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nel tempietto di Sant'Elena, e in presenza di tutto il clero Veronese, sostenne, con le forme scolastiche di quell'età, una tesi : De Aqua et Terra.

Al principio del 1320 passò a Ravenna, ove Guido Novello da Polenta il chiamava e dove (secondo la tradizione) compiè il Paradiso. Dicesi che nella primavera dell'anno seguente egli andasse a Venezia a trattare con quel governo di affari del Polentano. Al ritorno infermò e il 14 settembre 1321, d'anni 56 e 4 mesi morì 1. Gemma gli sopravvisse. Egli ebbe di lei sette figli, cinque maschi e due femmine. Pietro, il maggiore, fu laureato in legge a Bologna e ferinò la sua dimora a Verona. Nel 1337 v'era giudice del Comune, e nel 1361 ebbe il titolo di Vicario del Collegio dei Mercanti. Morì nel 1364. Di Jacopo, il secondogenito, non sappiamo altro se non che fu uomo di lettere e poeta non ispregevole. Si trovava in Firenze nel 1332, e viveva tuttora nel 1352. Altri tre maschi, Gabriello, Alighiero ed Eliseo morirono in tenera età. Una delle femmine, di cui non si sa il nome, si maritò ad un Pantaleoni; l'altra, per nome Beatrice, si rese monaca nel monastero di Santo Stefano dell'Uliva in Ravenna. A lei, nel 1350, recò il Boccaccio dieci fiorini d'oro, dono della Repubblica fiorentina. Jacopo non ebbe discendenti e la famiglia di Pietro si estinse in una femmina per nome Ginevra, la quale nel 1549 si maritò al conte Antonio Serego di Verona.

Fu questo nostro poeta, dice il Boccaccio, di mediocre statura, e poichè alla matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto, ed era il suo andare grave e mansueto, di onestissimi panni sempre vestito in quello abito ch'era alla sua maturità convenevole il suo volto fu lungo, e 'l naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labbro di sotto era quel disopra avanzato; e il colore era bruno, i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia maninconico e pensoso. Ne' costumi pubblici e domestichi mirabilmente fu compostee ordinato, e in tutti più che alcun altro cortese e civile. Ñel cibo e nel poto fu moderatissimo... Rade volte, se non domandato, parlava, e quelle pensatamente e con voce conveniente alla materia di che diceva; nonpertanto, laddove si richiedeva, eloquentissimo fu e facondo, e con ottima e pronta prolazione.

Sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovanezza, e a ciascuno che a que' tempi era ottimo cantatore o sonatore fu amico ed ebbe sua usanza; ed assai cose da questo diletto tirato compose, le quali di piacevole e maestrevole nota a questi cotali facea rivestire... Dilettossi similmente d'essere solitario e rimoto dalle genti, acciocchè le sue contemplazioni non gli fossero interrotte.

1 Secondo il Fraticelli, Dante non fu mai a Genova, onde è da rifiutare l'opinione che Dante nel Canto XXXIII dell'Inferno si vendicasse di Branca d'Oria per le male accoglienze fattegli in quella città. - 2 Op. cit.

Fu uomo, nota il Bruni 1, molto pulito; di statura decente e di grato aspotto e pieno di gravità; parlatore rado e tardo, ma nelle sue risposte molto sottile.

Opere di Dante.

Dante scrisse la Vita Nuova, secondo il Fraticelli, nel 1292; il libro del Volgare Eloquio dal 1305 al 1307. Il primo Trattato e il terzo del Convito allo scorcio del 1313 o al principio del 1314; il secondo nel 1297; il quarto nel 1298. La Monarchia prima del 1310; forse verso il 1305 o il 1306.

Scrisse la Divina Commedia dal 1302 al 1321. L'Inferno fu compito alla fine del 1308, ma non pubblicato che al principio del 1309. Il Purgatorio fu compito, secondo il Troya, a cui aderisce il Fraticelli, nel settembre del 1315; il Paradiso fu finito, secondo il Fraticelli, prima della sua partenza per Venezia, che seguì al principio del 1321. Si può dire, egli aggiunge, che Dante terminò la sua vita appena ebbe terminato il poema.

La Vita Nuova è il primo monumento ch'egli innalzò a Beatrice. Vi raccolse tutte quante le visioni, le vicende, le beatitudini di quel purissimo amore, ed espostele in una prosa appassionata, le condensò poi in liriche immortali. Secondo il Witte, Vita Nuova non varrebbe tanto vita giovanile, quanto una vita che purificatasi a traverso il fuoco della passione si è fatta più sperta e più forte.

Compose, dice il Boccaccio 2, uno libretto in prosa latina, il quale egli intitolò De vulgari eloquentia, dove intendeva di dare dottrina a chi comprendere la volesse, del dire in rima; e comechè per lo detto libretto appariva lui avere in animo di dovere in ciò comporre quattro libri, o che più non ne facesse, dalla morte soprappreso, o che perduti sieno gli altri, più non appariscono che due solamente.

