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quando furono all'entrare, s'ammazzavano ad uno ad uno; ma non si vedeano morire. Dietro ad essi se n'entrò Jasón, e subito uscì col vello d'oro alle spalle, ballando eccellentissimamente; e questo era il Moro; e questa fu la prima intromessa. La seconda fu un carro di Venere bellissimo, sopra il quale essa sedea con una facella sulla mano nuda. Il carro era tirato da due colombe, che certo pareano vive: e sopra esse cavalcavano dui Amorini con le loro facelle accese in mano, e gli archi e turcassi alle spalle. Inanti al carro, poi, quattro Amorini, e drieto quattro altri, pur con le facelle accese al medesimo modo: ballando una moresca intorno, e battendo con le facelle accese. Questi, giungendo al fin del palco, infocarono una porta, dalla quale, in un tratto, uscirono nove Galanti tutti affocati, e ballarono un'altra bellissima moresca al possibile. La terza fu un carro di Nettunno tirato da dui mezzi cavalli, con le pinne e squamme da pesci, ma benissimo fatti. In cima i Nettunno col tridente, ec. drieto otto mostri, cioè quattro inanti, e quattro dappoi, tanto ben fatti, ch'io non l'oso a dire: ballando un brando: e il carro tutto pieno di fuoco. Questi mostri erano la più bizzarra cosa del mondo; ma non si può dire, a chi non gli ha visti, come erano. La quarta fu un carro di Giunone, pur tutto pieno di fuoco, ed essa in cima con una corona in testa, e un scettro in mano: sedendo sopra una nube, e da essa tutto il carro circondato, con infinite bocche di venti. Il carro era tirato da due pavoni tanto belli, e tanto naturali, ch'io stesso non sapea, come fosse possibile: e pur gli avevo visti, e fatto fare. Inanti due aquile, e due struzzi: drieto dui uccelli marini, e dui gran pappagalli di quelli tanto macchiati di diversi colori: tutti questi erano ben fatti, Monsignor mio, che certo non credo, che mai più si sia finto cosa così simile al vero; e tutti questi uccelli ballavano ancor loro un brando, con tanta grazia, quanto sia possibile a dire, nè immaginare. Finita poi la Commedia, nacque sul palco, all'improvviso, un Amorino di quelli primi, e nel medesimo abito, il quale dichiarò, con alcune poche stanze, la significazione delle intromesse, che era una cosa continuata, e separata dalla Commedia: e questa era; che prima fu la battaglia di quelli fratelli terrigeni, come or veggiamo, che le guerre sono in essere e tra li propinqui, e quelli che dovriano far pace: e in questo si valse della favola di Jason.

Dipoi venne Amore, il quale del suo santo fuoco accese prima gli uomini e la terra, poi il mare e l'aria, per cacciare la guerra e la discordia, e unire il mondo di concordia. Questo fu più presto speranza e augurio; ma quello delle guerre fu pur troppo vero per nostra disgrazia. Le stanze, che disse l'Amorino, non pensavo già mandarle; pur le mando. V. S. ne faccia ciò che le pare. Furon fatte molto in fretta, e da chi avea da combattere e con pittori, e con maestri di legnami, e recitatori, e musici, e moreschieri. Dette le stanze, e sparito l'Amorino, s'udi una musica nascosa di quattro viole, e poi quattro voci con le viole, che cantarono una stanza con un bello aere di musica, quasi una orazione ad Amore; e così fu finita la festa con grandissima satisfazione e piacere di chi la vide. S'io non avessi tanto laudato il progresso di questa cosa, direi pur quella parte, che io ce n'ho; ma non vorrei che V. S. mi estimasse adulator di me stesso. Saria troppo buono poter attender' a queste cose, e lasciar li fastidi. Dio ce lo conceda.... (Dalle Opere volgari e latine del conte Baldessar Castiglione. Padova, Comino, 1733, pag. 304 e seg.)

FRANCESCO GUICCIARDINI.

