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LODOVICO ARIOSTO.

La vita dell'Ariosto si trova in gran parte raccontata da lui medesimo, particolarmente nelle sue Satire; dalle quali (poichè sono anche ricche di molti pregi) trascriveremo i luoghi più opportuni alla nostra narrazione.

Del conte Nicolò Ariosto e di Daria Malaguzzi nacque Lodovico in Reggio agli 8 settembre 1474. Suo padre, allora capitano della cittadella, col favore di Ercole I duca di Ferrara aveva accresciuta la ricchezza e la dignità della famiglia, già da più tempo al servizio de' signori da Este, sebbene poi il patrimonic diviso tra' molti figliuoli riuscisse scarso a ciascuno. Sin da fanciullo fu manifesta l'inclinazione di Lodovico alle lettere amene ed alla poesia; ma, dice egli stesso:

Mio padre mi cacciò con spiedi e lancie
Non che con sproni a volger testi e chiose,1
E m'occupò cinque anni in quelle ciancie;
Ma poi che vide poco fruttuose

L'opere, e il tempo in van gittarsi, dopo
Molto contrasto, in libertà mi pose.

Passar vent'anni io mi trovavo, e d'uopo

Aver di pedagogo, chè a fatica

Inteso avrei quel che tradusse Esopo.
Fortuna molto mi fu allora amica,

Che mi offerse Gregorio da Spoleti
Che ragion vuol ch'io sempre benclica:
Tenea d'ambe le lingue bei secreti,

E potea giudicar se miglior tuba

Ebbe il figliuol di Venere o di Teti.2 (Satira VII, v. 157-171.)

Ma io, soggiunge, non curai allora, o per pigrizia o per mala fortuna, d'apprendere il greco (asserzione che alcuni non voglion prender troppo alla lettera)

Chè'l saper nella lingua degli Achei
Non mi reputo onor, s'io non intendo
Prima il parlar de li Latini miei.

Mentre l'uno acquistando, e differendo
Vo l'altro, l'occasion fuggì sdegnata,

Poichè mi porge il crine ed io no 'l prendo. (Ibid., v. 178-183.)

Gregorio, monaco agostiniano, divenuto maestro del figliuolo di quel Gian Galeazzo Sforza che morì in Pavia avvelenato (come si crede) per opera di Lodovico il Moro, andò con quello a Lione in Francia, là dove

Lasciò morendo i cari amici in lutto.

Questa jattura e l'altre cose nove

1 A studiar leggi; (1489) a Ferrara.

2 Dotto in greco e in latino, poteva giudicare se meglio fu cantato di Enea o di Achille.

Che in quei tempi successero, mi fero
Scordar Talía ed Euterpe e tutte nove.1

Mi more il padre, e da Maria il pensiero
Dietro a Marta bisogna ch'io rivolga;2

Ch'io muti in squarci ed in vacchette 3 Omero:
Trovi marito e modo che si tolga

Di casa una sorella, e un'altra appresso,
E che l'eredità non se ne dolga:

Coi piccioli fratelli, ai quai successo
Ero in luogo di padre, far l'uffizio
Che debito e pietà m' avea commesso:

A chi studio, a chi Corte, a chi esercizio
Altro proporre, e procurar non pieghi
Dalle virtudi il molle animo al vizio.

Nè quest' è sol che alli miei studi nieghi
Di più avanzarsi, e basti che la barca,
Perchè non torni a dietro, al lito leghi;
Ma si truovò di tanti affanni carca
Allor la mente mia, ch'ebbi desire
Che la cocca al mio fil fesse la Parca.

(Ibid., v. 135-216.)

Non si deve credere per tutto ciò che l'Ariosto se ne stesse lungamente senza esercitare il suo ingegno: che anzi le poesie italiane e latine da lui composte in quel tempo gli diedero bella fama; nel 1502 era stato nominato capitano di Canossa; e nel 1503 poi il cardinale Ippolito d'Este, figlio del duca Ercole, vescovo di Ferrara, lo chiamò a sè come suo gentiluomo. Ma non fu questa nuova condizione molto favorevole agli studj dell'Ariosto; il quale anzi l'annovera tra le cagioni che ne lo distolsero:

Alla morte del padre e delli dui

Si cari amici, aggiungi, che dal giogo
Del Cardinal da Este oppresso fui;

Che dalla creazione insino al rogo7
Di Giulio, e poi sette anni anco di Leo,
Non mi lasciò fermar molto in un luogo,
E di poeta cavallar mi feo:
Vedi se per le balze e per le fosse
Io potevo imparar greco o caldeo.

(Ibid., v. 232-240.)

