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figura suddetta, e scorgendo esserne il volto composto a me stizia e spavento, lo sguardo essere diretto a basso ed un poco all'indietro, lo scansarsi della vita e del corpo, come di chi sfuggir voglia il contatto di cosa od oggetto che l'offenda, mi persuasi che il gruppo non fosse stato mai ben dichiarato, e che per mancanza di qualche accessorio, non venisse mai ben inteso. Laonde osservati due attacchi rimasti nel marmo visibilissimi, uno cioè sul fianco della figura verso la coscia sinistra, e l'altro più in basso sul plinto, non esitai a riconoscere il primitivo concepimento dello scultore. Il quale vi volle atteggiata una fanciulla nel punto di stringersi al seno una vezzosa colomba, e tutta intenta alla sua conservazione, si rivolge ad osservare un serpe che gliela insidia. Composto il volto a mestizia e timore, con lo scansare del corpo cerca sfuggire il contatto dello schifoso rettile, intanto che la colomba, che il fischio ne udiva, si agita fra le sue mani e dibatte le ali come per fuggirsene a volo. Con questa composizione mi do a credere, se non sbaglio, che l'artefice siasi proposto di esprimere l'innocenza insidiata, e ciò posto, quanto sia nobile, morale e concettoso il subbietto non fa mestieri il spiegarlo con più parole. Ed è perciò che avendo fatto riporre a nuovo il serpe mancante, parmi che il monumento possa dirsi abbia ricevuto nuova vita, ed il suo significato è restituito alla sua primi tiva origine.

MARCHESE G. MELCHIORRI.

LETTERATURA

DELLE PERMUTAZIONI DELLA POESIA. - ART. III.

Poesia de' Greci e de' Romani.

*

Le nazioni che tennero il campo nella poesia, se non per altezza e novità di pensieri, certo per eleganza, molti

* V. Sagg. num. 3. pag. 90 e num. 5, pag. 160.

tudine e varietà di componimenti, sono la greca e la romana, quelle che in virtù di una opinione spirata al nostro animo dalla prima giovinezza riputiamo modello di ogni civilimento e dottrina, e che pure alla fonte de' popoli convicini attinsero la più parte di loro religiose e letterarie istituzioni. Ma qualunque giudicio si porti intorno alla origine della greca e romana sapienza, certo que' popoli furono in sommo grado ammirevoli per le virtù dello ingegno e della fantasia: il perchè nella esamina di loro nobile e svariata poesia, allargheremo il discorso nostro. Primo de' greci poeti per comune opinione si tiene Omero: ma sanno i dotti che questo primato si attribuisce al cantore della guerra troiana, perchè fra tutti come aquila vola, e perchè di più antico tempo non abbiamo poesie, non già perchè le muse di Grecia tacessero avanti il nascimento di Omero. Nel fatto prima che la tremenda ira di Achille sortisse un degno cantore, già parecchi ingegni avevano levata voce di grandi nello esercizio della musica e della poesia: Omero non ritrovò lo esametro nobilissimo fra' metri, ma lo adoperò già ritrovato da Femonoe sacerdotessa di Delfo, ed ingentilito da Lino nella sua cosmogonia e da Orfeo ne' suoi cantici religiosi. Diogene Laerzio ne tramandò il primo verso con che Lino cominciava quel suo poema intorno alla origine della universa natura :

« Tutte in un tempo fur fatte le cose (1) »

E Diodoro nella biblioteca, e Platone nel libro delle leggi ci conservarono qualche brandello di Orfeo, esempigrazia la protasi dell'inno a Cerere

Μήνιν άειδε Θέα Δημήτερος αγλαόκαρπου

che Omero in parte annestò nella protasi della Iliade. Egli non ritrovò quella sublime ed artificiosa composizione che è l'epopea afferma Suida che prima di Omero fiorirono otto cantori di epica azione e quantunque la voce εTOTOLOS di che si vale, possa vestire il significato generico di verseggiatore e il particolare di epico, niente di meno è chiaro

(4) Ην ποτε κρονος αυτος εν ω αμα παντα πέφυκει. Ferecide per converso così diè principio al suo libro su la natura: « Giove per certo e il tempo stesso e la terra furono sempre ».

adoperarsi da Suida nel secondo modo, non già nel primo, perchè settanta o in quel torno furono i verseggiatori, che come stelle di incerta luce annunciarono la comparsa di Oméro. Questi con la Iliade e la Odissea intenebrò ogni chiarezza di nome, con l'uso e la mischianza de' primarii dialetti variò la favella comune di Grecia, atteggiandola di grazia con l'attico, di semplicità col dorico e col ionico spirandole soavità e magnificenza con l'eolico; dipinse le antiche memorie, affigurò la natura, imitò le passioni e levò la epopea a quel grado di splendidezza che non aggiunse mai né Appollonio di Rodi, nè Antimaco di Colofone, nė Quinto di Smirne, nè verun altro de' Greci.

Contemporaneo e conforme a Plutarco consanguineo ancora ad Omero fu Esiodo che cantò la generazione degli dei e le villereccie bisogna. Il Lipsio esaminato accuratamente lo stile dell' uno e dell'altro, estimò potersi argomentare che Esiodo fosse anteriore ad Omero: ma affermando Erodoto per indubitato modo che ambedue fiorirono quattrocento anni avanti lui, si rende manifesto che furono contemporanei. Nobile rinomanza dipoi si procacciarono Saffo che ritrovò l'archetto, il tono mesolidio e il verso che da lei s'intitola, e Stesicoro che primo scrisse epitalami, e Alceo che cantò l'onorato sdegno de' re' e Simonide che celebrò la pugna di Artemisio e di Salamina, e Anacreonte che agli scherzevoli argomenti attemperò la grazia della elocuzione e la morbidezza del verso, e Menalippide del quale si legge la protasi di un ditirambo,

Κλύθι μοι ω πατερ θαυμα Βροτων

Τας αείζους μεδέων Ψυχας

frammento notabile per il dogma che comprende, della perpetua durazione delle anime.

