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ancora Signori, Ambasciadori e Cavalieri forestieri, che vanno con loro con grande numero de' più onorevoli cittadini della terra, e col gonfalone del segno della Parte guelfa innanzi, portato da uno de' loro donzelli in su uno grosso palafreno vestito di sopravvesta di drappo, e il cavallo covertato infino a terra di drappo bianco col segno della Parte guelfa. Poi seguono i detti palj portati a uno a uno da un uomo a cavallo: quale uomo ha il cavallo covertato di seta, e quale no: come sono per nome chiamati, e' vannosi a offerere alla chiesa di San Giovanni. E questi palj si danno per tributo delle terre acquistate dal Comune di Firenze, e di loro raccomandati da un certo tempo in qua. I ceri soprascritti, che paiono torri d'oro, sono i censi delle terre più antiche de' fiorentini: e così per ordine di degnità vanno l'uno drieto all'altro a offerere a San Giovanni, e poi l'altro di sono appiccati intorno alla chiesa dentro, e stanno tutto l'anno così infino all' altra festa, e poi se ne spiccano i vecchi, e de' palj fassene paramenti e palj da altari, e parte de detti palj si vendono allo 'neanto. Dopo questi si va a offerere una moltitudine maravigliosa e infinita di cerotti grandi, quale di libbre cento, quale cinquanta, quale più, quale meno, per infino in libbre dieci di cera, accesi, portati in mano da' contadini di quelle ville che gli offerano. Dipoi vanno a offerere i Signori della Zecca con un magnifico cero portato da un ricco carro adorno, e tirato da un paio di buoi, covertati col segno ed arme di detta Zecca: e sono accompagnati i detti signori di Zecca da circa di quattrocento, tutti venerabili uomini matricolati e sottoposti all'Arte di Calimala francesca, e de' Cambiatori, ciascheduno con begli torchietti di cera in mano, di peso di libbre una per ciascuno. Dipoi vanno a offerere i Signori Priori e loro Collegi colli loro Rettori in compagnia, cioè Podestà, Capitano e Assecutore, con tanto ornamento e servidori e con tanto stormo di trombe e di pifferi, che pare che tutto il mondo ne risuoni. E tornati ch'e' Signori sono, vanno a offerere tutti i corsieri, che sono venuti per correre il palio, e dopo loro tutti i fiamminghi e bramanzoni, che sono a Firenze tessitori di panni di lana: e dopo questi sono offerti dodici prigioni, i quali per misericordia sono stati tratti di carcere per li opportuni consigli a onore di San Giovanni, i quali sieno gente miserabili, e sienvi per che cagione si voglia. Fatte queste cose e offerte, uomini e donne tornano a casa a desinare e, come ho detto, per tutta la città si fa quel di nozze e gran conviti con tanti pifferi, suoni e canti e balli, feste e letizia e ornamento, che pare che quella terra sia il paradiso. Dipoi dopo desinare, passato il mezzo dì, e

1 Scritti nella matricola di Calimala, arte de' panni franceschi o fran cesi, e in quella de'cambiatori.

Pei Consigli del Comune che a ciò intendono.