Nel primo libro, dice il Ferrazzi più partitamente, si fa dall'origine di ogni parlare umano e dalla divisione delle lingue. Vien poi ai dialetti dell'Europa romano-barbara, e li divide in tre, secondo le affermazioni dell'oc, oil e sì; fermasi sull'ultimo, ch'è quello degl'Italiani. Investiga l'indole e la condizione dei quattordici dialetti allora parlati nella nostra penisola e tutti li riprova, intendendo a formare un volgare illustre. Nel secondo libro non compiuto ei cerca per quali persone e di quali cose debbano i poeti scrivere nel volgare illustre e discorre specialmente della Canzone, il modo più nobile che per lui si cercava. Questo egregio autore, continua il Boccaccio, nella venuta di Arrigo VII imperatore, fece un libro in latina prosa, il cui titolo Monarchia, il quale, secondo tre quistioni le quali in esso determina, in tre libri divise. Nel primo, logicamente disputando,

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prova al ben essere del mondo civile di necessità essere l'imperio; la quale è la prima quistione. Nel secondo, per argomenti istoriografi procedendo, mostra Roma di ragione ottenere il titolo dello imperio: che è la seconda quistione. Nel terzo per argomenti teologici prova l'autorità dello imperio immediatamente procedere da Dio, e non mediante alcuno suo vicario, come gli chierici pare che vogliano; e questa è la terza quistione. Questo libro più anni dopo la morte dello autore fu condannato da messer Beltrando cardinale del Poggetto e legato del papa nelle parti di Lombardia, sedente papa Giovanni XXII. E la cagione ne fu, perciocchè Lodovico duca di Baviera dagli elettori della Magna eletto in re de' Romani, venendo per la sua coronazione a Roma contr'al piacere del detto papa Giovanni, essendo in Roma, fece contro agli ordinamenti ecclesiastici uno frate minore, chiamato frate Piero della Corvara, papa, e molti cardinali e vescovï; e quivi a questo papa si fece coronare. E nata poi in molti casi della sua autorità quistione, egli e' suoi seguaci trovato questo libro a difensione di quella e di sè, molti degli argomenti in esso posti cominciarono ad usare; per la quale cosa il libro, il quale insino allora appena era saputo, divenne molto famoso. Ma poi, tornatosi il detto Lodovico nella Magna, li suoi seguaci, e massimamente i chierici venuti al dichino e dispersi, il detto cardinale, non essendo chi a ciò si opponesse, avuto il soprascritto libro, quello in pubblico, siccome cose eretiche contenente, dannò al fuoco. E 'l somigliante si sforzava di fare delle ossa dello autore a eterna infamia e confusione della sua memoria, se a ciò non si fosse opposto uno valoroso e nobile cavaliere fiorentino, il cui nome fu Pino della Tosa, il quale allora a Bologna, dove ciò si trattava, si trovò, e con lui messer Ostagio da Polenta, potente ciascuno assai nel cospetto del cardinale di sopra detto. a Del Convito dice egli stesso: Acciocchè la scienza è l'ultima perfezione della nostra anima, nella quale sta la nostra ultima felicità; tutti naturalmente al suo desiderio siamo suggetti. Veramente da questa nobilissima perfezione molti sono privati... Oh beati que' pochi che seggono a quella mensa, ove il pane degli Angeli si mangia e miseri quelli che colle pecore hanno comune cibo! Ma perocchè ciascun uomo a ciascun uomo è naturalmente amico e ciascun amico si duole del difetto di colui ch'egli ama, coloro che a sì alta mensa sono entrati, non sanza misericordia sono inverso di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande gire mangiando. E perciocchè misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono della loro buona ricchezza alli veri poveri e sono quasi fonte vivo, della cui acqua si rifrigera la natural sete. E io adunque che non seggo alla beata mensa, ma fuggito dalla pastura del vulgo, a' piedi di coloro che seggono ricolgo di quello che da loro cade e conosco la misera vita di quelli che dietro m'ho lasciati, per la

dolcezza ch'io sento in quello ch'io a poco a poco ricolgo, misericordevolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale agli occhi loro già è più tempo ho dimostrata e in ciò gli ho fatti maggiormente vogliosi. Perchè ora volendo loro apparecchiare intendo fare un generale convito di ciò ch'io ho loro mostrato e di quello pane ch'è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe essere mangiata a questo convito.

a La vivanda di questo convito sarà di quattordici maniere ordinata, cioè quattordici Canzoni sì di amore come di virtù materiate, le quali, sanza lo presente pane, aveano d'alcuna scurità ombra... E se nella presente opera più virilmente si trattasse che nella Vita Nuova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo siccome ragionevolmente quella fervida e passionata, questa temperata e virile essere conviene. Chè altro si conviene e dire e operare a una etade che ad altra... E in quella dinanzi all'entrata di mia gioventute parlai e in questa di poi quella già trapassata. E conciossiacosachè la vera intenzione mia fosse altro che quella che di fuori mostrano le Canzoni predette, per allegorica sposizione quelle intendo mostrare, appresso la litterale storia ragionata: sicchè l'una ragione e l'altra darà sapore a coloro che a questa cena sono convitati. »

Per sventura, lasciando il Primo Trattato ch'è un'introduzione a tutta l'opera, illustrò tre Canzoni senza più.

