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senza nostra; per la quale insolita spaventosa paura ognuno s'era sbigottito, ed io più degli altri. Passato che fu quel grande romore e splendore, noi ci cominciammo a rivedere in viso l'un l'altro; e veduto che 'l coperchio della fornace si era scoppiato, e si era sollevato di modo che'l bronzo si versava, subito feci aprire le bocche della mia forma, e nel medesimo tempo feci dare alle due spine. E veduto che il metallo non correva con quella prestezza ch'ei soleva fare, conosciuto che la causa forse era per essersi consumata la lega1 per virtù di quel terribil fuoco, io feci pigliare tutti i mia piatti e scodelle e tondi di stagno, i quali erano in circa a dugento, e a uno a uno io gli mettevo dinanzi ai mia canali, e parte ne feci gittare drento nella fornace; di modo che, veduto ognuno che'l mio bronzo s'era benissimo fatto liquido e che la mia forma si empieva, tutti animosamente e lieti mi aiutavano ed ubbidivano, ed io or qua ed or là comandavo, aiutavo, e dicevo: O Dio, che con le tue immense virtù risuscitasti dai morti, e glorioso te ne salisti al cielo...:2 di modo che in un tratto e' s'empiè la mia forma; per la qual cosa io m'inginocchiai e con tutto il cuore ne ringraziai Iddio: dipoi mi volsi a un piatto d'insalata che era quivi in su 'n banchettaccio, e con grande appetito mangiai e bevvi insieme con tutta quella brigata; dipoi me n'andai nel letto sano e lieto, perchè gli era due ore innanzi giorno, e, come se mai io non avessi auto un male al mondo, così dolcemente mi riposavo. Quella mia buona serva, senza che io le dicessi nulla, mi aveva provvisto d'un grasso capponcello; di modo che quando io mi levai del letto, che era vicino all'ora del desinare, la mi si fece incontro lietamente, dicendo: Oh, è questo uomo quello che si sentiva morire? io credo che quelle pugna e calci che voi davi a noi stanotte passata, quando vi eri cosi infuriato, che con quel diabolico furore che voi mostravi

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1 È quella quantità di metallo inferiore, che si fonde col metallo più nobile perchè lo unisca meglio e lo leghi. Nel capitolo III della Seultura dice: Di poi covri alla bocca della tua fornace, e rinfrescala con una certa quantità di stagno di più della lega ordinaria, la quale vuole essere circa una mezza libbra per cento di più della lega che vi arai messa.

2 Manca la conclusione a questa preghiera, che poteva essere: aiutami nell'opera mia, o altra simile.

3 Che con quei pugni e calci.

Idiotismo per davate, come poco dopo eri per eravate.

5 Sarebbe ridondante se non si riferisse a io credo detto in principio del periodo.

d'avere, quella vostra tanto smisurata febbre, forse spaventata che voi non dessi ancora a lei, si cacciò a fuggire. E così tutta la mia povera famigliuola rimossa da tanto spavento e da tante smisurate fatiche, in un tratto si mandò a ricomperare, in cambio di quei piatti e scodelle di stagno, tante stoviglie di terra, e tutti lietamente desinammo, che mai non mi ricordo in tempo di mia vita nè desinare con maggior letizia nè con miglior appetito. Dopo 'l desinare mi vennono a trovare tutti quegli che mi avevano aiutato, i quali lietamente si rallegravano, ringraziando Iddio di tutto quel che era occorso, e dicevano che avevano imparato e veduto fare cose, le quali eran dagli altri maestri tenute impossibili. Ancora io alquanto baldanzoso, parendomi d'essere un poco saccente, me ne gloriavo; e messomi1 mano alla mia borsa, tutti pagai e contentai.

BENEDETTO VARCHI.

Nacque in Firenze il 19 marzo 1503 (stile comune): la famiglia era oriunda di Montevarchi: suo padre fu Ser Giovanni procuratore dell'arcivescovado. Giovinetto appena fu messo al fondaco, poi presso un orafo, poi all'arte della lana; ma per l'amore che dimostrava allo studio, fu tolto da bottega e dato a istruire a maestro Guasparri Mariscotti da Marradi, il quale, come egli scrisse poi nell'Ercolano (quesito VIII), avendo saputo ch'egli ed un amico leggevano « il Petrarca di nascoso, ce ne diede una buona grida, e poco mancò non ci cacciasse di scuola, non parendogli bene che i discepoli « leggessero cose volgare, per dirlo barbaramente come i maestri di quel tempo. Di 18 anni fu a studio delle leggi in Pisa, poi si matricolò ed esercitò come procuratore e notaio in Firenze; ma contro suo genio. Ritornò a' suoi studj prediletti e imparò greco sotto Pier Vettori. Non rimase peraltro sempre fermo in Firenze, ma vi stette ai tempi dell'assedio, e cogli Strozzi, la cui parte seguiva, andò poi a Bologna, a Venezia, e per ultimo con altri amici fermò dimora in Padova. Quivi frequentò le lezioni dello studio, e fu de' primi dell'Accademia degli Infiammati. Tornò poi di nuovo a Bologna, e vi studiò specialmente sotto il Boccadiferro. Nel 1536 con altri fuorusciti seguì in Toscana Piero Strozzi nell'impresa che finì con la sconfitta di Sestino. Fu richiamato a Firenze (1543) da Cosimo I, che lo forni di notevole provvisione; fu aggregato all'Accademia fiorentina, della quale fu il

