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grande stento ritrovare il Letronne lo spazio necessario per protrarre così a lungo le due prefetture di Vitrasio. Egli è perciò obbligato di affastellare nel secondo semestre del 767 il principio del suo governo, l'intero corso di quello di Seio e la fine dell' antecedente di Retto onde avere così sei anni e pochi mesi innanzi il marzo del 774 da attribuire alla sua prima prefettura, che egli statuisce di sette anni. Concede poi il 774 al frapposto Galerio, e dal principio dell'anno successivo deduce la seconda, che prolungata fino al 784 in cui ne abbiamo superiormente riposta la morte, gli dà realmente nove anni non interi. Ma la durata della prima prefettura è sicuramente soverchia. Non è da immaginarsi in alcun modo che specialmente nei primordii di un impero che presentavasi burrascoso, si lasciassero i pretoriani senza alcun reggitore, e quindi finchè fu assente Sejano non è da supporsi che il padre fosse allontanato dalla capitale. Gli astronomi assegnano ai 27 di settembre l'eclissi lunare ricordata da Tacito (An. I. 26) che sgomentò le ribellanti legioni, nel qual giorno Sejano era per certo nella Pannonia, dalla quale difficilmente sarà stato di ritorno a Roma innanzi il finire di ottobre. Se qualche mese si concede alla società sua e del padre nel comando dei pretoriani reclamata da Dione, se qualche altra è forza accordarne al viaggio e al governo del secondo in Egitto si vedrà che Vitrasio non può esservi andato al più presto se non dopo il marzo del 768, e che conseguentemente il suo primo reggimento non può essere stato al più se non che di sei anni non finiti. Mancherebbe dunque al computo un anno, che non potrebbe guadagnarsi se non che riducendo posteriormente a pochi mesi anche il rettorato di Galerio. Dall'altra parte la gemina prefettura che il marmo d'Athribis ci costringe di ammettere in Vitrasio, non s'accorda con ciò che scrive Seneca del marito di sua zia, del quale ci ha taciuto il nome. Nel libro de consolatione ad Elvia sua madre c. 17 egli loda la sorella di lei « quod per sedecim annos, quibus maritus ejus Ae» gyptum obtinuit, numquam in publico conspecta est; neminem provin»cialem domum suam admisit; nihil a viro petiit, nihil a se peti passa est. Itaque loquax et ingeniosa in contumelias praefectorum provincia, in » qua etiam qui vitaverunt culpam, non effugerunt infamiam, velut uni» cum sanctitatis exemplum suspexit: et quod illi difficillimum est, cui » etiam periculosi sales placent, omnem verborum licentiam continuit » et hodie similem illi, quamvis nunquam speret, semper optat. Multum » erat si per sedecim annos illam provincia probasset: plus est quod » ignoravit. » Ognun vede che qui si tratta d'una permanenza continuata, non interrotta. Se fosse stato diversamente in vece di dire che la provincia desiderava sempre, ma non isperava d'aver mai più una matrona simile a lei, come non avrebbe parlato della letizia degli Egiziani nel vedersela restituita? Infine l'opinione del Lipsio urta in un altro ANN. I. 19

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scoglio. Lo zio di Seneca partì dall'Egitto perchè avea consumato il tempo assegnatogli, o perchè n'era stato richiamato. Se, come si è supposto, la sua assenza doveva esser breve, e se egli non veniva a Roma se non che per consultare il principe, e quindi ritornare, cosa del resto insolitissima ne' rettori delle provincie al tempo dell'impero, che non potevano uscire dei loro confini senza un ordine della corte, perchè avrebbe egli ricondotto seco la moglie, il nipote e la famiglia? Ora egli morì per viaggio navigando per restituirsi alla capitale « carissimum virum amiserat, avunculum nostrum in ipsa navigatione » (loc. cit.): dunque quando sciolse le vele, era già arrivato in Alessandria il suo successore, giacchè una legge formale di Augusto gl'imponeva l'obbligo di aspettarlo. Questo principe nel dar nuova forma all'amministrazione dell'impero aveva generalmente stabilito, che i presidi non si movessero dalla propria provincia, finchè non vi avesse posto piede chi doveva rimpiazzarli, dopo il cui arrivo partissero immediatamente (Dione 1. 53 c. 16). Ma per l'Egitto, che guardavasi con maggior gelosia, non bastò che il successore vi fosse giunto, si volle di più che fosse già entrato in Alessandria. Questa legge ci è stata conservata da Ulpiano, e trovasi nel digesto L. 1 tit. 17: » Praefectus Aegypti non prius deponit praefecturam et imperium, quod >> ad similitudinem proconsulis lege sub Augusto ei datum est, quam Ale» xandriam ingressus sit successor ejus, licet in provinciam venerit, et >> ita in mandatis ejus continetur. » Tutto all'opposto Vitrasio, per autorità di Dione, finì i suoi giorni nella provincia, e fu in seguito della sua morte che Tiberio commise al liberto Severo di subentrare al luogo vacante. Le circostanze adunque della loro morte sono così diverse da doversene conchiudere che Vitrasio non può essere stato lo zio di Seneca.