la gente s'è alquanto riposata, come ciascuno s'è dilettato, tutte le donne e fanciulle ne vanno dove hanno a passare quelli corsieri, che corrono al palio, che passano per una via diritta per lo mezzo della città, dove sono buon numero d'abitazioni e belle case, ricche e di buoni cittadini, più che in niuna altra parte, e dall' uno capo all'altro della città per quella diritta via piena di fiori sono tutte le donne e tutte le gioie e ricchi adornamenti della città, e con grande festa e sempre vi sono molti signori e cavalieri e gentiluomini forestieri, che ogni anno delle terre circostanti vengono a vedere la bellezza e magnificenza di tale festa ed evvi per detto corso tanta gente, che par cosa incredibile, di forestieri e cittadini, che chi non lo vedesse, non lo potrebbe credere nè immaginare. Dipoi al suono de' tre tocchi della campana grossa del Palagio de' Signori, i corsieri apparecchiati alle mosse si muovono a correre; ed in sulla torre si veggono per li segni delli ragazzi, che su vi sono, quello è del tale e quello è del tale, venuti da tutti i confini d'Italia i più vantaggiati corsieri barbereschi del mondo: e chi è il primo, che giugne al palio, lo guadagna, il quale è portato in sur una carretta triunfale con quattro ruote, adorna con quattro lioni intagliati, che paiono vivi, uno in sur ogni canto del carro, tirato da due cavalli covertati col segno del Comune loro, e due garzoni, che gli cavalcano e guidano; il quale è molto grande e ricco palio di velluto chermisi fine in due pali, e tra l'uno e l'altro uno fregio d'oro fine, largo un palmo, foderato di pance di vaio, e orlato d'ermellini, infrangiato di seta e d'oro fine, che in tutto costa fiorini 300 o più: ma da un tempo in qua s'è fatto d'alt'e basso broccato d'oro bellissimo, e spendesi fiorini 600 o più. Tutta la gran piazza di San Giovanni e parte della via è coperta di tende azzurre con gigli gialli: la chiesa è una cosa di maravigliosa figura; ed altro tempo richiederà a parlare d'essa, quando aremo a dire degli ornamenti di quella città. - (Dall' ediz. cit., pag. 84 e segg.)

LEONARDO BRUNI. Chiamato comunemente Leonardo Aretino, nacque in Arezzo nel 1369, di povera famiglia. Quando suo padre Francesco fu esiliato d'Arezzo e incarcerato nel castello di Pietramala, egli ancor giovinetto, venne chiuso nel castello di Quarata; ove, nella stanza assegnatagli era dipinto il ritratto di Francesco Petrarca; e questo ritratto guardando egli tutt'i giorni, fu (come racconta nel Rerum suo tempore ec. commentarius) acceso di grand'ardore per le discipline che quegli aveva coltivato. In Firenze imprese poi lo studio della giurisprudenza, che quindi abbandonò per seguire la disciplina letteraria di Emanuele Crisolora e di Giovanni da Ravenna. Godè l'intimità del vecchio Coluccio Salutati; ebbe a discepolo Niccola di Vieri de' Medici. Nel 1405

andò a Roma e fu segretario di Innocenzo VII e de' suoi successori. Essendo papa Alessandro V, fu eletto da' Fiorentini cancelliere della Repubblica (1410), ma non rimase a lungo in Firenze, perchè poco contento delle condizioni fattegli, e ritornò a Roma nella corte pontificia come segretario di Giovanni XXIII. Nel 1412 si ammoglio; nel 1414 segui Giovanni XXIII al Concilio di Costanza, ma tornò a Firenze di nuovo nel 1415, e riprese i suoi studj e frequentò le compagnie degli eruditi fiorentini. Ebbe poi aspra polemica con Niccolò Nicoli. Si dette a scrivere la storia della repubblica in latino, dalle origini della città fino al 1402. Ne restano XII libri : compiuto il primo di essi ebbe la cittadinanza fiorentina (1416), alla fine di nove libri (1439) l'esenzione dall'imposte e gabelle per sè e i figliuoli. Nel 1426 andò ambasciatore a Martino V; fu di nuovo e con patti onorevolissimi Segretario della repubblica (1427); e attendendo agli affari dell'alto ufficio, agli studj e anche a far denari, visse fino al 9 marzo 1444. Fu sepolto in Santa Croce con epitafio di Carlo Marsuppini. L'accompagnamento fu solennissimo; Giannozzo Manetti recitò l'orazione funebre, e cinse al morto, che aveva sul petto il volume della sua Storia, la corona d'alloro.