E sappiamo infatti che il Cardinale adoperò, per suo servizio, l'Ariosto nelle cose dello stato e in altre di minor conto, più forse che non si crederebbe trattandosi d'un poeta; e lo inviò più volte a Roma, prima per domandare soccorso contro i Veneziani, poi (come dice egli stesso) a placar la grand' ira di Secondo (Sat. II, v. 153), allorchè Giulio II era fieramente sdegnato col Duca, përchè, fedele ai patti di Cambrai, avea ricusato di combattere a danno

1 E tutte le nove Muse.

Cioè dalla vita contemplativa e dagli studj, alla vita attiva.

3 In fogli di ricordi e libri di conti.

Basti: fu assai, ch'io non dimenticassi quel ch'avevo imparato fin' allora. Facesse quel nodo con che il filo si lega al fus quando s'è finito di flare; e qui per metafora significa por fine alla vita.

I già mentovato Gregorio da Spoleto e Pandolfo Ariosto, suo cugino, 7 Al rogo ec. Alla morte di Giulio II. Leo, Leone X,

della Francia. E si racconta che una volta (1510) fu dal pontefice minacciato di esser buttato in acqua, e in un'ambasciata in che accompagnò il Duca (1512) trovarono essi il pontefice tanto intrattabile e tanto furioso, che non senza pericolo poterono salvarsi fuggendo. L'Ariosto servi i suoi padroni anche coll'armi: certo è che fu presente al combattimento contro i Veneziani nel Polesine, il 30 novembre 1509, (Orl. Fur., XXXVI, 5).

Ma per quanto queste distrazioni fossero grandi, esse non impedirono all'Ariosto di coltivar la poesia e attendere a comporre appunto in quel tempo la maggiore delle sue opere, anzi una delle maggiori opere poetiche della letteratura italiana. E sebbene gli paresse che i suoi servigj fossero male ricompensati, nondimeno adoperò per molti anni l'ingegno a tessere un lungo poema, diretto principalmente a illustrare la Casa d'Este.

Egli faceva malvolentieri la vita randagia a cui l'obbligava il Cardinale; non era troppo amante del viaggiare (Sat. IV, v. 49 e seg.), eppure già era andato a Roma per fare omaggio al nuovo papa, Leone X (ibid., v. 175 e seg.), e ottenerne qualche favore. Ma il Cardinale non era contento di lui. Anzi, nel 1517, per avere il poeta ricusato d'accompagnarlo nel suo vescovado di Buda nell'Ungheria, lo rimosse del tutto dal suo favore. Intorno a ciò è bello sentire quel che l'Ariosto medesimo scrisse a suo fratello Alessandro ed a Lodovico da Bagno, che seguirono il Cardinale nel detto viaggio:

Io desidero intendere da voi,

Alessandro fratel, compar mio Bagno,
S'in Corte è ricordanza più di noi;

Se più il Signor me accusa; se compagno
Per me si leva, e dice la cagione

Per che, partendo gli altri, io qui rimagno:
O, tutti dotti nella adulazione,

(L'arte che più tra noi si studia e cole),
L'aiutate a biasmarmi oltra ragione.

Pazzo chi al suo Signor contraddir vuole,
Se ben dicesse c' ha veduto il giorno
Pieno di stelle, e a mezza notte il sole!

O ch'egli lodi o voglia altrui far scorno,
Di varie voci subito un concento
S'ode accordar di quanti n'ha d'intorno;
E chi non ha, per umiltà, ardimento
La bocca aprir, con tutto il viso applaude,
E par che voglia dire: anch' io consente.

Ma se in altro biasmarmi, almen dar laude

Dovete, che volendo io rimanere,

Lo dissi a viso aperto e non con fraude.

Dissi molte ragioni, e tutte vere,

Delle quali per sè sola ciascuna

Esser mi dovea degna di tenere.1 (Satira II, v. 1-24.)

1 Doveva esser degna di mi ritenere. Doveva riuscire, sembrare degna che per lei mi rimanessi.

Queste ragioni che il Poeta viene enumerando sono la sua inferma salute, il clima freddo, il caldo delle stufe adoperate ne' paesi oltramontani, e la qualità de' cibi usati dagli Ungheresi. Forse direte, soggiunge, ch'io potrei mangiare da me solo a mio modo: ma, risponde:

Io per la mala servitude mia
Non ho dal Cardinale ancora tanto
Ch' io possa fare in corte l'osteria.

Apollo, tua mercè, tua mercè, santo
Collegio delle Muse, io non possiedo
Tanto per voi, ch' io possa farmi un manto.

Oh, il Signor t'ha dato...! lo ve'l concedo,

Tanto che fatto m'ho più d'un mantello;

Ma che m'abbia per voi dato, non credo. (Ibid., v.85-93.)

E poiché, séguita, il Cardinale l'ha detto a questo e a quello, lo voglio ridire anch'io: egli non fa verun conto di quanto scrissi per lui e per la sua Casa.

