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Ne restano si oppressi, che può il loro
Spirto a pena, onde uscire, adito avere;
Così fu il Saracin non meno oppresso
Dal vincitor, tosto ch'in terra messo.

Alla vista dell' elmo gli appresenta
La punta del pugnal ch'avea già tratto;
E che si renda, minacciando, tenta,
E di lasciarlo vivo gli fa patto.
Ma quel, che di morir manco paventa,
Che di mostrar viltade a un minimo atto,
Si torce e scuote, e per por lui di sotto
Mette ogni suo vigor, nè gli fa motto.
Come mastin sotto il feroce alano
Che fissi i denti ne la gola gli abbia,
Molto s'affanna e si dibatte in vano
Con occhi ardenti e con spumose labbia,
E non può uscire al predator di mano,
Che vince di vigor, non già di rabbia:
Così falla al Pagano ogni pensiero
D'uscir di sotto al vincitor Ruggiero.

Pur si torce e dibatte sì, che viene
Ad espedirsi col braccio migliore,
E con la destra man che 'l pugnal tiene,
Che trasse anch'egli in quel contrasto fuore,
Tenta ferir Ruggier sotto le rene:
Ma il giovene s'accorse de l'errore
In che potea cader, per differire
Di far quell' empio Saracin morire.

E due e tre volte ne l'orribil fronte,
Alzando, più ch' alzar si possa, il braccio,
Il ferro del pugnale a Rodomonte
Tutto nascose, e si levò d'impaccio.
Alle squallide ripe d' Acheronte,

Sciolta dal corpo più freddo che giaccio,
Bestemmiando fuggi l'alma sdegnosa,
Che fu si altiera al mondo e si orgogliosa.

BALDASSARE CASTIGLIONE.

Nacque a Casatico, possesso di sua famiglia, nel territorio di Mantova a'6 dicembre 1478, figlio di Cristoforo e di Luigia Gon

zaga. Studio in Milano apprendendo il latino da Giorgio Merula e il greco da Demetrio Calcondila; giovanissimo fu addetto alla corte di Lodovico il Moro. Perdè il padre nel marzo 1499, e nello stesso anno, caduto lo Sforza, ritornò in patria, ove s'acquistò l'amicizia di Francesco Gonzaga, e l'accompagnò nella spedizione di Napoli in favore di Luigi XII. Quando il Gonzaga, vinto al Garigliano (1503), abbandonò le armi di Francia, il Castiglione ebbe licenza di trasferirsi a Roma: dove conobbe Guidobaldo di Montefeltro duca d'Urbino (venutovi con molti dotti e gentili cavalieri a corteggiare il nuovo pontefice Giulio II); e invaghito delle virtù di quel principe, lasciò il marchese di Mantova per seguitarlo. Di che il marchese, che pure e al duca Guidobaldo e al Castiglione stesso aveva accordata la chiesta licenza, ebbe assai dispetto, e non mancò di mostrarlo in varie occasioni. Da Mantova (1504) si recò a Cesena, alla quale per conto del papa poneva assedio Guidobaldo, ed ebbe d'allora in poi il comando di einquanta uomini. Finita la campagna, andò in Urbino (6 settembre 1504) dove Guidobaldo ed Elisabetta Gonzaga sua moglie e la principessa Emilia Pia, tenevano allora splendida corte, e quasi scuola di cortesia, di valore, d'ingegno. Il palazzo del duca era splendido e grandioso, e, come scrisse il Castiglione, tale che non un palazzo, ma una città in forma di palazzo esser pareva: l'arricchivano vasi d'argento.... statue antiche di marmo e di bronzo, pitture singularissime, instrumenti musici d'ogni sorte.... un gran numero di eccellentissimi e rarissimi libri. Laonde a questa corte concorrevano i personaggi più illustri, i più gentili cavalieri, i letterati più insigni. Giuliano de' Medici (ARIOSTO, Sat. IV, 88 e seg.)

Si riparò nella feltresca corte;

Ove col formator del Cortigiano,

Col Bembo, e gli altri sacri al divo Apollo,
Facea l'esilio suo men duro e strano.