1 Il mi è posto per vezzo di lingua. (B.)

nono console (1545); ed ebbe l'incarico dal duca di scrivere la storia fiorentina di quegli ultimi anni. Ma ebbe anche a soffrire e l'aggressione a mano armata d' uno sconosciuto e la sospensione del salario per la guerra di Siena: si ritirò allora (1556) alla sua pieve di S. Gavino Adimari in Mugello che aveva avuta nel 1555 (v. G. BACCINI, B. V. in Mugello). Invitato da Paolo III e dall'arcivescovo di Salerno al loro servigio, rifiutò: ebbe dal duca in dono (1558) la villa della Topaia nel fiorentino, dove dimorò gli ultimi anni, nella consuetudine di buoni amici, che andava poi a vedere egli stesso a Firenze, a Pisa: tra questi son da ricordare il Caro e il Tansillo. Avendo ottenuto la propositura di Montevarchi, di circa 62 anni fu prete e disse messa: ma non aveva ancor preso possesso del nuovo ufficio quando fu colto da improvvisa morte il 18 dicembre 1565. Il trasporto fu fatto a spese del duca, le esequie solenni si celebrarono per cura di Bastiano Antinori: ne disse l'orazion funebre Lionardo Salviati; molti versi latini e italiani si composero in suo onore. Fu sepolto nella chiesa di Santa Maria degli Angeli.

La scrittura sua più importante è la Storia fiorentina, che doveva comprendere il racconto delle cose « le quali, da che la famiglia de' Medici ultimamente (1527) partì da Firenze, a che ella vi ritornò (1530) intervennero; ma poi la condusse fino al 1538. È in 16 libri. Al Varchi non mancarono mezzi e fonti di ricerca, nè gli mancò il coraggio di parlar liberamente in un libro che pur gli era stato commesso dal duca, dacchè vi giudica severamente Clemente VII e bolla del marchio di traditore il Baglioni. Scrisse secondo l'uso e la tradizione classica, ma lo studio e il gusto dell'eleganza non lo salvarono dall'esser prolisso e spesso intralciato e ricercato. La 1a edizione della Storia fu fatta solo nel 1721 a Colonia (Firenze) per cura di Francesco Settimanni. L' Ercolano, scritto nel 1560, è un lungo dialogo tra Cesare Ercolano e Benedetto Varchi, riferito a Vincenzio Borghini da Lelio Bonsi, in casa del Bonsi stesso; tratta del vero nome, ch'ei vuol fiorentino, della nostra lingua e de' suoi pregi particolari (1a edizione, Firenze, Giunti, 1570). In esso difendesi il Caro nella lite ben nota col Castelvetro. Le grandi lodi che vi si facevano di Dante dettero luogo alla controversia sulla Divina Commedia considerata come poema regolare: contro l'Ercolano, scrisse il Muzio la Varchina (Venezia, 1582). Quella grammatica della lingua provenzale del Varchi che si trova in un codice Laur. Ashburnamiano non contiene che la traduzione che fece per suo uso delle regole del Donato e della Rasos (v. L. BIADENE, Appendice all'articolo Las Rasos e lo Donatz, in Studi di filologia romanza, I, p. 400 e seg.). Delle Lezioni molte sono su Dante e sul Petrarca: le lesse nell'Accademia nel 1543 e 1545. Furon pubblicate con altre prose in Firenze nel 1841-1842. La Suocera, commedia condotta in parte a imitazione dell'Hecyra di Terenzio, fu composta dopo il 1557, e

dal Sermartelli nel 1569. Compose anche varie rime: sonetti (Firenze, Torrentino, 1555-1557), tra' quali son notevoli quelli pastorali; egloghe, canti carnascialeschi, capitoli berneschi. Rimangono anche alcuni suoi versi barbari e latini. Numerosi sono anche gli altri scritti minori, molti de' quali andarono perduti ricordiamo le orazioni, tra le quali una per la morte di Michelangelo Buonarroti; le traduzioni da Aristotele, da Boezio, da Seneca, e da altri; le lettere ec. Fu accusato di gravi fatti nella vita privata, e da molti biasimato anche per cert, giudizj letterari. Quello assai strano circa il Giron Cortese, ch' ei voleva superiore al Furioso, gli sarà perdonato per l'altro che dette favorevole e sincero sulla Vita del Cellini.