Ma se la sentenza del Lipsio va soggetta a tali difficoltà, vediamo ora cosa si debba pensare della mia, che lo reputo Emilio Retto. Querelasi lo stesso Letronne p. 86 che dopo P. Ottavio ricordato in un iscrizione di Denderch portante la data dei 23 settembre del 754 si apra nella serie prefettizia un ampia lacuna, che invada tutto il resto dell'impero di Augusto fino ai primi giorni di Tiberio, nei quali il nostro Emilio viene citato da Dione. Dopo questo non abbiamo altro punto fermo se non quello somministrato dalla lapide di Vitrasio incisa nell'anno quarto dello stesso imperatore. Ma per colpa di una frattura ella ha perduta l'indicazione del giorno e del mese, per cui tanto può riferirsi al principio di quell'anno, incominciato, come si è detto, ai 29 agosto del 769, quanto alla sua fine, ossia al luglio o all'agosto del 770. Ciò premesso, se si creda che Emilio Retto subentrasse a P. Ottavio nell'ottobre o nel novembre del 754, nell'autunno del 769 si compiranno quindici anni del suo governo. A questi niente osta che si aggiungano alquanti mesi, ponendo che solo nella primavera del 770 venisse a succedergli Seio Strabone, che

ammetto anch'io essere mancato tra breve, per cui nell'estate dello stesso anno si trovi surrogato nella sua carica Vitrasio Pollione. Per tal modo senza sforzo veruno sarà collocata questa lunghissima prefettura, ed anzi sarà riempita con essa la deplorata lacuna. E così non ci sarà più bisogno di coartare violentemente anche il rettorato di C. Galerio, e conseguendone che Sejano avrebbe governato per due anni e mezzo le coorti pretoriane in compagnia del padre, verrà a darsi la conveniente estensione al pov Tv di Dione. Aggiungo poi un'altra considerazione. La sorella della madre di Seneca, ma di età maggiore di lei, fu anch'essa sicuramente spagnuola e quando venne a Roma vi condusse fanciulletto lo stesso Seneca; per cui se erasi già maritata in Ispagna è assai presumibile, che anche il marito cui virgo nupserat » fosse della medesima nazione. Ora l'Orelli n. 3040 riferisce una lapide di L. Emilio Retto morto sotto Trajano, che il Labus ha plausibilmente creduto un nipote del prefetto, postagli in Cartagena, ove fu edile, in cui si dice DOMO. ROMA . QVI ET.CARTHAGINENSIS. ET. SICELITANVS. ET. ASSOTANVS.... ET. BASTESANVS, dalle quali sue cittadinanze si può giustamente inferire, che a sua famiglia fosse per l'appunto originaria della Spagna. Ma il principale ondamento della mia opinione è desunto da quel poco che si sa degli ann giovanili di Seneca. Ho già detto che ancor pargoletto fu portato a Rom dalla zia, il che secondo i calcoli del Lipsio avvenne circa il 753 « Ilus manibus in urbem perlatus sum » ed inoltre « illius (Cons. pio maternoque nutricio per longum tempus aeger convalui » ad Helv. c. 17). O-a perchè la zia e non la madre si prese questa cura della sua fanciulleza, posto che si ammette generalmente che in quel tempo Seneca il declamator avea già trasportata a Roma la sua famiglia? La ragione sarà prona, sela zia lo condusse seco in Egitto. Certo è che egli è stato in quella provincia ed è certo di più che da essa ritornò in compagnia della medesima zia, per cui attesta di essere stato testimonio della fortezza con cui sopportò la perdita fatta del marito nel viaggio cujus etiam egospectator fui » (ivi). Un altro indizio della sua dimora da giovinetto is Alessandria si ha dall'epis. 49. in cui confessa