Egli potè riuscire squisito scrittore, ed ornarsi di tante e si differenti cognizioni, sebbene continuamente distolto dagli studj per attendere agli esercizi cavallereschi o alle faccende della politica e della guerra. Nel 1506 fu a Londra presso Arrigo VII per ricevere per conto di Guidobaldo l'ordine della giarrettiera. Morto Guidobaldo (1508) rimase col successore Francesco Maria della Rovere che lo mandò al governo di Gubbio. Segui il duca che prese parte alla spedizione di Giulio II contro i Veneziani, e ammalatosi gravemente nella prima campagna (1509), fu curato con grande amore dalla duchessa. Alla fine della guerra ebbe in ricompensa il castello di Novillara nel pesarese e ne fu fatto conte (1513). Morto Giulio II fu ambasciatore al Sacro Collegio e rimase in questo ufficio presso il nuovo papa Leone X per quasi tutto il tempo del suo pontificato; e le lettere che ce ne rimangono fan testimonianza de'molti e gravi affari ch'egli ebbe a trattare. Conobbe allora o

rivide molti letterati e artisti, i primi del suo tempo; e divenne amico di Raffaello, di Michelangiolo e di Giulio Romano, che poi condusse al servizio dei Gonzaga. Leone X nel 1516 aveva tolto alla casa della Rovere il ducato d'Urbino per darlo al proprio nipote Lorenzo de' Medici. Il Castiglione, avendo ormai da qualche tempo il marchese Gonzaga dismesso l'antico rancore, da Urbino sul fine del 1515 si recò a Mantova, dove nel carnevale del 1516 sposò Ippolita dei conti Torelli, che nel 1520 ebbe l'acerbo dolore di perdere, restandogliene tre figli. Alternando la dimora fra Mantova e Roma, e quivi recatosi ad ossequiare Clemente VII, questi, con licenza del marchese di Mantova, nel 1524 lo mandò a Carlo V mentre ferveva in Italia la guerra tra gli Spagnuoli e i Francesi, giudicando che nessuno fosse più atto di lui a quella difficile incombenza. Ma intanto che dall' imperatore egli riceveva grandi carezze, gli Spagnuoli (o fosse per ordine segreto di Carlo V, o per arbitrio del Borbone, suo generale in Italia) espugnarono e saccheggiarono (6 maggio 1527) Roma, e tennero prigioniero il pontefice in Castel Sant'Angelo: di che fu grandissimo il dolore del Castiglione. L'imperatore, per consolarlo, lo dichiarò suddito spagnuolo e volle conferirgli il vescovado d'Avila: il papa, che sulle prime lo aveva creduto colpevole, riconobbe la sua innocenza: egli si giustificò con una lettera apologetica (Burgos, 10 dicembre 1527) e scrisse in difesa del papa contro Alonso de Valdès. Ma era ormai troppo deperito di salute e tutto fu indarno a guarire l'afflizione che lo consumava. Mori in Toledo a' 7 febbraio 1529. Dicesi che Carlo V, a un parente del Castiglione che lo ringraziava delle funebri onoranze tributategli, rispondesse: « Io vi dico che è morto uno dei migliori cavalieri del mondo. » Il suo corpo fu poi trasportato in Italia, e sepolto nella chiesa della Madonna delle Grazie presso Mantova. In vita gli aveva fatto il ritratto Raffaello; gli disegnò la tomba Giulio Romano, e ne scrisse l'epitaffio il Bembo.

I suoi minori scitti sono: Tirsi, ecloga in ottava rima scritta e recitata in corte col cugino Cesare Gonzaga nel carnevale del 1506: sono 55 stanze. In una lettera a Lodovico da Canossa (da noi riportata) egli stesso dà notizia d'una rappresentazione della Calandra del Bibbiena (1510?); per la quale fece il prologo e l'epilogo. Rimangono poesie liriche italiane, non molte e di non gran valore; e in latino (migliori, come di solito) Carmina, poemetti, cioè, elegie ed epigrammi; la maggior parte scritte a Roma durante l'ambasceria a Leon X. Si hanno poi molte lettere in gran parte inedite: è da far menzione particolare della famosa lettera latina a Arrigo VII, nella quale si dicono le lodi del morto duca Guidobaldo. Ma la vera gloria del Castiglione sta nel libro del Cortegiano. L'opera è divisa in quattro libri. Nella lettera a Don Michele de Silva dice che dalla memoria del duca Guidobaldo fu « stimolato a scrivere questi libri del Cortegiano; il che » fece « in pochi giorni. » Nel 1518 lo mandò per sentirne il giudizio al Bembo,

