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barbare formole de' notai e del volgo la lingua di Virgilio e di Cicerone; istituì un collegio destinato a coltivare e diffondere la lingua de' Greci; incoraggiò lo studio delle lingue orientali; fondò in Roma una stamperia, che sotto la direzione del celebre Giovanni Lascaris pubblicasse i manoscritti più preziosi; fece dissotterrare quanto potè rinvenirsi di opere antiche e le espose allo studio de' nuovi artisti; raccolse presso di sè un gran numero di pittori, scultori, poeti; molti ne stipendiò nel restante d'Italia, e non pochi anche fuori. La sua Corte è rappresentata dai nostri storici come una scuola o un modello di magnificenza, pel cui esempio molti cardinali d'illustri e doviziose famiglie fecero anch'essi delle loro case altrettante piccole corti, dove le lettere e le arti trovavano una splendida protezione. Ma questo smisurato dispendio esauri le ricchezze de' privati e del pubblico; tanto che alla morte di Leone X si trovò ch' egli, oltre all' aver consumati i tesori della Chiesa, l'aveva anche aggravata di un debito enorme. Frattanto le nuove dottrine che serpeggiavano nell'Europa facevano ogni giorno più scarsi i proventi di Roma; e quindi ai successori di Leone X sarebbe stato impossibile di emularne la splendidezza, quand' anche ne avessero avuta intenzione, od i tempi che sopravennero ciò avessero comportato. Nè le guerre soltanto nocquero in Roma agli studj; ma più volte furon repressi anche dal timore ch' ebbero i papi di vederli rivolti a sostegno delle eresie oltramontane.

In Firenze Cosimo I, assicuratosi del dominio di quello Stato, volle col favorire le arti e le lettere far obbliare la libertà, come già i suoi maggiori per quella medesima via s'erano posti in grado di opprimerla. Le Belle Arti non furono mai tanto favoreggiate, quanto in Firenze sotto quel principe; nè forse alcun' altra città diede mai nascimento od albergo e istruzione a tanti artisti eccellenti in si breve numero d'anni. Lo stesso dee dirsi di Francesco e poi di Ferdinando figliuoli di Cosimo, e de' loro tempi.

Gli Estensi in Ferrara fino al 1598, quando dai papi ne furono privati, e più tardi in Modena; i Gonzaga a Mantova, a Guastalla, a Sabbionetta; la Casa della Rovere nel Ducato d'Urbino; Emanuele Filiberto, e forse più di lui il figlio e successore Carlo Emanuele I, nel Piemonte, tutti gareggiavan del pari in questa nobile protezione de' buoni studj e dell' arti: e molte piccole terre che ne'secoli susseguenti giacquero dimenticate, nell'età di cui ora parliamo furono albergo di dotti, e diffusero sopra l' Europa i benefizj della cultura.

NOTIZIE LETTERARIE.

Variamente è giudicato nella storia delle nostre lettere il secolo XVI, poichè se taluni lo chiamano aureo, altri coll' Altieri sentenziano ch'esso chiaccherò di soverchio. Se noun che siffatte sentenze alla lesta e per le quali si vuole con un solo vocabolo, e in forma epigrammatica, determinare l' indole di molti fatti contenuti in una lunga serie di anni, vanno accolte con gran diflidenza; e l'Alfieri stesso, ritornandoci sopra, avrebbe corretto cio che disse del Cinquecento, al modo stesso come, dopo aver gettato via negli anni giovanili il Galateo del Della Casa, a causa di quell' iniziale conciossiacosachè, confesso di averlo negli anni maturi letto e riletto con gusto e profitto non piccolo.

La letteratura italiana del Cinquecento è il frutto del lungo lavoro fatto nel secolo antecedente a fine di appropriarsi la cultura classica, e consertarla con tutto quello che di nuovo aveva recato seco la mutata civiltà; è la piena e ricca manifestazione di una vigoria intellettuale giunta al suo rigoglio. Non vi ha genere letterario che in quel secolo non sia stato trattato: il poema romanzesco, epico, didascalico; la storia generale e particolare; la ricerca erudita e l'illustrazione artistica; la novella, la commedia, la tragedia, l'eeloga, l'epistolografia, il dialogo, il trattato morale; si tentarono anche nuove forme, ad esempio la poesia burlesca nell' atteggiamento datole dal Berni, e la rappresentazione tragicomica, nonchè il dramma pastorale e musicale. Tutto questo è prova di una maturità d'intelletto, alla quale gli altri popoli di Europa non erano giunti allora, e non giunsero se non più tardi.

