Immagini della pagina
PDF
ePub

GIORGIO VASARI.

Compendiamo brevemente le notizie autobiografiche che egli lasciò nella Descrizione delle opere di Giorgio Vasari, nella quale dice di sè fino all'anno 1566. Nacque in Arezzo il 30 luglio 1511; dal padre suo Antonio fu messo presto a studiare il disegno e avutine i primi principj in patria, fu poi (1524) a Firenze sotto Michelangiolo, Andrea del Sarto ed altri. Cacciati i Medici (1527) tornò ad Arezzo e cominciò a fare opere di pittura; fu poi a Roma presso il cardinale Ippolito de' Medici, indi a Firenze con Ottaviano de' Medici, e per compiacere il duca Alessandro si mise anche a fare opere d'architettura e apparati per l'entrata di Carlo V (1536). Dopo l'uccisione (1537) del duca Alessandro tornò ad Arezzo, e per suoi studj e lavori fu a Camaldoli, a Roma e in molti altri Inoghi. Condusse in moglie una figliuola di Francesco Bacei, nobile aretino. Creato papa Giulio III andò di nuovo a Roma; finchè colla famiglia si fermò in Firenze (1555) al servizio del Duca Cosimo, e in questo tempo ebbe pubblici ufficj in patria. A Roma lavorò per Pio Ve Gregorio XIII; ricusò l'invito fattogli dal re Filippo di Spagna di recarsi al suo servizio. Nel 1573 era di nuovo a Firenze, dove morì il 27 giugno dell' anno seguente. Il corpo fu trasportato ad Arezzo.

Non è qui il luogo di giudicarlo per le sue opere d'arte, più notevoli per numero che per intrinseco valore: migliori quelle d'architettura. Accenniamo solo ai suoi scritti. Dell'anno 1546, racconta egli stesso nella citata Descrizione.

<< In questo tempo andando io spesso la sera, finita la giornata, a veder cenare il detto illustrissimo cardinal Farnese, dove erano sempre a trattenerlo con bellissimi ed onorati ragionamenti il Molza, Annibal Caro, messer Gandolfo, messer Claudio Tolomei, messer Romolo Amaseo, monsi gnor Giovio, ed altri molti letterati e galant' uomini, de' quali è sempre piena la corte di quel signore, si venne a ragionare, una sera fra l'altre, del museo del Giovio, e de' ritratti degli uomini illustri che in quello ha posti con ordine ed iscrizioni bellissime; e passando d'una cosa in altra, come si fa ragionando, disse monsignor Giovio, avere avuto sempre gran voglia, ed averla ancora, d' aggiugnere al museo ed al suo libro degli elogi un trattato, nel quale si ragionasse degli uomini illustri nell'arte del disegno, stati da Cimabue infino a' tempi nostri. Dintorno a che allargandosi, mostrò certo aver gran cognizione e giudizio nelle cose delle nostre arti. Ma è ben vero che, bastandogli fare gran fascio, non la guardava così in sottile; e spesso favellando di detti artefici, o scambiava i nomi, i cognomi, le patrie, l'opere, o non dicea le cose come stavano appunto, ma cosi alla grossa. Finito che ebbe il Giovio quel suo discorso, voltatosi a me, disse il cardinale: Che ne dite voi, Giorgio? non sarà questa una bell'opera e fatica? Bella, rispos' io, monsignor illustrissimo, se il Giovio sarà aiutato da chicchessia dell'arte a mettere le cose a' luoghi loro, ed a dirle come stanno veramente. Parlo così, perciocchè, se bene è stato questo suo discorso maraviglioso, ha scambiato e detto molte cose una per un' altra. Potrete dunque, soggiunse il cardinale pregato dal Giovio, dal Caro, dal Tolomei

e dagli altri, dargli un sunto voi, ed una ordinata notizia di tutti i detti artefici, e dell'opere loro secondo l'ordine de' tempi; e così aranno anco da voi questo benefizio le vostre arti. La qual cosa, ancorchè io conoscessi essere sopra le mie forze, promisi, secondo il poter mio, di far ben volentieri. E così messomi giù a ricercare i miei ricordi e scritti, fatti intorno a ciò fin da giovanetto per un certo mio passatempo, e per una affezione che io aveva alla memoria de' nostri artefici, ogni notizia de' quali mi era carissima, misi insieme tutto quel che intorno a ciò mi parve a proposito, e lo portai al Giovio; il quale, poi che molto ebbe lodata quella fatica, mi disse: Giorgio mio, voglio che prendiate voi questa fatica di distendere il tutto in quel modo che ottimamente veggio saprete fare; perciocchè a me non dà il cuore, non conoscendo le maniere, nè sapendo molti par ticolari che potrete sapere voi: senza che, quando pure io 'l facessi, farei il più più un trattatello simile a quello di Plinio. Fate quel ch'io vi dico, Vasari, perchè veggio che è per riuscirvi bellissimo; chè saggio dato me ne avete in questa narrazione. Ma parendogli che io a ciò fare non fussi molto risoluto, me lo fe dire al Caro, al Molza, al Tolomei ed altri miei amicissimi perchè, risolutomi, finalmente vi misi mano con intenzione, finita che fusse, di darla a uno di loro, che, rivedutala ed acconcia, la mandasse fuori sotto altro nome che il mio. »