Lo studio suo principale, dice il Bruni, fu poesia, non isterile, nè povera, nè fantastica, ma fecondata e arricchita e stabilita da vera scienzia e da molte discipline. Scrisse canzoni morali e sonetti. Le canzoni sue sono perfette e limate e leggiadre e piene d'alte sentenze. Nei sonetti non è tanta virtù.

Chi dimandasse per qual cagione Dante, egli continua, piuttosto elesse scrivere in vulgare, che in latino e litterato stile, risponderei quello che è la verità, cioè che Dante conosceva sè medesimo molto più atto a questo stile vulgare in rima che a quello latino o litterato. E certo molte cose son dette da lui leggiadramente in questa rima vulgare che nè arebbe saputo, nè arebbe potuto dire in lingua latina e in versi eroici. La prova sono l'eloghe da lui fatte in versi esametri, le quali, posto sieno belle, nientedimeno molte ne abbiamo vedute più vantaggiatamente scritte. E, a dire il vero, la virtù di questo nostro poeta fu nella rima vulgare, nella quale è eccellentissimo sopra ogni altro ; ma in versi latini e in prosa non aggiunse a quelli appena che mezzanamente hanno scritto. La cagione di questo, è che il secolo suo era dato a dire in rima; e di gentilezza di dire in prosa o in versi latini niente intesero gli uomini di quel secolo,

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ma furono rozzi e grossi e senza perizia di lettere; dotti nientedimeno in queste discipline al modo fratesco e scolastico. Cominciossi a dire in rima, secondo scrive Dante, innanzi a lui circa anni centocinquanta; e i primi furono in Italia Guido Guinizzelli bolognese, e Guittone Cavaliere Gaudente d' Arezzo, Bonagiunta da Lucca, e Guido da Messina; i quali, tutti Dante di gran lunga soverchiò di scienza e pulitezza e d'eleganza e di leggiadria; intanto che egli è opinione di chi intende che non sarà mai uomo che Dante vantaggi in dire in rima.

Della Divina Commedia dice il dotto Carlo Hillebrand ':

« C'est un poème didactique que Dante a entendu faire; c'est un poème épique qu'il a écrit. Un poème épique dans le sens que nous donnons aujourd'hui à ce mot, c'est à dire encyclopédie poètique d'une civilisation; un poème épique aussi dans le sens plus restreint qu'on donnait autrefois à ce terme, je veux dire récit d'une grande action nationale.

« Eh bien, quelle fut la grande guerre de Troie du moyen-âge, si ce n'est la lutte entre la papauté et l'empire qui est la note fondamentale de la Divine Comédie? De même que le contraste entre le monde asiatique et européen qui se retrouve dans l'histoire grecque tout entière depuis Jason et Achille jusqu'à Alexandre et Antiochus a donné une actualité toujours nouvelle à l'Iliade, de même le grand contraste qui a rempli le moyen-âge tout entier a fait du poème de Dante, l'épopée nationale par excellence de la chrétienté entière. D

Il concetto fondamentale della dottrina e del poema di Dante il Fraticelli lo trova in questo passo della Monarchia:

« Come l'uomo (dice l' Alighieri) solo fra tutti gli enti partecipa della corruttibilità e incorruttibilità, così solo fra tutti gli enti a due ultimi fini è ordinato: de' quali l'uno è fine dell'uomo secondo che egli è corruttibile, l'altro è fine suo secondo ch' egli è incorruttibile. Adunque quella provvidenza che non può errare, propose all' uomo due fini: l'uno la beatitudine di questa vita, che consiste nelle operazioni della propria virtù, e pel terrestre paradiso (la sommità del Purgatorio) si figura; l'altro la beatitudine di vita eterna, la quale consiste nella fruizione dell'aspetto divino (alla quale la propria virtù non può salire, se non è dal divino lume aiutata) e questa pel paradiso cele stiale s'intende. A queste due beatitudini, come a diverse conclusioni, bisogna per diversi mezzi venire. Imperocchè alla prima noi perveniamo per gli ammaestramenti filosofici (scienza delle cose umane. Virgilio) pure che quegli seguitiamo, secondo le virtù morali ed intellettuali operando. Alla seconda poi per gli ammaestramenti spirituali, che trascendono l' umana ragione (scienza delle cose divine Beatrice), purchè quegli seguitiamo, operando secondo

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