[Per la biografia vedansi le vite del Razzi e d’ANONIMO (cioè di G. B. Busini) premesse da GAETANO MILANESI alla Storia fiorentina di B. Varchi, Firenze, Le Monnier, 1857, e la prefazione di G. BOTTARI all'Ercolano, Firenze, Tartini e Franchi, 1730.]

L'abito

Modo di vestire dei Fiorentini nel secolo XVI. de Fiorentini, passato il diciottesimo anno, è, la state, quando vanno per la città, una vesta o di saia o di rascia nera, lunga quasi infino a' talloni, e a' dottori ed altre persone più gravi, senza quasi: soppannata di taffettà, ed alcuna volta d'ermisino o di tabi, quasi sempre di color nero, sparata dinanzi e dai lati, dove si cavano fuori le braccia, ed increspata da capo, dove s'affibbia alla forcella della gola con uno o due gangheri di dentro, e talvolta con nastri o passamani di fuora; la quale vesta si chiama lucco; portatura comoda e leggiadra molto: il qual lucco i più nobili e più ricchi portano ancora il verno, ma o foderato di pelli, o soppannato di velluto, e talora di dommasco; e di sotto, chi porta un saio, e chi una gabbanella o altra vesticciuola di panno soppannata, che si chiamano casacche; dove la state si porta sopra il farsetto, ovvero giubbone solamente, e qualche volta sopra un saio, o altra vesticciuola scempia di seta, con una berretta in capo di panno nero, scempia, o di rascia leggerissimamente soppannata, con una piega dietro che si lascia cadere giù in guisa che cuopre la collottola, e si chiama una berretta alla civile; e dove già chi portava i capelli e non si radeva la barba era tenuto sgherro e persona di mal affare, oggi di cento, novantacinque sono Zucconi e portano la barba; cosa nel vero più virile; di maniera che coloro che fanno altrimenti, sono tenuti uomini

1 Coi capelli rasi, che le teste paion zucche.

all' antica, e chiamati per beffarli, dalle zazzere che e' portano, zazzeroni. E non è dubbio che il vestire così degli uomini come delle donne dal dodici in qua s'è forte riplito e fatto leggiadro, non si portando più, come allora si faceva, nè saioni co' pèttini e colle maniche larghe, i quali davano più giù che a mezza gamba, nè berrette che erano per tre delle presenti, colle pieghe rimboccate all' in su, nè scarpette goffamente fatte co' calcagnini di dietro. Il mantello è una veste lunga per li più insino al collo del piede, di colore ordinariamente nero, ancorachè i ricchi e nobili lo portino, e massimamente i medici, di rosato o di pagonazzo, e aperta solamente dinanzi, e increspata da capo, e s'affibbia con gangheri come i lucchi, nè si porta da chi ha il modo a farsi il lucco, se non di verno, sopra un saiɔ di velluto o di panno, o foderato o soppannato per amcr del freddo. Il cappuccio ha tre parti: il mazzocchio, il quale è un cerchio di borra coperto di panno, che gira e fascia intorno intorno la testa, e di sopra, soppannato dentro di rovescio, cuopre tutto il capo; la foggia, è quella che, pendendo in sulla spalla, difende tutta la guancia sinistra; e ii becchetto, è una striscia doppia del medesimo panno, che va infino in terra e si ripiega in sulla spalla destra, e bene spesso s'avvolge al collo, e, da coloro che vogliono essere più destri e più spediti, intorno alla testa. Ha questa portatura (comechè molti, non so io vedere perchè, e spezialmente in una republica, la reputino goffa, e se ne ridano molto del grave, ed è in Firenze utilissima rispetto a' gran venti, ed alla molta sottilità dell'aria, e perciò dicono che fu dagli antichi arrecata di Fiandra, dove s'usa questa portatura di capo; e per questa medesima cagione furono gli sportici delle case studiosamente ritrovati. Può chiunche vuole portare qual s'è l'uno di questi due abiti, o statuale ch' egli si sia o no; non può già nessuno andare in consiglio senza l'uno o l'altro di loro. La notte, nella quale si costuma in Firenze andar fuori assai, s'usano in capo tocchi, e in dosso cappe chiamate alla spagnuola, cioè colla capperuccia di dietro, la quale chi porta il giorno, solo che sol dato non sia, è riputato sbricco e uomo di cattiva vita. In 1 Tre volte più grandi delle presenti.

2 Per causa del freddo.

2 Statuale dicevasi chi avesse i diritti civili, e potesse perciò avez parte al governo della città.

Sgherro, bravo.

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