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parte delle cerimonie religiose dalla Fenicia e dall' Egitto vennero alla Grecia: e cosi la Venere genitrice yevetukkes de' Greci è l'Athor degli Egiziani riputata principio delle cose, e la Minerva risponde alla Neith o Neitha, e l'Adone che ancora s'intitolava Kupis vale a dire Signore, è per testimonianza di Platone il medesimo che l'Adon di Fenicia che suona parimente Signore: e l'una e l'altra nazione pensava che sei mesi Proserpina, altrettanti Venere lo si godesse: il perchè doppia festa celebravano in suo onore, la prima delta apaviaopos morte, la seconda evpets ritrovamento o ritorno. Nell' Acaia l'oracolo di Mercurio intitolato ayopacos consultavasi con gli stessi riti con che l'oracolo di Serapide nell'Egitto, come Pausania annotò: e segnatamente nell'Attica era tanta la moltitudine degli Iddii egiziani, e tante corimonie e misteri dalle rive del Nilo erano stati tradotti a quelle del Cefiso che Aristofane rimproverava gli ateniesi dell' avere permutata la loro città di greca in egiziana (1). Ora nè Fenicii nė Egiziani, nè altri popoli convicini aggiudicarono mai cotanta stupidezza e villania di costumi agli iddii loro che si pensassero, esempigrazia che l'uno togliesse pena dell'altro con lo impendergli a'piedi due masse di ferro: per la qual cosa non poterono apprendersi a' Greci somiglianti credenze sia ne' primordii della nazione, sia ne' tempi di Omero.

Dipoi se queste matte credenze erano veramente tradizionali e comuni alla Grecia, e perchè Esiodo contemporaneo di Omero, perchè Alceo Saffo Simonide posteriori di breve intervallo ad Omero non si avvalsero di quelle opinioni a fine di infiorarne i loro poemi, e renderli più dilettevoli al volgo, comecchè più conformi e favorevoli alla sua credulità? perchè cotali forsennataggini riboccano solo in Omero? Dirò di più: elle furono riprovate con solenni parole e da' filosofi e ancora da' poeti di Grecia. Pitagora vicinissimo di Omero attestava di avere veduta nell' Erebo l'ombra di lui sbranata dalle furie in ammenda del sagrilego favoleggiare che aveva fatto intorno alla divinità: Pla

(1) Αγυπτον αυτων την πολιν πεποιήκασιν

Αντ ́ Αθηνών

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tone ne volle bandeggiati dalla sua repubblica i poemi, perchè li giudicò pericolosi al buon costume e alla pietà verso i celesti, senza che ogni civile adunanza si perturba e si sperde, come senza cemento e commessura di parti ogni edificio si disgrega e si scioglie: Eupoli scrisse un poema contro di lui tassandolo di menzogna: Pindaro nella IX. delle olimpiche (1) sentenzia in questa forma:

Questo parlar, o labro mio, rifiuta:
Chè schernir i celesti è reo consiglio
E un deliro pareggia

Chi con orgoglio improvvido vaneggia.

E ancora Euripide nell' Ercole furioso (2)

Qual degli umani con procace detto
I celesti macchiò che nell' olimpo
Vivon vita giojosa? e stoltamente
Disse che nulla è degli dei la possa?

Nė vale tanto che basti a scusare Omero la filosofia e l'autorità di Vincenzo Gravina (3) e di Clementino Vannetti che ne piglia a prestanza i sentimenti. «Non si dec recare a biasimo ad Omero, dice il sapiente di Rossano, se applica geni e passioni umane agli iddii (doveva sopraggiungere costumi da trebbio) non solo perchè a farne penetrare negli animi rozzi la idea, bisognò vestirli a proporzione delle menti che l'avean da ricevere, ma altresì perchè que' numi, al parer de' saggi, altro non erano che caratteri, a ciascuno de' quali si riduceva un nodo di attributi simili e tutti i vari attributi insieme rappresentavano le varie essenze di tutte le cose create e le cagioni tanto naturali quanto morali ». Al che rispondo negando la seconda ragione, ed affermando supporsi il falso nella prima; perocchè dicendo il Gravina che Omero in quella forma adoperò

(4) Στροφ. Β.

(2) Στροφ Δ.

(3) Rag. poet. 1. 1. c. XIV.
ANN. I.

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a fine di far penetrare negli animi rozzi la idea della divinità, suppone che i popoli di Grecia fossero rozzi e selvaggi nel tempo di Omero, e che questi scrivesse il suo poema ancora per li trecconi ed i tavernieri che sono sempre la parte rozza de' popoli, e suppone altresì che i Greci non avessero conoscimento della divinità: le quali cose tutte dimorano nel falso: perchè a' tempi di Omero la Grecia era culta a bastante ed incivilita, e lo mostrano que' tanti poeti vissuti innanzi a lui, perchè quantunque i poeti scrivano per il popolo, niuno di loro scrive mai per quei che sono la loia e la fanghiglia di esso, e perchè innanzi a lui già vi era un sistema teurgico, e già si professava religioso culto a quelle stesse divinità che Omero introduceva nel suo poema. Quanto alla seconda ragione, neghiamo al tutto che Omero ed i sapienti della età sua riputassero che gli iddii fossero le varie essenze delle cose e le cagioni tanto naturali quanto morali: eglino avevano in conto di vere e sustanziali divinità i personaggi di loro teogonia: perocchè somiglianti esplicazioni allegoriche del paganesimo, e questo simbolico interpretamento del sistema teurgico ignoravasi da' sapienti ancora dopo l'acuto filosofare di Aristotele e di Platone, molto più innanzi loro, e fu immaginato e messo a luce dopo l'ammirevole avanzamento del cristianesimo da' sofisti della scuola alessandrina per difendere in qualche modo sè stessi ed i loro antenati dalle obbiezioni irrepugnabili con che i padri della chiesa gli assalivano per lo ammettere che avevano fatto e pur continuavano a fare, la pluralità della natura divina, Cosi Porfirio che visse ne' tempi di Origene, nel libro che intitolo περι εκ λογιων φιλοσοφίας ο sia della filosofia che dagli oracoli si appara, confessava uno essere Iddio, creatore e dominatore di tutte cose, a' numi stessi spaventevole (1). E più acconciamente Massimo di Madaura grammatico pagano scrivendo a s. Agostino procaccia di escusare il forsennato sistema di sua religione. « Di vero, egli dice, chi è così pazzo e cieco di mente che non reputi a certezza esservi un solo Dio senza principio, senza prole, padre grande e magnifico della natura? Del quale la varia virtù sparsa da dentro l'universo invochiamo con varii vo