Francesco Guicciardini figlio di Piero e di Simona Gianfigliazzi, nacque in Firenze d'antica famiglia, il 6 di marzo 1483 (stile comune); fu tenuto a battesimo dal Ficino. Ebbe a maestro di grammatica ser Giovanni di Francesco della Castellina; studiò poi diritto a Firenze (1498-1500), a Ferrara (1500-1501), a Padova (1501-1505). Pensò di farsi ecclesiastico (1503) per ottenere i benefizj d'un suo zio che mori vescovo di Cortona sperandone grandi onori; ma il padre < al tutto dispose di non volere alcuno figliuolo prete, benchè avessi cinque figliuoli maschi, parendogli che le cose della Chiesa fussino molto transcorse. (Ricordi autobiogr., pag. 68.) » Nel 1505 venne condotto lettore d'Instituzioni nello Studio fiorentino; prese poi subito (15 novembre 1505) la laurea in ragione civile a Pisa. Continuò a leggere nello Studio fino a che non ne avvenne la chiusura, ed esercitò poi come avvocato, giovandogli a procurargli e a mantenergli larga clientela anche le molte aderenze personali. Nel novembre del 1508 sposò Maria quarta figlia d'Alamanno Salviati, contro il desiderio del padre; ma egli voleva ad ogni modo i Salviati per parenti perchè allora.... di parentadi, ricchezze, benivolenza e riputazione avanzavano ogni cittadino privato che fussi in Firenze, e io era vòlto a queste cose assai. (Ibid., pag. 71.) » Continuò ad essere occupato in affari pubblici e privati, e il 17 ot

tobre 1511 venne eletto ambasciatore al re di Spagna: « legazione molto onorevole per le qualità di quello re», e tanto più nella età sua che non era memoria a Firenze fussi mai stato eletto.... uno sì giovane solo. (Ibid., pag. 85.) » Giulio II coll' armi del re di Spagna rimise nel 1512 i Medici in Firenze: e fin d'allora cominciò ad aversi sentore della parzialità del Guicciardini per la famiglia medicea. Ritornando dalla legazione, seppe a Piacenza la morte del padre avvenuta il 20 dicembre 1513; ne lasciò affettuoso ricordo. (Ibid., pag. 89 e seg.) Rientrato in Firenze si adattò colla nuova signoria, ed ebbe ufficj e commissioni: fu degli Otto di Balía (1514), de'Signori (1515) e deputato a incontrare a Cortona Leone X che passava da Firenze. Fu eletto dal papa avvocato concistoriale, indi governatore di Modena (1516), poi di Reggio (1517) che difese (giugno 1521) dalle armi del Lescuns (cfr. Storia d'Italia, 1. XIV), come poi difese Parma dai francesi del Lautrec (1521); fu infine commissario generale dell'esercito pontificio. Adriano VI lo mantenne nel governo che aveva; Clemente VII ebbe nel Guicciardini anche maggiore fiducia, eleggendolo (1523) presidente del governo di Romagna, dove represse il disordine con molta severità. Chiamato a Roma (gennaio 1526) lavorò molto durante le trattative che prepararono la lega di Cognac (1526); fu luogotenente generale delle truppe pontificie; tentò un accordo coll' imperatore, voltesi le cose al peggio per il papa. Prevalsero le armi imperiali, segui il sacco di Roma, e la nuova cacciata de' Medici. Il Guicciardini che aveva lasciato l'ufficio nell'esercito della lega, accusato dai fiorentini e dai pontificj, si ritirò nella sua villa di Finocchieto. Lasciò poi la Toscana (1529); venne dichiarato ribelle, e gli furono confiscati i beni (17 marzo 1530) dal restaurato governo repubblicano. Si recò a Roma presso Clemente VII, che lo pose, dopo la capitolazione di Firenze (10 agosto 1530), a capo del governo di quella città. Le strettezze sue domestiche, sebbene diminuite, non erano cessate per la restituzione che gli fu fatta (18 ottobre 1530) di parte de' beni confiscati; desiderò quindi un ufficio, ed ebbe nel 1531 la legazione di Bologna. Nel 1532 venne a Firenze per qualche mese per riformare il governo; nel 1534, morto Clemente VII, abbandonò la vicelegazione di Bologna e si mise col duca Alessandro, cui accompagnò e osò anche difendere a Napoli davanti a Carlo V (1535), presso il quale era stato accusato dai fuorusciti fiorentini. Fu poi di coloro che dopo l'uccisione di Alessandro favorirono l'innalzamento di Cosimo, cui forse egli, per la giovinezza sua, pensava poter governare a proprio modo, e s'adoperò a introdurre riforme colla costituzione d'un Senato, vagheggiando più un governo d'ottimati che quello assoluto di un principe; ma non ascoltato dall'accorto giovanetto, incontrò molti dolori per le gravi accuse e calunnie che si levarono contro di lui (ibid., pagg. 152, 216), e lasciato in disparte anche dal duca, visse quasi sempre ad Arcetri, dove mori nel maggio del 1540. Delle opere del Guicciardini nessuna fu messa a luce vivente

