Immagini della pagina
PDF
ePub

modi è impossibilità che si conservi una libertà inveterata, bene fondata e sicura, non che la nostra che è nuova e ancora in aria. E pur è ancora nelle istorie vostre e nelle memorie degl' uomini assai fresca la novità dei Ciompi, che condusse questa città in ultimo pericolo di perdere a uno tratto ogni cosa. Non crediate che la origine d'onde la nacque fussi più disordinata che questa: anzi fu forse più modesta. Ma è la natura delle cose, che i principj cominciano piccoli, ma se l'uomo non avvertisce, moltiplicano presto e scorrono in luogo, che poi nessuno è a tempo a provvedervi. — (Op. ined., vol. X, pag. 368 e seg.)

AGNOLO FIRENZUOLA.

La famiglia Giovannini, principale della terra di Firenzuola, s'era da qualche tempo stabilita in Firenze, dove si chiamava ormai da Firenzuola. Da Bastiano notaio, uomo di lettere e onorato di pubblici ufficj, e da Lucrezia di Alessandro Braccesi nacque in Fienze il 28 settembre 1493 Agnolo (Michelangiolo Girolamo). Non restano molte notizie della sua vita, oltre quelle che volle dare egli stesso più qua e più là ne' suoi scritti. Compiuti i primi studj, a 16 anni andò a Siena, dove attese a studiar leggi; studio che continuò a Perugia, facendo per altro vita allegra e licenziosa. A Perugia conobbe Pietro Aretino che ritrovò poi a Roma, dove si portò è fu occupato nell'ufficio di patrono di cause presso la Curia. Fu ammesso alla corte di Clemente VII, a cui fu presentato dal Bembo. II Papa compiacevasi delle scritture del Firenzuola, come egli stesso ricorda nella lettera di dedica de'libri Delle bellezze delle donne; si fece leggere il Discacciamento delle nuove lettere, i Ragionamenti d'amore; ma da ciò ei non ebbe gran vantaggio. Il Firenzuola si fece monaco vallombrosano; ed è certo che vesti an che l'abito; fu sciolto poi da' voti da Clemente VII con Breve del 1526, senza pregiudizio di benefizj che potesse avere dall' ordine. Tormentato da malattia per molti anni, e anche da dispiaceri, morto Clemente VII (1534) tornò in Toscana fermandosi a Prato, e nel 1539 era abate di Vaiano nel pratese. Molti accenni e ricordi di persone e luoghi pratesi ritrovansi ne' suoi scritti. Morì qualche anno prima del 1548, non si sa bene se a Roma, dove secondo alcuni sarebbe tornato circa il 1544.

Le opere del Firenzuola si pubblicarono quasi tutte qualche anno dopo la sua morte (Firenze, Giunti, 1548): ne procurarono la stampa il fratello Girolamo, Lorenzo Scala e Ludovico Domenichi. In prosa lasciò : il Discacciamento delle nuove lettere, ec. composto per rispondere alla nota lettera del Trissino intorno alle innovazioni ortografiche delle quali si faceva fiera disputa; l'Epistola in lode

delle donne a Claudio Tolomei (Roma, 7 febbraio 1525); i Ragionamenti, che dovevano essere in 6 giornate ma è compiuta solamente la prima dedicata (Roma, 25 maggio 1525) a Caterina Cibo duchessa di Camerino. A imitazione del Decameron e degli Asolani tre giovani e tre donne in un' amena villa di Pozzolatico presso Firenze ragionano fra loro di questioni specialmente amorose, intromettendovi alcune poesie e raccontando una novella ciascuno. Restano altresì quattro novelle che sarebbero entrate nelle seguenti giornate. I due discorsi Delle bellezze delle donne e Della perfetta bellezza d'una donna, dedicati alle belle donne pratesi (Prato, 18 gennaio 1541) son dialoghi che Celso Selvaggio ha con quattro donne un giorno nell'orto della Badia di Grignano, e poi in casa d'una di esse. Il Firenzuola dava gran pregio a quest'operetta, secondo egli dichiara nella lettera di dedica. La prima veste de’discorsi degli animali (pur dedicata alle donne pratesi, Prato, 9 dicembre 1541) è un lungo apologo, a cui si connettono ingegnosi apologhi minori a dimostrare le male arti de' cortigiani. Il racconto derivante dall' antichissimo libro indiano detto il Panciatantra, diffuso largamente in tutto l'oriente e in Europa durante l'età media, fu probabilmente esemplato dal Firenzuola sulla versione latina (Directorium humanæ vitæ) di un testo ebraico fatta da Giovanni da Capua nel secolo XIII, o su una versione spagnuola del testo latino, detta Exemplario contra los engaños et peligros del mundo (v. S. DE SACY, in Notic. et Extr., IX, 440). È la più piacevole tra le scritture dell' autore. L'Asino d'oro tradusse liberamente da Apuleio, sostituendo sè stesso a Lucio come protagonista, mutando nomi e luoghi non senza vizio d'inverosimiglianze e anacronismi: I'XI e ultimo de' libri d'Apuleio è compendiato in poche pagine (1a ediz., Firenze, Giunti, 1549). Ne' luoghi mancanti fu supplito da Ludovico Domenichi (v. lettera dell' editore Lorenzo Scala a Lorenzo Pucci, 25 maggio 1549). Compose inoltre due commedie in prosa: la Trinuzia, così detta dal triplice matrimonio che vi accade: imitazione della Calandria ricorda anche lo strattagemma della Novella del grasso legnaiolo; i Lucidi, imitazione e spesso traduzione de' Menecmi di Plauto (pubblicata da Ludovico Domenichi, Firenze, Giunti, 1549). Ingegno vivace, inclinato al motteggiare, non animò il Firenzuola di pensiero forte e robusto gli scritti suoi, più leggiadri e ameni che importanti per la loro contenenza morale. In prosa fu incomparabilmente migliore che ne' versi che lasciò (sonetti, canzoni, cc., d'argomento amoroso, rime burlesche); ne' quali pochi altri pregi si riconoscono oltre alla consueta copia di lingua schietta e spesso aggraziata di bei modi vernacoli.