Non accade qui di parlare delle molte traduzioni latine dal greco del celebre umanista, che fu riputato il più grande scrittore in latino della prima metà di questo secolo. In italiano oltre qualche scrittura minore, come una Canzone morale e una Novella, lasciò le biografie di Dante e del Petrarca, che meritano di esser ricordate come saggio di quel ch'egli avrebbe saputo fare come scrittor volgare, se la lingua italiana avesse coltivato con l'amore di Leon Battista Alberti. Scrisse la vita di Dante per riposarsi dalla traduzione della Poetica di Aristotele.

[Per le notizie biografiche vedi, oltre quel che ne scrisse VESPASIANO DA BISTICCI, Vite ec., ediz. Barbèra, p. 427, il VOIGT, Il risorgimento dell'antichità classica, trad. ital. di D. Valbusa, 1888-90, I vol., p. 307, 380, 388; II vol., p. 18, 159, 185, 206, 249; e CIRILLO MONZANI, Di L. Bruni, nell' Arch. stor. ital., 1857 e innanzi alla Istoria fiorentina volgarizzata da Donato Acciajuoli, Firenze, Le Monnier, 1861.]

Dante. Dante innanzi la cacciata sua di Firenze, contuttochè di grandissima ricchezza non fusse, nientedimeno non fu povero, ma ebbe patrimonio mediocre e sufficiente al vivere onoratamente. Ebbe un fratello chiamato Francesco Alighieri; ebbe moglie e più figliuoli, de quali resta ancor oggi successione e stirpe. Case in Firenze ebbe assai decenti, congiunte con le case di Gieri di messer Bello suo consorto; possessioni in Camerata e nella Piacentina e in piano di Ripoli; suppellettile abbondante e preziosa, secondo egli scrive. Fu uomo molto pulito; di statura decente e di grato aspetto e pieno di gravità; parlatore rado e tardo, ma nelle sue rispo

ste molto sottile. L'efligie sua propria si vede nella chiesa di Santa Croce, quasi al mezzo della chiesa, dalla mano sinistra andando verso l'altare maggiore, e ritratta al naturale ottimamente per dipintore perfetto di quel tempo. Dilettossi di musica e di suoni, e di sua mano egregiamente disegnava. Fu ancora scrittore perfetto, ed era la lettera sua magra e lunga e molto corretta, secondo io ho veduto in alcune pistole di sua propria mano scritte. Fu usante in giovanezza sua con giovani innamorati; ed egli ancora di simile passione occupato, non per libidine, ma per gentilezza di cuore; e ne suoi teneri anni versi d'amore a scrivere cominciò, come vedere si può in una sua operetta volgare, che si chiama Vita Nuova. Lo studio suo principale fu poesia, non sterile nè povera nè fantastica, ma fecondata e arricchita e stabilita da vera scienzia e da molte discipline.

La virtù di questo nostro poeta fu nella rima vulgare, nella quale è eccellentissimo sopra ogni altro; ma in versi latini e in prosa non aggiunse a quelli appena che mezzanamente hanno scritto. La cagione di questo è, che il secolo suo era dato a dire in rima: e di gentilezza di dire in prosa o in versi latini niente intesero gli uomini di quel secolo, ma furono rozzi e grossi e senza perizia di lettere; dotti nientedimeno in queste discipline al modo fratesco e scolastico. Cominciossi a dire in rima, secondo scrive Dante, innanzi a lui circa anni centocinquanta; e i primi furono in Italia Guido Guinizzelli bolognese, e Guittone Cavaliere gaudente d'Arezzo, e Bonagiunta da Lucca e Guido da. Messina; i quali tutti Dante di gran lunga soverchiò di scienzie e di pulitezza e d'eleganza e di leggiadria; intanto che egli è opinione di chi intende, che non sarà mai uomo che Dante vantaggi in dire in rima. E veramente ell'è mirabil cosa la grandezza e la dolcezza del dire suo, prudente, sentenzioso e grave, con varietà e copia mirabile, con scienza di filosofia, con notizia di storie antiche, con tanta cognizione delle storie moderne, che pare ad ogni atto essere stato presente. Queste belle cose, con gentilezza di rima esplicate, prendono la mente di ciascuno che legge, e molto più di quelli che più intendono. La finzione sua fu mirabile e con grande ingegno trovata; nella quale concorre descrizione del mondo, descrizione de' cieli e de' pianeti, descrizione degli uomini, meriti e pene della vita umana, felicità, miseria e mediocrità di vita intra due estremi. Nè credo che mai fusse chi imprendesse più ampla e fertile materia da potere esplicare la mente d'ogni suo concetto, per la varietà delli spiriti loquenti di diverse ragioni di cose, di diversi paesi e di varj casi di fortuna.

