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laio,, e argomentate quanto ardua cosa egli sia avere dagli stessi artefici un giudizio irrepugnabile e certo. Sono niente di meno in Roma molti artefici e de' primi (chè i primi in questa Roma son molti) discreti, imparziali, più fedeli all'arte che bisognosi di essa, che non piaggiano con scaltrezza i compagni, che serrano il cuore ad ignobili affetti, che agli studianti novelli dispensano parole di conforto e di lode: saranno costoro i consiglieri, i guidatori nostri. Così per lo adempimento del duplice ufficio che ne impone il bisogno della epoca, e il bisogno di Roma, il giornale vestirà un carattere specifico, una indole propria che da qualunque altro il distingua, e sarà non vile ornamento alle biblioteche dei sapienti, alle officine degli artefici.

Nè la parte letteraria sarà preterita: nel che pure il nostro giornale avrà, speriamo, suggello di novità: perocchè se le lettere sono materia comune a molti giornali italici e tramarini, non sarà comune il mododella trattazione. E già nel programma il dicemmo, e in questa scrittura che segna le massime e i fondamenti del pensar nostro, il ripetiamo: non contenti all'esame della forma ci occuperemo di considerare le influenze che le opere specialmente drammatiche possono esercitare su lo stato psicologico delle nazioni, e la parte che può loro tribuirsi ne' progressi della pubblica civiltà.

Per quanto si estende dalle alpi al mare, ribocca l'Italia di verseggiatori e di versi, benchè alquanto meno del secolo XVI, quando chiunque si tenesse una favilla d'ingegno, sognava amori e foggiava canzoni, e del secolo XVIII quando per conseguire l'onorato nome di poeta bastavano le ampolle e le ventosità della scuola frugoniana. Ma noi che sappiamo quanta noia s'ingeneri agli animi dalla mediocre poesia che è la più vile in uno e la più superba, ci guarderemo dal pascere di canore inezie, vale a dire di vento, i leggitori, e solo di que' carmi favelleremo a cui fu principio e fonte la sapienza. In fatto di ragione poetica sono vari i sistemi, il sappiamo: alcuni traducono alla poesia il principio del fato, come il Byron nel Lara, il Grillparzer nell'Avola, altri velano i loro pensamenti con le impercettibili astrazioni dell'idealismo, come alcuna volta lo Schiller e il Werner, altri sognano una verità religiosa proporzionata alle indefinite variazioni dell'umano consorzio, come il Taillandier nella Beatrice, il Lamartine nel Goselino, altri affigurano le condizioni civili e religiose de' popoli che pullularono dalla mischianza dell'elemento barbarico e del romano, e perchè questi popoli si stanno raccolti sotto le insegne del cristianesimo, alle fonti del codice suo, vale a dire la bibbia,attingono gli adornamenti del poetare. Noi non vogliamo per al presente notificare le nostre opinioni: mano mano il faremo, quando ne sarà data occasione, nell'esaminare le opere specialmente drammatiche. Stiamo contenti a dire che vi ha un bello di tutti i tempi, comechè fondato nella

natura, e un bello variabile comechè s'informa dalle credenze e da' costumi de' popoli: che non rinnoveremo questioni per ubbia di nomi, che ovunque sboccerà fiore di bello, il raccoglieremo, sia nelle montagne di Caledonia ove suona la voce di Evirallina, o nelle rive del Gange che ripetono il nome di Sakontala; perocchè,, è miseria, afferma il dottissimo Balbo (1), restringere il classicismo ad una sola classe o scuola, e classica si dee chiamare qualunque composizione sia degna di essere ammirata e studiata,, che guarderemo nelle opere lo intendimento morale qual'è rivendicare le glorie nostre menomate spesso, spesso taciute dallo straniero, validare gli animi affranti da codardia, trarre dalle cronache il nome di qualche iniquo e cumulargli sulla testa il tesoro della pubblica indignazione, di qualche savio e procacciargli lo encomic della posterità.

Così con la trattazione storica e letteraria daremo opera di piacere principalmente a' sapienti, con l'artistica principalmente agli artefici, con l'una e l'altra a coloro che senza essere nè sapienti nè artefici amano le buone letture e tengono per grazia di cielo il gusto del buono e il senso del bello. Ma vi ha pure alcuna cosa che piace del pari a' sapienti e alle colte persone, agli artefici e al popolo, vale a dire le novelle diverse di viaggi di scavi di ritrovamenti, di casi o miserevoli o prosperi o lontani come che sia dalla misura del sentire, e del vivere umano, e la descrizione de' costumi e de' riti funebri o maritali delle tribù svariatissime che nella Polinesia si scoprono, e ultimamente la esamina delle composizioni drammatiche e delle musicali che omai sono l'usitato trattenimento e la pubblica scuola di tutti dal grande al pusillo, da quello che si noia ne' tappeti di Persia a quello che le torose spalle ricopre col cercine.

