

e si convertiva su per la cappa del cammino in tanti vortici di fumo che si assomigliavano ai flutti del mare in tempesta.

Tra vortice e vortice, tra flutto e flutto, strano a dirsi, apparivano cento e cento immagini di laghi, di campi, di selve, di giardini, di fiumi, di valli, di monti, di uomini, di donne, di cavalli, di carri, di città, di teatri, di battaglie, di danze, di aurore, di temporali, di chiese, di caffè, di preti, di frati, di serpenti, di uccelli, le quali cose tutte si univano, si mescolavano, si confondevano insieme così maravigliosamente che avrebbero potuto raffigurarci il giorno del giudizio universale il quale, à mio avviso, dovrebbe poco su, poco giù essere un immenso scompiglio sullo stesso metro.

Il vecchio, sempre colle molle in mano, stava guardando tutte quelle immagini con solenne commozione e pareva con gli occhi interrogarle tutte, e discorrere con esse, e chieder loro arcane cose, ed ascoltare misteriose risposte.

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Quelle visioni dei domestici alari possono esser altro che i ricordi del tempo passato?

Ebbene io farò come quel vecchio: f gherò nella cenere, agiterò la brace se spenta, attizzerò il fuoco, susciterò la vam e da tutto questo farò scaturire le memo dei tempi che furono. Nè vi dolga se saran circonfuse da un grigio vapore, e se le drete guizzare come per liberarsi da un' mosfera di fumo e di nebbia: tutto è nebb tutto è fumo sulla terra, e i brevi raggi sole non mandano che una luce dubbiosa, quale nulla di certo ci rischiara che il polcro.

Ma su via si raccendano i carboni, si r vivi la fiamma e ricordiamoci di quel Papa cui i Cardinali, dopo il conclave abbrucian secondo il rito, un pugno di paglia, dicevar Sic transit gloria mundi.

Dura poco davvero rispondeva Sua Sa tità, ma questo poco pigliamolo come I ce lo manda e così sia!.

Il nome di quel Papa l' ho dimentical ma fosse pure Sisto V, Alessandro VI o G

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gorio VII era certamente un Papa che sapeva il fatto suo e pigliava il mondo per quello che vale, un pugno di paglia.

Ma dove sono io? In qual loco ci siamo noi dato l'ultimo saluto ? ah !... Noi eravamo di notte sulla via di Napoli e ci stava in cospetto nella sua terribile maestà il Vesuvio coronato di lampi.

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Un mese innanzi, la prima traccia che mi si affacciava di Roma era la lontana onda del Tebro: trenta giorni dopo, Napoli mi era annunziata dal fuoco.

Io era impaziente di salutare la costa Partenopea per cangiare la storia colla poesia: per dire addio a Tito Livio e riverire Virgilio: per voltare le spalle a Borgia e far conoscenza con Masaniello, ma sopratutto per smorbarmi da ogni contatto avuto colla sbirraglia del Papa... Ohimè! Io lasciava proprio Scilla per inciampare in Cariddi: lasciava papa Leone a Roma per imbattermi in re Ferdinando a Napoli: una santità ed una maestà che Dio

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creava in quei giorni per delizia della ge latina.

Giunto a notte innoltrata nulla potei vec di Napoli che mi paresse degno di amm zione. Il postiglione della diligenza mi

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dusse alla Fenice, albergo assai modesto in nè ampia, nè romorosa. Svegliandomi mattino mi parve di riaprir gli occhi l'albergo del Moro sulla classica Piazza Car dove Menarolo, buon'anima, aveva la b di depormi dieci anni prima; con questa di sità che arrivando da Castelnuovo il Moro pareva un monarca di Levante, e giunge da Firenze e da Roma la Fenice di Na mi aveva tutta l'apparenza di un pas mingherlino d'inverno.

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Il primo giorno volli impiegarlo a dare un chiata generale alla città la più vasta, la popolata, la più fragorosa, la più fantas d'Italia.

Fui nel principio assai meno fortunate Vittorio Alfieri che scrisse:

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