(Per la biografia vedasi la prefazione e il cenno biografico di BRUNONE BIANCHI premessi a Le opere di Agnolo Firenzuola ridotte a miglior lezione e corredate di note, vol. 2, Firenze, Le Monnier, 1848, e anche la prefazione di E. CAMERINI all' ediz. dell'Asino d'oro, ec. nella Bibl. class. economica del Sonzogno.).

L'Uccello d'acqua e il gambero, favola.—Stavasi un uccel d'acqua entro a un lago molto grande, posto nella più alta cima del dilettevole monte di Grisciavola, intorno al quale nella sua gioventù a suo senno si era saziato di pesce; ma poichè gli anni gli avevano fatto somma addosso, a gran pena potendosi mettere nell' acqua per pescare, era per morirsi di fame. E standosi così di mala voglia, venne alla volta sua un gambero, e dissegli: Buon dì, fratello; e che vuol dire che tu stai così maninconoso? A cui l'uccello: Colla vecchiezza or può egli essere allegrezza o cosa nuova? colla giovanezza poteva pescare, e vivevami; ora, per essermi colla vecchiaia mancate le forze, mi muoio di fame, perchè più pescare non posso ma dato anco ch'io pur potessi, poco mi gioverebbe; conciossia ch'egli son venuti certi pescatori, i quali dicon che hanno deliberato di non si partir di questo paese sinattanto ch'e' non hanno vôto tutto questo lago; e dopo questo vogliono andare ad un altro, e fare il medesimo. Udendo il gambero così mala novella, subito se n'andò a ritrovare i pesci del lago, e contò loro come passava la cosa: i quali, conoscendo il gran pericolo che e' portavano, subito si misero insieme, e andarono a trovare quello uccello, per chiarirsi meglio del fatto; e, arrivati a lui, gli dissero: Fratello, egli ci è stata racconta per tua parte una mala novella, la quale quando fusse vera, le persone nostre sarebbono in grandissimo pericolo: però desideriamo da te pienamente sapere come il caso passa; acciocchè, avendo da te quello aiuto e consiglio che tu giudicherai a proposito, noi facciam poi quella provvisione che ci parrà necessaria. A' quali l'uccello con umile e pietoso sembiante disse: L'amor grande ch'io vi porto, per essermi sino da fanciullo creato in questo lago, mi sforza aver di voi pietà in tanto pericoloso accidente e perchè l'animo mio non è, in tutto quello che per me si potrà, d'abbandonarvi, vi dico che mio parere sarebbe che vi discostaste dall' affronto di questi pescatori, i quali, come già vi ho detto, non la perdoneranno a veruno. E perchè io, mercè della leggerezza delle mie ali, ho veduto molti bei luoghi, dove sono l'acque chiare e accomodate al vivere vostro; quando voi vogliate, io ve ne insegnerò uno molto al proposito vostro. Parve all' universal di quei pesci il consiglio assai buono; e nessuna altra cosa a ciò fare dava loro noia, salvo il non avere chi gli conducesse al luogo. Perchè il sagace uccello si offerse loro, e molto prontamente pro