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apud Sotionem philosophum puer sedi » Ora per attestato di Eusebio nel cronaco questo Sotione ch'ei chiama maestro di Seneca, e che fa fiorire negli ultimi tempi d'Augusto, fu appunto un filosofo Alessandrino. Con esso deve aver costumato più anni, giacchè nell'ep. 108. §. 17. c. 22. asserisce che da lui gli era instillato l'amore delle discipline Pittagoriche « His instinctus abstinere animalibus cepi, et anno peracto non tantum facilis mihi erat consuetudo sed dulcis " Quindi prosiegue « Quaeris quomodo desierim? In Ti. Caesaris principatu juventae tempus inciderat, alienaque tum sacra movebantur, »sed inter argumenta superstitionis ponebatur quorumdam animalium

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» abstinentia. Patre itaque meo rogante, qui calumniam timebat, non » philosophiamoderat, ad pristinam consuetudinem redii, nec difficul » ter mihi, ut inciperem melius coenare, persuasit.» Ognuno acconsente che qui si allude all'anno 772, in cui per fede di Tacito (An. 14 c. 85) si proibirono a Roma í riti degli egiziani e de' giudei, che furono espulsi dall'Italia, e dei quali alcune migliaia furono anche relegati nella Sardegna. Ora tutto ciò procederà egregiamente, se nel 770, come ho esposto, Seneca tornò dall'Egitto al contrario tutto sarà turbato, se quel suo viaggio dovesse differirsi al 784 nei quali tempi era interamente dedicato agli studi dell'eloquenza, agli esercizi del foro, ed a spianarsi la strada degli onori, come risulta dalle lettere del padre premesse al secondo libro, e ad altri pure delle controversie.

(Il resto nel venturo fascicolo).

BELLE ARTI

BARTOLOMEO BORGHESI

LA CORONAZIONE DI FRANCESCO PETRARCA

DIPINTO DI ANDREA PIERINI.

La coronazione di Francesco Petrarca fata nel Campidoglio il giorno VIII aprile del 1341 anno timo di Benedetto XII è avvenimento nella storia delle italiane lettere memorabilissimo e però i sinceri amatori elle glorie nostre deono saper grado ad Andrea Pierini pittore fiorentino a servigi di sua altezza I. e R. il granduca di Toscana che nobilmente la espresse.

Ma prima di descrivere il dipinto, mi piace di esaminare una controversia storica che ad esso si riferisce. Il Monaldesco cronista contemporaneo e tesimonio oculato narra che Orso Vicubio conte di Anguillara fu dato collega per un anno a Stefano Colonna nella dignità senatoria; che papa Benedetto XII il 1341 mandò chiamare il detto Stefano in Avignone, e che in questo tempo che egli stavasi in corte a papa Benedetto, Orso incoronò Francesco Petrarca. Alla narrazione del Monaldesco consuona quella del Gigli (1) « si portò Stefano Colonna a ringraziare il pontefice in Avignone (1) Presso il Vitali stor. dipl. de' sen di Roma p. 259.

e restò in Roma suo collega il detto Orso dell'Anguillara ». Erano dunque in Roma due senatori l'uno principalissimo Stefano Colonna, aggiunto l'altro e secondario Orso Vicubio. Per contrario nel diploma della incoronazione pubblicato dal Vitali si legge « Ursus comes Anguillariae et Jordanus de Filiis Ursi miles Urbis Romae senatores ». Volendo conciliare le testimonianze de' due storici col diploma bisogna dire o che in quello anno tre fossero i senatori, Orso, Giordano Orsini, e Stefano Colonna; il che non ha sembianza di vero, pretermettendo i cronisti il nome di Giordano: o veramente che Giordano sostenesse la vece di Stefano assente alla quale opinione mi accosto. Il De Sades che pure era scrittore accuratissimo, in questo proposito errò variamente era allora, egli dice (1), senatore di Roma Orso ed aveva per collega Giordano Orsino che era assente >> aggiunge in nota « che Orso e Giordano erano stati nominati dal papa senatori per vi mesi: compiuti i quali egli permise al popolo di nominare i senatori pure per vi mesi ». E prima preterisce il nome del Colonna: poi non si legge che il papa e il popolo nominassero a vicenda: ultimamente o tiene il De Sades all'autorità del diploma o a quella de' cronisti: nel primo caso non dovea dire assente Giordano, nel secondo non doveva pretermettere Stefano. Il Petrarca nella lettera a Barbato di Sulmona (2) nomina il solo Orso Ursus Anguillariae comes ac senator praealti vir ingenii regio judicio probatum laureis frondibus insignivit. E ciò basti al proposito. Vengo alla descrizione del dipinto.

Si vede la sala senatoria la quale potè l' artefice immaginare a sua posta, perchè degli edifici che ornavano il Campidoglio prima di Bonifacio IX. non esiste memoria: ma certo non erano nè sontuosi nè convenevoli alla dignità del luogo si per la miseria a cui era divenuta Roma a tempo

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