l'autore; furon più tardi pubblicate la Storia d'Italia, alcuni de' Ricordi politici e civili e la Legazione di Spagna: il resto soltanto a' nostri giorni. Diciamo prima di quelle che si potrebber dire minori in confronto della più notevole e importante, che è la Storia d'Italia. La Storia fiorentina, composta circa il 1509 (vedi c. XXIII) nel qual anno era giunta più che a metà, va, ne' trentatrè capitoli de' quali risulta, dal tumulto de'Ciompi (1378) fino alla battaglia della Ghiara d'Adda (1509). Il racconto, compendioso da prima, diviene in seguito più particolareggiato. Per equanimità de' giudizj ed esattezza storica i Guicciardini rivela fino da questo scritto certe qualità, che meno si mostrano nelle narrazioni del Machiavelli. Seguendo l'ordine che hanno nell' edizione delle Opere inedite, ricordiamo le Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli sopra la prima Deca di Tito Livio, cioè su varj capitoli di quel libro. In esse (sono trentanove) prende in esame le opinioni dell' amico con giudizio pienamente libero dall'autorità del mondo antico e dell' esempio classico e storico, e pur rimanendo meno originale e meno ardito d'idee che il Machiavelli, considera i fatti con maggior discrezione e senso pratico (cfr. Ricordo 257). -- I Ricordi politici e civili, che nell' edizione del CANESTRINI son riordinati e aumentati fin ad oltre quattrocento, furon messi in iscritto tra il 1527 e il 1530: sono massime desunte dall'esperienza, e fanno fede della rara facoltà osservatrice e del senso del reale che aveva il Guicciardini, il quale non si perde in massime astratte e in precetti cattedratici, ma va diritto allo scopo utile e pratico del vivere. In essi si ritrova spesso schietto ed ingenuo il pensiero e il sentimento dell'autore. Tra molti citiamo questi, che ne rivelano alcune delle idee più personali. — « (XXVIII) Io non so a chi dispiaccia più che a me la ambizione, la avarizia e la mollizie de' preti, si perchè ognuno di questi vizj è in sè odioso, sì perchè ciascuno e tutti insieme si convengono poco a chi fa professione di vita dependente da Dio; e ancora perchè sono vizj si contrarj che non possono stare insieme se non ia uno subbietto molto strano. Nondimeno il grado che ho avuto con più pontefici, m'ha necessitato a amare per il particulare mio la grandezza loro; e se non fussi questo rispetto, arei amato Martino Lutero quanto me medesimo, non per liberarmi dalle leggi indotte dalla religione cristiana nel modo che è interpretata e intesa comunemente, ma per vedere ridurre questa caterva di scelerati a' termini debiti, cioè a restare o sanza vizj o sanza autorita. » (Cfr. il Ricordo CCCXLVI.) « (CCXXXVI) Tre cose desidero vedere innanzi alla mia morte; ma dubito, ancora che io vivessi molto, non ne vedere alcuna: uno vivere di republica bene ordinato nella città nostra, Italia liberata da tutti e' barbari, e liberato il mondo dalla tirannide di questi scelerati preti. I Discorsi politici son sedici; si posson considerare in parte come materiali che servirono poi alla compilazione della Storia d'Italia. Lo scritto del reggimento di Firenze