Più tardi il dramma comico e il tragico aggiunsero la perfezione: Atene versò pietose lagrime in udendo la presa di Mileto, tragedia di Frinico, e volle ripetuta sino a trenta volte l'Antigone, tragedia di Sofocle: deplorò con Euripide il sacrificio della vergine Ifigenia, e lo infortunio del castissimo Ippolito, e con Aristofane beffeggiò l'artificiosa gravità de' giureconsulti, e la smodata libidine delle donne. Venne poco stante Menandro e all'antica comedia che sbra

nava co' mordaci detti ogni generazione di cittadini, e più sovente i più chiari o per ingegno, o per dignità, e alla media che con furtivi colpi destramente feriva, surrogò la nuova tutta fiore e sustanza di veneri, di sali e di miserevoli avvenimenti.

Alla gloria di Alessandro mancarono valenti poeti : ma poichè, diviso fra' capitani lo immenso patrimonio di sue conquiste, la famiglia de' Tolomei impugnò lo scettro di Egitto, rifiori la poesia e innanzi tutto nella corte del Filadelfo e del Filometore. Mentre Callimaco a' segni eelesti connumerava con bellissima trasformazione la chioma di Berenice, e le vergini di Atene invitava al bagno di Pallade, Apollonio di Rodi dava fiato alla tromba che da parecehi anni taceva, cantando le imprese degli argonauti. In questo poema egli chiama le muse non già maestre e spiratrici, ma interpreti del suo canto che è pensiero nobile e pellegrino,

« interpreti al mio canto io vò le muse » (1)

Vi traluce da dentro la imitazione di Omero, come quando descrive il dolore di Giamo per la dipartita del figliuolo Giasone, dice che il buon vegliardo gemeva avvolto per senile infermità nella coltre, e stampava in essa la figura e i contorni delle sue membra (2):

Εντυπας εν λεχεεσσι καλυψαμενος γιαατκεν

che è immagine tolta da Omero

γεραιες

Εντυπας εν κλαίνη κεκαλυμμένος (3)

Ancora Teocrito e Bione insegnavano alle selve di Egitto e di Sicilia a risuonare i nomi di semplici pastorelle, e Mosco negl'idilli suoi spirati dalle grazie dipingeva i maliziosi ritrovamenti di Amore ramingo, cacciatore, castaldo, e Licofrone nell'Alessandra proponeva con ingegnoso artificio oscurissimi enimmi imitando il sapiente Cleobulo e i gerofanti egiziani.

E qui mette a bene il notare un fatto che non troviamo rammemorato ne' fasti letterarii di verun' altra nazione; è

(1) .... μουσαι δ' υποφητορες ειεν αοειδής.

(2) Arg. l. II.

(3) Il XXIV. v. 163.

questo il perdurare che fece tra' nipoti di Cadmo e di Cecrope, senza macchia e corrompimente la ragione poetica. Perocchè cominciando pure da Omero la computazione, e conducendola al tempo che Ottaviano s'insignori di Alessandria, che è un intervallo di CCCLX olimpiadi, ritrovereno che la poesia de' Greci serbò mai sempre immaculata l'indole sua. Anzi ancora dopo il fondamento dell'impero romano educò la Grecia all'onore del lauro non ignobili ingegni, come Oppiano che scrisse della caccia e della pesca, e Nicandro ehe dettò un poema intorno all'uso e all'efficacia dell'erbe, passandoci di Gregorio, di Nonno, di Sinesio, di Pisida i quali comechè abbiano adoperata la favella di Omero, ciò non pertanto, avendo dato loro nome alla fede di Cristo, statuirono una ragione poetica che dalla Omerica si lontana in più capi.

Nel carme de' fratelli arvali interpretato da Gaetano Marini che nella scienza dell'antichità pochi ebbe pari, superiore nessuno, in quello de' sali, nella iscrizione onoraria della colonna di Duilio ritroviamo le prime traccie della romana poesia : ma questi canti erano una sformata espressione del sentimento religioso e dell'orgoglio militare, erano il linguaggio di una tribù non aggentilita da piacevoli studi: niuno artificio, niuna figura poetica vi pareva; libero il ritmo, dura la elocuzione, i vocaboli ispidi e rabbuffati. I primordi della romana poesia si deono tribuire al quinto secolo, che correva dal fondamento della eterna città, ossia al tempo della seconda guerra cartaginese, quando fiorirono Andronico greco di patria e liberto di Livio Salinatore, Ennio di Rudi e Cecilio di Como.

Andronico pubblicò favole di ogni ragione comiche, tragiche, satiriche, benchè l'antica comedia nella quale tennero il campo Aristofane e Cratino, non fiorisse mai tra i Romani per lo riprovare che facevano le dodici tavole, la pubblica maldicenza. Cecilio anch'esso dettò comedie, e quantunque da Cicerone sia tassato di barbarie nella favella, pure, quanto si appartiene a disposizione di favola e gravità di pensieri, è lodato da Orazio e da Varrone. Ennio earissimo alla famiglia degli Scipioni, ebbe vigoria di mente acconcia alla dignità dell'epopea, in tanto, che Virgilio nou

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