Non vuol che laude sua da me composta
Per opra degna di mercè si pona:

Di mercè degno è l'ir corrend' in posta....

S' io l'ho con laude ne' miei versi messo,
Dice ch'io l'ho fatto a piacere e in ozio;
Più grato fôra essergli stato appresso.

E se in Cancellaria 2 m' ha fatto sozio
A Milan del Costabil, sì c' ho il terzo
Di quel che al notar vien d'ogni negozio,

Gli è perchè alcuna volta io sprono e sferzo

Mutando bestie e guide, e corro in fretta

Per monti e balze, e con la morte scherzo. (Ibid., v. 97-114.)

Ed ora, soggiunge, per avere negato di veder Agria e Buda si riprende parte di quel che m'ha dato, e m'esclude dalla sua grazia. Però quasi mi pento d'aver tanto faticato a cantare gli alli gesti e il valore del suo antenato Ruggiero (Ibid., v. 139-141), poichè ciò non mi fa accetto a' suoi discendenti.

Ma, prosegue, oltre al già detto, io ebbi tante cagioni di non seguitarlo, che s'io le voglio dir tutte nè questo basterà nè un altro foglio. E qui, accennate le cure domestiche e lo stato della famiglia, aggiunge, volgendosi al proprio fratello:

Io son de' dieci il primo, vecchio fatto
Di quarantaquattro anni, e 'l capo calvo
Da un tempo in qua sotto il cuffiotto appiatto.
La vita che mi avanza me la salvo
Meglio ch'io so; ma tu che diciotto anni
Dopo me t' indugiasti a uscir dell' alvo,

1 Per voi, Apollo e Muse; cioè per ricompensa delle poesie scritte da me in sno onore.

2 In cancelleria ec. Il Cardinale aveva fatto avere all'Ariosto la terza parte degli onorarj dovuti al notaio della Cancelleria di Milano, ciò che gli fruttava 25 sendi ogni quattro mesi. Colui poi col quale l'Ariosto divideva i proventi della Cancelleria era un Costabili di Ferrara.

Gli Ongari a veder torna e gli Alamanni,
Per freddo e caldo segui il Signor nostro,
Servi per amendue, rifà i miei danni:

Il qual se vuol di calamo ed inchiostro
Di me servirsi, e non mi tôr da bomba,1
Digli: Signore, il mio fratello è vostro.

Io stando qui farò con chiara tromba
Il suo nome sonar forse tanto alto,
Che tanto mai non si levò colomba.

Ma, continua dicendo,

(Ibid., v. 217-231.)

Se avermi dato onde ogni quattro mesi
Ho venticinque scudi, nè sì fermi

Che molte volte non mi sien contesi,

Mi debbe incatenar, schiavo tenermi,
Obbligarmi ch' io sudi e tremi, senza
Rispetto alcun ch'io muoia o ch'io m'infermi;
Non gli lasciate aver questa credenza;
Ditegli che piuttosto ch'esser servo

Torrò la povertade in pazienza....

Or conchiudendo dico, che se 'l sacro

Cardinal comperato avermi stima

Con li suoi doni, non mi è acerbo ed acro

Renderli, e tôr la libertà mia prima. (Ibid., v. 238-265.)

Queste scuse non appagarono il Cardinale; sicchè l'Ariosto cessò affatto di appartenergli, e passò al servizio del duca Alfonso (1518): di che egli medesimo scriveva all'amico e cugino Annibale Malaguzzi così:

Poi che, Annibale, intendere vuoi come
La fo col duca Alfonso, e s' io mi sento
Più grave o men delle mutate some,2

Perchè, s' anco di questo mi lamento,
Tu mi dirai c' ho il guidalesco 3 rotto,
O ch'io son di natura un rozzon lento;
Senza molto pensar, dirò di botto
Che un peso e l'altro ugualmente mi spiace,
E fora meglio a nessun esser sotto.

Dimmi or, c'ho rotto il dosso, e, se'l ti piace,

Dimmi ch'io sia una rôzza, e dimmi peggio:

In somma, esser non so se non verace. (Satira IV, v. 1-12.)

Se io, dice, fossi stato unico erede della sostanza paterna,

La pazzia non avrei delle ranocchie
Fatto già mai, d'ir procacciando a cui
Scoprirmi il capo e piegar le ginocchie.
Ma poi che figliuolo unico non fui,
No mai fu troppo a' miei Mercurio amico,
E viver son sforzato a spese altrui;

1 Non tôrmi dal mio luogo: non isviarmi da' miei studj.

2 Dell mutate ec Del servire il Duca anzi che il Cardinale.

3 Gui ale chi diconsi le piaghe de' cavalli o d'altre bestie da tiro.

↳ La pazzia ec. Allude alla favola delle rane che vollero avere un re.

5 Dio de' mercanti e delle ricchezze. Più sotto è chiamato figliuolo di Maja

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