fu composto tra il 1523 e il 1527; son dialoghi che si suppongono avvenuti nel 1494 tra Piero Guicciardini padre dell' autore, P. Antonio Soderini, Piero Capponi e Bernardo Del Nero, nella villa del quale è la scena. Il Guicciardini vi dimostra il vantaggio d'un governo di forma mista, e la preferenza che egli ha per la costituzione della repubblica veneta, ch'ei prepone anche all'antica romana. Citiamo ancora i dieci Discorsi intorno alle mutazioni e riforme del governo fiorentino. Il Carteggio ufficiale è assai copioso, così del tempo della luogotenenza per Clemente VII, come dal 1512 al 1534 (v. G. CARDUCCI, negli Atti della deputaz. Storia patr. dell' Emilia, 1870, e TEZA, Guicciardini alla morte di Clemente VII, da Lettere ined., in Atti Istit. Veneto, 1889, serie VI, vol. VII, 896); nè mancano sue lettere private (v. il tomo X delle Opere inedite), alcune delle quali vennero pubblicate anche recentemente (A. ROSSI, Arch. stor. it., serie V, vol. V, pag. 20 e seg.). I Ricordi di famiglia e autobiografici furono cominciati a scrivere in Firenze il 13 di aprile 1508; non vanno molto oltre (1515), e contengono poi varie scritture e memorie personali anche di fatti posteriori. Scritti vari si chiamano altre minori scritture, come quelle in cui tratta delle Imposte e della Decima scalata. L'opera capitale del Guicciardini è la Storia d'Italia divisa in 20 libri (i primi 16 libri furono pubblicati in Firenze, Torrentino, 1561; e gli ultimi 4 in Venezia, Giolito, 1564); la prima edizione integra è di Firenze (Friburgo), 1775-6. Comincia dove finisce la storia del Machiavelli (1492) e va fino al 1534. Tratta la storia d'Italia tutta quanta, e non di una particolar regione; la successione annalistica del racconto, d'altronde difficile ad evitarsi e a sostituirsi con più razionale ordinamento d'una materia così intricata, riproduce efficacemente lo svolgersi contemporaneo dei fatti. Egli fece una copiosa raccolta e cernita di materiali e di fonti, acquistando al suo racconto maggior fede storica che non il Machiavelli (v. VILLARI, N. Mach., vol. III, pag. 435 e seg.). Osservatore freddo e scevro di passione, non torce lo sguardo dalla realtà presente e con acume ricerca il motivo dei fatti se anche qualche volta glie ne sfugga la concatenazione ideale. Come il Machiavelli, proseguendo la tradizione della scuola storica classica fa uso de' discorsi e delle parlate, nelle quali spesso ritrae pensieri e parole autentiche, se parlano personaggi del suo tempo. Stanca talora la prolissità della narrazione; prolissità che divenne proverbiale e piacevolmente fu ripresa da T. BOCCALINI nei Ragguagli di Parnaso. Lo stile di quest'opera, che fu tradotta in latino e in molte lingue moderne, è spesso involuto e grave per vaghezza di dignità, ma realmente riproduce un modo di concepire, proprio all'autore per natura e per educazione dell'intelletto e dell'animo, largo e comprensivo e pur preciso e minuto, che delle cose vede e ritrae i molteplici aspetti, e rappresenta il carattere dell'autore, che pur nell' artificio del periodo si mantiene austero o un po' rude. Mal fu notomizzato nell' edizione del ROSINI (Pisa,

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