al Sadoleto e ad altri; ma fu pubblicato solo nei 1528 (Venezia, Aldo). Imaginò di riportare alcuni ragionamenti passati nella corte d'Urbino, mentr' egli era, nel 1506, in Inghilterra, tra la duchessa Emilia Pia, Ludovico da Canossa e altri, fino a ventitrè gentiluomini e letterati. Era consuetudine, com' egli dice, di tutt'i gentiluomini della corte d' Urbino, di ridursi subito dopo cena dalla signora duchessa; dove, tra l'altre piacevoli feste e musiche e danze che continuamente si usavano, tal volta si proponevano belle questioni: fra le quali una sera fu proposto che si eleggesse uno della compagnia, ed a questo si dèsse carico di formar con parole un perfetto cortegiano. Questo fu dato primamente al conte Luigi di Canossa, a cui tutti gli altri, secondo le opinioni loro, potevano contradire; e così dai loro discorsi venne a comporsi un codice della vera cortegianía. Questo libro riproduce, come il poema del Boiardo e dell' Ariosto, l'immagine della società di corte, della quale presenta peraltro un quadro un po' ideale: è bensì vero che alcuni cortigiani, e il Castiglione tra questi, si avvicinavano d'assai a siffatto tipo del perfetto cavaliere, la cui virtù e coscienza del resto, ha, più che un morale fondamento, origine e natura nella considerazione estetica. Ma come gli antichi scrittori ad esempio Senofonte e Cicerone, dal quale il Castiglione attinse, egli dà regole e precetti ed esempi, più secondo una vagheggiata perfezione, che non secondo la realtà effettiva che in altri scrittori del tempo apparisce assai diversa. È notevole, in questo libro, il giudizio dato sulla maniera di prosa del Boccaccio e l'opinione che si esprime sulla ormai viva disputa della lingua, opinione molto diversa da quella del Bembo, e contraria alla toscanità, che pure, salvo certe forme ortografiche, non manca nel Cortegiano, sebbene l'autore professi di scriver lombardo. Ma ormai la lingua nostra non era più d'una provincia, sibbene nazionale. La potenza poi dell'osservare dal vero e sul vivo e l'arte dialogica grande aggiungono valore a questa opera, che già per i preg così di lingua come di stile è tra le più notevoli scritture del secolo; e nel cinquecento fu tra i libri più largamente diffusi, anche fuori d'Italia.

(CAMILLO MARTINATI, Notizie storico-biografiche intorno al conte B. Castiglione, ec. Firenze, Successori Le Monnier, 1890.)

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Se ben tengo

La grazia, la sprezzatura, l'affettazione.1 a memoria, parmi, signor Conte, che voi questa sera più volte abbiate replicato, che 'l Cortegiano ha da compagnar l'operazion sue, i gesti, gli abiti, in somma ogni suo movi

1 Cfr. nell' Antologia del MORANDI (pag. 478) lo scritto di F. TORRACA, La Grazia secondo il Castiglione e secondo lo Spencer; e un passo del FIRENZUOLA nei Discorsi delle bellezze delle donac (ediz Le Monnier) vol. I, pag. 274.

mento con la grazia; e questo mi par che mettiate per un condimento d'ogni cosa, senza il quale tutte l'altre proprietà e bone condizioni siano di poco valore. E veramente credo io che ognun facilmente in ciò si lasciarebbe persuadere, perchè, per la forza del vocabulo, si pò dir che chi ha grazia, quello è grato. Ma perchè voi diceste, questo spesse volte esser don della natura e de' cieli, ed ancor quando non è così perfetto, potersi con studio e fatica far molto maggiore; quegli che nascono così avventurosi e tanto ricchi di tal tesoro, come alcuni che ne veggiamo, a me par che in ciò abbiano poco bisogno d'altro maestro; perchè quel benigno favor del cielo quasi al suo dispetto i guida più alto che essi non desiderano, e fagli non solamente grati ma ammirabili a tutto il mondo. Però di questo non ragiono, non essendo in poter nostro per noi medesimi l'acquistarlo. Ma quegli che da natura hanno tanto solamente, che son atti a poter essere aggraziati aggiugnendovi fatica, industria e studio, desidero io di saper con qual arte, con qual disciplina e con qual modo possono acquistar questa grazia, così negli esercizj del corpo, nei quali voi estimate che sia tanto necessaria, come ancor in ogni altra cosa che si faccia o dica. Però, secondo che col laudarci molto questa qualità a tutti avete, credo, generato una ardente sete di conseguirla, per lo carico dalla signora Emilia impostovi siete ancor, con lo insegnarci, obligato ad estinguerla.

Obligato non son io, disse il CONTE, ad insegnarvi a diventar aggraziati, nè altro; ma solamente a dimostrarvi qual abbia ad essere un perfetto Cortegiano. Nè io già pigliarei impresa d'insegnarvi questa perfezione; massimamente avendo poco fa detto ch' el Cortegiano abbia da saper lottare e volteggiare, e tant' altre cose; le quali come io sapessi insegnarvi, non le avendo mai imparate, so che tutti lo conoscete. Basta, che si come un bon soldato sa dire al fabro di che foggia e garbo e bontà hanno ad esser l'arme, nè però gli sa insegnar a farle, nè come le martelli o tempri; così io forse vi saprò dir qual abbia ad essere un perfetto Cortegiano, ma non insegnarvi come abbiate a fare per divenirne. Pur per satisfare ancor quanto è in poter mio alla domanda vostra, benchè e' sia quasi in proverbio, che la grazia non s'impari; dico, che chi ha da esser aggraziato negli esercizj corporali, presuponendo prima che da natura

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