(1) S. Ag, de civ, 1. XIX. c. 34, – Eus, praep. evang. 1, IV, c. 6,

caboli, poichè il proprio nome di lui non sappiamo (1) ». Ma deh! si trovi una testimonianza così ricisa e chiara tra' filosofi o poeti dell' antichità vissuti innanzi la origine della fede cristiana! Platone, quantunque insegnasse che un Dio sovrano e indipendente aveva creato le sustanze soprammondane che erano denominate iddii, ciò non pertanto manteneva doversi loro impartire onoranza divina: dal che si pare che egli le teneva partecipi della natura divina. Varrone, come afferma s. Agostino, forse meglio di ogni altro mitologc aggiunse il conoscimento di un Dio solo per necessità di natura: ma questo conoscimento fu oscuro e variabile in tanto che egli stesso procacciò di statuire e difendere le divinità del paganesimo: e nel resto egli é fuori dubbio che Varrone aveva ricercato il sacro volume del Pentateuco, o certo interrogato gli Ebrei, perchè avendo detto che Roma per due secoli o in quel torno non vide immagine o simulacro di veruna deità, a lodare cosiffatta consuetudine allega la legge e la pratica de' Giudei. E mette a bene un dettato gravissimo di s. Agostino il quale per tutto il settimo libro della erudita e profonda scrittura che intitolò «< della città di Dio » avendo provato che vano è il culto degli iddii della civile teologia e che per esso non si giunge a vera felicità, conchiude: « per hanc ergo (la cristiana) religionem unam et veram potuit aperiri Deos gentium esse immundissimos daemones ». E poi benchè si concedesse che così estimassero, come afferma il Gravina, alcuni sapienti, questi sarebbero stati un Pitagora un Socrate ed altrettali che meglio studiarono nella teologia naturale, ma non Omero ed i suoi contemporanei che vissero ne' primordii oscuri e malfermi della filosofia. Per ultimo si conceda pure che Omero fosse venuto in quella opinione che gli iddii fossero non sustanze oggettive, ma simboli ideali delle virtù di che natura è feconda, perchê non operò che questa opinione fosse innestata mercè del suo poema negli animi rozzi che conforme al detto del Gravina non avevano conoscenza della divinità? e se i Greci avevano conoscenza della divinità, com'è fuori dubbio, perché mai a quella conoscenza non attemperò la macchina del suo poema, ma di sua posta vi sopraggiunse

(4) Ep. XIV. op. s. Aug. t. II.

tante sconcezze e turpitudini che niun popolo della Grecia attribuiva alle divinità? Dalla somma di queste ragioni si vede che Omero nel fatto della macchina mitologica contraffece alle religiose credenze della età sua: il perchè non è scusabile per veruna forma. Pertanto informata come era da una ignobile teurgia la poesia di Omero, le mancò l'aura dello spirito, e il movimento e la idealità che ne conseguita. So che ne' poemi di Omero si ritrovano brani di magnifica e luminosa poesia che partecipando la idealità sublima il pensiero, come quello in che Nettuno muove alla pugna, e quell'altro in che Giove sospende la catena d'oro e somiglianti. Il so: ma non ho inteso già io di esaminare a parte a parte i suoi poemi: ho voluto solo assegnare la indole ed il costitutivo loro, e questo è un principio tanto ignobile e vile, quanto la macchina mitologica che da Omero si adopera. E tale ancora è la indole della universa poesia de' Greci, se non quanto niuno de' poeti contemporanei o posteriori ad Omero non osò applicare alle divinita certi modi e costumanze da trivio. Nè poteva essere altrimente: mercecchè la superstizione che professavano, e che loro somministrava le immagini e gli adornamenti delle poetiche composizioni, era bassa, vulgare, adulatrice de' sensi, fomentatrice delle passioni, nè l'animo educava a generosi sentimenti, a sublimi virtù. La poesia latina, quanto si appartiene alla macchina mitologica, è riproduzione della poesia greca, avendo ella stessa conceduta la cittadinanza a parecchie fole di Atene, e ancora ad alquante sconcezze e turpitudini di Omero. Ciò non pertanto l'una si distingue e si disgrega dall' altra per alcuni gradi d'ineguaglianza. I Latini che per maturità di giudicio e candore di gusto a gran pezza superavano i Greci, videro quanto indegna cosa egli fosse nel fatto e della religione e della poetica dignità attribuire agl' iddii nefandezze e turpitudini e costumanze da trebbio: il perchè da cotanto difetto si temperarono: e quantunque loro applicassero le umane cupidigie, niente di meno serbarono in ciò stesso una certa parsimonia e gravità, e procacciarono di nobilitarne le operazioni, e di creare negli animi una condegna opinione di loro natura. Non si vede presso i Latini Venere ferita da mano mortale, non discendono Giove e Giunone a dileggiamenti e villanie che risuonano solamente ne' trivii, nè lo zoppo Vul

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