RINALDO DEGLI ALBIZZI. Figliuolo di Maso degli Albizzi, nacque in Firenze il 1370. Fin dal 1399 cominciò ad avere pubblici

uffiej e parte assai importante nelle cose della Repubblica, nel maneggio delle quali si procurò e mantenne per lungo tempo nominanza d'uomo integro e sollecito del bene della patria, se non che ebbe in sommo grado l'ambizione di primeggiare. La storia particolareggiata delle sue faccende politiche è tutta nelle Commissioni per il Comune (dal 1399 al 1433), che sono state raccolte e illustrate da C. Guasti (Firenze, Galileiana, 1867-73, 3 vol.). Dopo la disgraziata guerra di Lucca da lui infelicemente amministrata e che fini colla rotta de' Fiorentini sul Serchio, ai 2 dicembre 1430, divenne capo della parte contraria a Cosimo de' Medici, col quale e colla sua famiglia, particolarmente con Averardo, aveva avute precedentemente relazioni cordiali. La fazione Rinaldesca fu vinta alla sua volta; e Rinaldo confinato coi primi di parte sua (1434), divenne, come gli fa dire il Machiavelli (Ist. fior., 1. IV sul fine) uno onorevole ribelle. Egli non doveva riveder più la patria, nè la rivide la sua figliuolanza. Fu alla corte del Duca di Milano Filippo Visconti, e tentò invano colle armi del principe, condotte da Niccolò Piccinino (1436 e 1440), di rientrare in Firenze. Pensò allora a sciogliere il voto che aveva fatto fin dall' anno 1406 di visitare il Santo Sepolcro, ma fu colpito da morte in Ancona il 2 febbraio 1442 (st. comune) e sepolto nella Chiesa di San Domenico. Coltivò anche le lettere; tenue in casa per un anno, maestro a' figliuoli, Tommaso Parentucelli di Sarzana, poi Niccolò V, allora semplice e povero chierico. Rimane di lui un sonetto politico composto nel 1434 (0 umil popol mio tu non t'avvedi), che fu attribuito già al Burchiello. Pensò a mettere in ordine le sue Commissioni fin dal luglio 1423: e queste, oltre che da adoperarle per la loro grandissima importanza storica, son da lodare anche per la forma semplice, naturale e insieme dignitosa: tali, da essere buon esempio del linguaggio politico e diplomatico del tempo.

Lettera ai Dieci di Balia. Magnifici Signori, ecc. In sulla mezza terza ier mattina, per Vettorio cavallaro, vi scrissi quanto per insino a quella ora era seguito di qua. Dipoi a sera ebbi la vostra de' di XV, ore XXI, piena di mia riprensione. Alla quale sono indugiato a rispondere insino a questa mattina per più deliberatamente e con maturità giustificar me colla verità, e poi conchiudere quanto io creda che sia e di vostro onore e bene di me.

Signori, voi vi dolete ch'io non v'ho avisati, se non per cenni, de' mancamenti di questo campo, e della poca gente che c'è stata, e massime nell' ultima volta che si combattė Collodi. Se voi farete rileggere le lettere mie, vedrete che per più ve n'ho avisato, e detto che egli era più gente in Pescia e in Villabassilica, che in questo campo; e perchè io non nominassi persona, voi sapete ben chiaro chi c'è vostro condottieri. Non ce ne sono eglino stati tanti: E ben

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