Ecco la materia moltiplice, ecco i vari uffici del nuovo giornale; che se queste promesse nostre paressero a qualcuno magnifiche anzi superbe come quelle che potessero creare un'alta opinione de' nostri studi, risponderemo che la vera lode non tanto dimora nel vagheggiare un intendimento, uno scopo, quanto nell'aggiungerlo, che per aggiunger quello che noi vagheggiamo, non fidiamo a noi stessi, ma sì a coloro (e sono i lumi d'Italia) che già ne promisero potente aiuto di scritture e di consigli.

(1) Medit. stor. med. XI.

PAOLO MAZIO

ACHILLE GENNARELLI.

STORIA

SULLE CONDIZIONI ATTUALI DELLA STORIA

Le storie dettate dagli scrittori del secolo XIX s'infor

mano in uno spirito tutto proprio di esse e che le separa di gran lunga dalle altre, che fino a questo di videro la pubblica luce. Nè ciò avviene solamente di quelle che di meno lontani avvenimenti si fanno rivelatrici alla posterità, ma di quelle altresì che de' più antichi tempi discorrono; cosicché é indubitato che le storie romane, ad esempio, esposte dai dotti di questo secolo danno ragione di fatti non intesi finora, sceverano le verità dagli abbellimenti nelle leggende, e portano giudizi più sicuri e più veri che non fossero quelli proclamati dai sapienti che di dieciotto secoli ci precedono. Vivono ancora taluni in Italia che di letterati o di archeologi si danno voce i quali, assuefatti a giurare nelle testimonianze degli antichi quante volte venga loro a proposito ed a riceverle quasi oracoli, rimangono come smemorati dell'ardimento di tali che vorrebbero distruggere l'antica storia romana per crearne una novella; poichè, come dicono essi, le cose esposte dagli antichi o vere o false, trionfano sempre e sono irrecusabili prove di ogni ragionamento. Ecco fin dove si può giungere !

I dotti del moderno tempo non rinnovano i fatti; li pesano, li mondano dalle falsità, e dove faccia duopo li ricusano ancora. E che il possano a dovere, facilmente si manifesta a qualunque ha buon senno. Gli avvenimenti più antichi non furono scritti, perchè naturalmente precedono la età degli scrittori, ma passarono di bocca in bocca narrati dalle più remote alle succedentisi generazioni, o furono con

servati nelle canzoni popolari, che celebravano unicamente la forza e la virtù de' primi eroi. Ma per legge che dura ancora e durerà eterna, le tradizioni storiche consegnate al popolo, in poco volger di tempo sono così snaturate, che traversando i secoli, a mala pena conservano poco germe di verità. Quando giunse la età degli storici erano già dunque sicuramente falsate, ed a volerle tramandare alla posterità senza nota di favole, era mestieri purgarle dall'inverisimile. Ora senza i fatti ed i fondamenti della storia ideale eterna dell'umanità, come mai si sarebbe potuta toccar questa meta? Il difetto non era nell'ingegno degli scrittori; ne guardi il cielo dal proferire una sentenza da fruttar vituperio presso l'universale, e che alla critica e alla ragione ripugna del pari; era fatale ed inevitabile condizione dei tempi in cui vissero. Essi stessi non aggiustavano fede a quelle informi inverisimiglianze, e tentarono anzi di restituirle ai diritti della storia. Ma lo sforzo loro falli e recò, direi, più nocumento; perciocchè ai secoli ai popoli che li aveano precorsi diedero il colore de' tempi in cui essi vivevano, facendo norma del presente al passato. Errore massimo, e nella storia fatale! Così un pastore dei tempi di Amulio nominavasi in quelli di Augusto magister regii pecoris; così varii scrittori europei discorrendo di un capo di selvaggi, di sua moglie, dei loro seguaci, usavano le parole di re, regina, damigelle, cavalieri. Quindi è che agli storici recenti si addoppiò la difficoltà dello investigare, dovendo distinguere nella leggenda e quello che d'ideale v'intruse la fervidezza delle genti e quello che v'importò da altri secoli il tentativo dei narratori.

Ad un italiano, cui tutta Europa saluta come ristoratore della storia, si debbe l'immenso progresso che fece la filosofia di essa; egli è Giambatista Vico, una delle prime glorie d'Italia. È corso più di un secolo da che egli mise in luce la sua scienza nuova dove fondò solidamente i principii della storia ideale eterna, mostrando il ricorso continuo delle cose

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