Questa maturità d'intelletto si mostra sopra tutto in quei generi che raggiunsero maggiore eccellenza, e che diedero frutti imperituri. Ricordiamo quel che produsse il Cinquecento nella poesia epica e nella storia. L'epica fu trattata da due ingegni grandissimi, e assai diversi l'un dall'altro: la disputa della preminenza fra l'Ariosto e il Tasso fu trastullo di accademici oziosi, ma non può seriamente farsi, tanto quei due pocti sono diversi nel fine e nei mezzi, e tanto diverse sono le condizioni de' tempi in che vissero, e ch'essi ritraggono nelle loro opere. Giocondo, lepido, fiorito è il poema dell' Ariosto, che si direbbe essere il sorriso d'Italia sul principio del secolo decimosesto, quando, sebbene già irrompessero fra noi gli stranieri, la vita sembrava un lieto carnevale, e i Papi, con Leone X, erano a capo di quel novissimo tripudio. Ma in quel cielo limpido e sereno, cominciavano già a stendersi le nubi: e il poema, che non ha principio in sè e sembra procedere senza sapere dove e quando finirà; che si direbbe senza concetto organico, ma composto soltanto per far passare piacevol

mente il tempo, è qua e là interrotto da gridi di dolore e da fiere rampogne agli italiani, prossimi, per loro ignavia, alla servitù. Tuttavia, ciò che più colpisce in un componimento di sì apparente levità e dove sembra predominare soltanto l'immaginazione, è la straordinaria conoscenza del cuore e delle passioni umane, è la meravigiosa maestria dell'autore nel ritrarre tanti e sì diversi caratteri. L'Ariosto sta per ciò a non grande distanza da Dante e dal Boccaccio; e il poema di lui, anche ora che niuno più s'appassiona, colla sincerità degli antichi uditori e lettori di storie cavalleresche, pel suo Carlomagno e per la cavalleria, ha l'attrattiva di una grand'opera d'arte; si legge da giovani per diletto di fantasia, si rilegge da vecchi per ritrovarvi la conferma dei dettati dell'esperienza, e vagheggiarvi la perfezione della potenza rappresentativa.

Il Tasso invece è serio, studioso della regolarità nel tutto e nelle parti, fors' anche un po' compassato e come inamidato alla spagnuola: l'argomento da lui prescelto, tutto morale e religioso, esclude ogni lepidezza e ogni scherzo; l'arte vi ha tuttavia un che di morbido, di tenero, di elegiaco, ma la voluttà, regina nel Furioso, è qui rappresentata come una colpa; ed ei sembra piuttosto vittima che padrone dei fantasmi, specialmente femminili, che crea la sua immaginativa: si direbbe che il suo poema, con tante lacrime e senza mai un sorriso, rappresenti lo stato d'Italia dopo la caduta delle libertà politiche e dopo il Concilio di Trento. Il Furioso è il più perfetto esempio di poesia cavalleresca: vario, irregolare, capriccioso, informato ad un amabile epicureismo; la Gerusalemme è il più perfetto esempio dell' epica rinnovata: grave, solenne, strettamente uno, con predominio di sensi ascetici e devoti; ma ambedue, senza far tra essi paragone di precedenza, sono da annoverare fra le più belle opere del secolo decimosesto e di tutta la letteratura italiana.

La storia sorse in questo secolo a grande altezza, massimamente col Machiavelli e col Guicciardini: diversi l'un dall'altro nel campo della storiografia, non meno che i due sopra ricordati nel campo dell'epica; ma ambedue sommi nel comprendere collo sguardo un'ampia serie di eventi, nel rannodare gli effetti alle cause, nel trarre dai fatti ammaestramenti politici, nel dipingere al vivo caratteri d'uomini. E ad essi fa corona una schiera di storici, per la massima parte fiorentini, che vengono detti minori, soltanto per prossimità di tempi e somiglianza di materia con codesti due grandissimi.