2

mise ogni suo potere. Sicchè, ponendosi gli sventurati pesci spontaneamente nelle sue mani, egli ordinò che ogni di gliene montasse addosso certa quantità, quando egli si metteva coccoloni nell'acqua, perchè così pian piano li condurrebbe poi al luogo disegnato: onde, raccoltine ogni di quella quantità che gli pareva a proposito, la portava in cima d'un monte ivi vicino, dove poi se la mangiava a suo bell' agio. E, come questa taccola1 fusse durata molti giorni, el gambero che era un po' cattivello, fusse entrato in qualche sospetto, e' supplicò un dì all' uccello che lo menasse a veder i suoi compagni. L'uccello, senza farsene molto pregare, come quello che aveva caro levarselo dinanzi, perchè e' non li scoprisse la ragia, presolo per il becco, mosse l'ali verso quel monte, dove egli si aveva mangiati gli amici suoi. Perchè, veggendo un pezzo discosto il gambero le spogliate lische degli sventurati compagni, s'accorse dell' inganno, e subito si deliberò salvare a sè la vita, se possibil fosse, e vendicare la morte di tanti innocenti e facendo vista d'aver paura di cadere, disteso l'uno de' bracci, il maggiore, verso il collo, l'aggavignò si forte con quegli denti aguzzi, che e' lo scannò; sicchè tramenduni caddero in terra: ma perchè il gambero rimase di sopra, e' non si fece mal veruno. Il quale, tornatosene poi pian piano da compagni, e conto loro la disgrazia de'morti, el pericolo suo e 'l loro, e la bella vendetta ch'egli aveva fatto dell' atroce inganno, n' ebbe da tutti loro mille benedizioni. — (Dai Discorsi degli Animali.)

Il tesoro, novella, e la serpe e il gambero, favola. — Andando due uomini per un cammino, e trovando un sacco pieno d'oro e d'argento coniato, tutti due d'accordo lo ricolsero, e con esso s'inviarono alla terra loro; e, quando e' furono assai vicini alla porta, disse l'uno, il più dabbene, all'altro: Partiamo d'accordo questo tesoro, acciocchè ognuno possa fare della parte sua quello che ben gli viene. A cui quel che aveva del taccagno rispose: Non mi par dovere, che così a un tratto si stracci l'amicizia nostra, e che essendo nella povertà vivuti sempre insieme, or che noi siamo nell' oro a gola, che a un tratto ci partiamo: più onesto sarà dunque che ognuno se ne pigli quella parte che per ora li fa bisogno; el restante, lasciandolo in comune, lo ascondiamo in

1 Tresca, giuoco.

2 La frode, l'inganno.

qualche secreto luogo, dove, quando ci parrà al proposito, tutti due d'accordo lo vegniamo a cavare di mano in mano. Il buono uomo, anzi lo sciocco, che non pensò che egli avesse parlato con simulata mente e con malvagia intenzione, non si accorgendo dell' inganno, disse che tutto gli piaceva: e così, presone per allora una certa quantità, nascosero il resto sotto ad un arbore che era quivi vicino; e allegri e contenti se ne tornarono alle loro case. Venuto poi l'altro giorno, il fraudolente compagno se ne tornò al luogo dello ascosto tesoro, e, furtivamente cavandolo, tutto se lo portò a casa. Passati alquanti giorni, il buono uomo, o pur come dicemmo, lo sciocco, ritrovato il compagno, gli disse: Già mi par tempo che noi andiamo per l'avanzo del nostro tesoro, perchè io ho compro un podere, e vogliolo pagare, e farne mille altri miei fatti, come accade. Al quale rispose l'altro: E anche a me interviene il medesimo, e pur ora avevo pensato di venirti a trovare: orsù adunque in buon'ora andiamo per esso. E così tutti due insieme, messasi la via tra gambe, se n'andarono all' arbore del tesoro, e cominciarono a cavare in quel luogo, dove l'avevano nascosto; e non ve lo trovando, cominciò il ladro a gridare e scuotersi, che pareva impazzato, dicendo: Certamente che in amico alcuno non si trova più nè fede nè verità; spento è l'amore, neve è diventata la carità; nessuno, nessuno, traditor ribaldo, nessuno l'ha potuto rubare, se non tu. Al semplicello, che aveva più voglia e più bisogno di dolersi di lui, essendo in un tratto caduto da tanta speranza, gli fu conveniente in quello scambio scusarsi, e far mille sacramenti, che egli non ne sapeva cosa alcuna, che non l'aveva nè tocco nè veduto. Allora gridava ben quell'altro: Ah traditore assassino! nessuno sapeva questo segreto, se non tu: niuno l'ha potuto tôr se non tu: ladroncello tristo, al podestà, al podestà, ch'io intendo di fare ogni sforzo che la giustizia abbia suo luogo. E così tuttavia rimbrottandosi l'un più che l'altro, se ne andarono dal podestà. Il quale, dopo una lunga altercazione, e molte cose dette di qua e di là senza conclusione, domandò se alcuno fusse stato presente quando e' lo nascosero. A cui il fellone con un viso baldanzoso e pieno d'alterigia, come se tutte le ragioni fussero state le sue, rispose: Si signore, egli vi era un testimone; l'arbore medesimo, tra le cui barbe era na scosto il tesoro, per divina volontà, acciò la verità si scuopra, vi dirà il tutto: egli, se Dio è giusto, scoprirà la tri

« IndietroContinua »