Basterebbe l'aver accennato a tali due forme di scritture, che allora raggiunsero veramente il più alto culmine di perfezione; ma anche gli altri generi, che sopra ricordammo, vantano opere di gran merito. Non molto abbiamo potuto dare, e per buone ragioni, dei comici fiorentini: ma quanta conoscenza della sciocchezza e della depravazione umana non v'è nella Mandragola del

Machiavelli e quanto brio di dialogo e qual tesoro di lingua viva, non solo in cotesta commedia, ma in quelle del Bibbiena, del D'Ambra, del Cecchi, del Firenzuola, del Grazzini! E altrettanto dicasi delle novelle di quest'ultimo, non che di tutti gli scritti del penultimo. Dove poi lasciare quel bizzarro Cellini, così indipendente nella vita dalle norme della comune moralità, come nello scrivere dalle regole della grammatica, e pure artista vivace ed amabile? E, d'altro lato, quanta gravità di dottrina e bontà di sentenze nel Cortegiano del Castiglione e nel Galateo del Della Casa! Ogni aspetto della vita, ogni forma del pensiero, ogni atteggiamento del costume è riprodotto dalla letteratura del secolo XVI. E se spesso la trattazione vi è troppo larga e un po'retorica, e il periodo si svolge con grande ampiezza, egli è a dire che sia come una veste signorile e ricca, la quale cuopre e drappeggia convenientemente un corpo ben conformato e robusto. Quei nostri vecchi del cinquecento, avvezzi alle corti imperiale e papale e a quelle dei duchi e signori che ne imitavan la pompa, sdegnavano di mandar fuori le loro scritture in umile farsetto. Non consiglieremmo ai giovani, di imitar quella forma: ma essa sta bene alla letteratura di quell' età, in che l'Italia, se non era regina negli ordini della politica, era maestra a tutte le genti in ogni maniera di dottrina e d'arte.

La maggioranza degli scrittori di questo secolo è tuttavia fiorentina, o almeno toscana; ma già si vede dal numero non piccolo di nativi d'altre parti della penisola, quanto si fosse in tutta Italia diffuso uno stesso linguaggio. Il vero è che, sebbene in teorica si facessero gran dispute sul nome e sull'essenza della lingua, anche dai dissenzienti si seguiva in fin de' conti, l'uso dei fiorentini studiato nei maggiori scrittori, e niuno saprebbe scoprire in che propriamente consista lo scrivere lombardo del Castiglione. E il più perfetto scrittore non toscano di quell'età, e dei maggiori fra tutti, Annibal Caro, nell'Apologia risolutamente affermò di seguire l'uso di Firenze, e ad esso attingere la proprietà e vivezza del dettato.

Ma in tanto splendore di cultura, in tanta raffinatezza del costume, è doloroso notare come nel secolo XVI cominci e rapidamente progredisca la decadenza d'Italia: nella moralità, per corruzione della coscienza: e, per necessario effetto, negli ordini politici e militari. Questo videro allora due acuti intelletti, italiano l'uno, francese l'altro. Il Machiavelli scriveva già circa il 1520: Credevano i nostri principi italiani, prima ch' egli assaggiassero i colpi delle oltremontane guerre, che ad uno principe bastasse sapere negli scrittoi pensare una acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne' detti e nelle parole arguzia e prontezza, sapere tessere una fraude, ornarsi di gemme e d'oro, dormire e mangiare con maggiore splendore che gli altri, tenere assai lascivie intorno, governarsi co'sudditi avaramente e superbamente,

marcirsi nell' ozio, dare i gradi della milizia per grazia, disprezzare, se alcuno avesse loro dimostro alcuna lodevole via, volere che le parole loro fussero responsi di oracoli; nè si accorgevano i meschini che si preparavano ad essere preda di qualunque gli assaltava.» (Arte della Guerra, in fine). E poco dopo il Montaigne: « Quand nostre roy Charles huictiesme, quasi sans tirer l'espee du fourreau, se veit maistre du royaume de Naples et d'une bonne partie de la Toscane, les seigneurs de sa suitte attribuerent cette inesperee facilité de conqueste, à ces que les princes et la noblesse d'Italie s'amusoient plus à se rendre ingenieux et sçavants, que vigoreux et guerriers.» (Essais, I, 24, in fine).

Giusto ammaestramento circa i pericoli di una raffinata cultura intellettuale scompagnata dalla rettitudine della coscienza e dal vigore delle membra, la dimenticanza del quale l'Italia dovette scontare con lunghi secoli di obbrobriosa servitù.

[Intorno a questo periodo oltre alla ricordata Storia del GASPARY, la quale si arresta al capitolo su La commedia, si può vedere, U. A. CANELLO. Storia della lett. ital. nel sec. XVI, Milano, Vallardi, 1880, libro errato nel disegno ma ricco di acute osservazioni; SYMONDS, op. cit., parte II, London, 1881; e anche G. ROSCOE, Vita e pontificato di Leone X, trad. con note e do cumenti da L. BOSSI, Milano, Sonzogno, 1816, vol. 12.1

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