Questa è l'origine della maggiore scrittura vasariana: Le vite de' più eccellenti pittori, scultori ed architettori. Vanno da Cimabue (1240-1302 circa) al Vasari. Nel 1547, com'egli racconta, eran già condotte molto innanzi : le fece trascrivere e correggere coll'aiuto di Gian Matteo Faetani da Rimini, monaco di Monte Oliveto. La prima edizione è di Firenze, Torrentino, 1550; la seconda di Firenze, Giunti, 1568, con lettera di G. B. Adriani al Vasari (8 settembre, 1567). Oltre le lettere dedicatorie e i proemi contiene una notevole Introduzione alle tre arti del disegno. È singolar vanto di lui l'aver ideato e condotto a termine un'opera di sì gran mole e di tanto valore: chè se ora vien rettificata e compiuta per nuove ricerche erudite, e se si mostra alquanto parziale per la Toscana, la quale del resto fu culla all'arte rinnovata e diede a questa i maggiori cultori, è tuttavia scrittura d'incontestabile pregio, e per la quale gli dobbiamo somma gratitudine. Il Caro, al Vasari che gli aveva mandato a vedere una parte delle Vite, scriveva (Roma, 11 dicembre, 1547): « M'avete dato la vita a farmi vedere parte del Commentario che avete scritto degli artefici del disegno; che certo l'ho letto con grandissimo piacere, e mi par degno di esser letto da ognuno, per la memoria che vi si fa di molti uomini eccellenti e per la cognizione che se ne cava di molte cose e de'varj tempi, per quel ch' io ho veduto fin qui, e per quello che voi promettete nella sua tavola. Parmi ancora bene scritto e puramente e con belle avvertenze: solo io desidero che se ne levino certi trasportamenti di parole, e certi verbi posti nel fine, talvolta per eleganza, che in questa lingua a me generano fastidio. In un' opera simile, vorrei scrittura appunto come il parlare; cioè che avesse piuttosto del proprio che del metaforico o del pellegrino, e del corrente più che dell' affettato. E questo è così veramente, se non

in certi pochissimi lochi, i quali rileggendo avvertirete ed ammendarete facilmente. Del resto mi rallegro con voi, che certo avete fatta una bella ed utile fatica.... Lo stile del Vasari, è vivo e perspicuo, e bene spesso come il parlare: ma è il parlare di persona culta, se anche qua e là il periodare rappresenti troppo il comune discorso. Scrisse inoltre nel 1557, aggiungendovi l'ultimo dialogo nel 1563, i Ragionamenti sopra le invenzioni da lui dipinte in Firenze nel palazzo de' Medici..... insieme con la invenzione della pittura da lui cominciata nella cupola (Filippo Giunti, 1568): furono ripubblicati nel 1619 col titolo di Trattato della Pittura. Rimangono inoltre: Descrizione dell' apparato fatto in Firenze per le nozze dell' illustrissimo Francesco de' Medici, e molte Lettere.

[Tutti questi scritti si trovano raccolti e illustrati nella bella pubblicazione curata da GAETANO MILANESI, Le opere di Giorgio Vasari, Tomi IX, Firenze, Sansoni, 1878-1885.]

Filippo Brunelleschi e la Cupola del Duomo di Firenze. Filippo e Donato risolverono insieme partirsi di Fiorenza, ed a Roma star qualche anno, per attender Filippo all' architettura e Donato alla scultura. Il che fece Filippo per voler esser superiore ed a Lorenzo ed a Donato,1 tanto quanto fanno l'architettura più necessaria all' utilità degli uomini, che la scultura e la pittura. E, venduto un poderetto ch' egli aveva a Settignano, di Fiorenza partiti, a Roma si condussero: nella quale, vedendo la grandezza degli edifizj, e la perfezione dei corpi de' tempj, stava astratto, che pareva fuor di sè. E così, dato ordine a misurar le cornici e levar le piante di quegli edifizj, egli e Donato continuamente seguitando, non perdonarono nė a tempo nè a spesa, nè lasciarono luogo che eglino ed in Roma e fuori in campagna non vedessino, e non misurassino tutto quello che potevano avere che fusse buono. E perchè era Filippo sciolto dalle cure familiari, datosi in preda agli studj non si curava di suo mangiare e dormire: solo l'intento suo era l'architettura, che già era spenta; dico gli ordini antichi buoni, e non la tedesca e barbara, la quale molto si usava nel suo tempo. Ed aveva in sè due concetti grandissimi : l'uno era il tornare a luce la buona architettura, credendo egli, ritrovandola, non lasciare manco memoria di sè, che fatto si aveva Cimabue e Giotto;

Lorenzo è il Ghiberti: Donato è lo scultore più generalmente noto Aol nome di Donatello. Il fanno che segue, o è svista per fa (è), ovvero pale stimano (gli uomini sotto ricordati.)

l'altro di trovar modo, se e' si potesse, a voltare la cupola di Santa Maria del Fiore di Fiorenza: le difficultà della quale avevano fatto si, che dopo la morte di Arnolfo Lapi non ci era stato mai nessuno a cui fusse bastato l'animo, senza grandissima spesa d'armadure di legname, poterla volgere. Non conferi però mai questa sua intenzione a Donato nè ad anima viva: nè restò che in Roma tutte le difficultà che sono nella Ritonda egli non considerasse, siccome si poteva voltare. Tutte le vôlte nell'antico aveva notato e disegnato, e sopra ciò del continuo studiava; e se per avventura eglino avessino trovato sotterrati pezzi di capitelli, colonne, cornici e basamenti di edifizj, eglino mettevano opere e gli facevano cavare, per toccare il fondo. Per il che si era sparsa una voce per Roma, quando eglino passavano per le strade, chè andavano vestiti a caso, gli chiamavano quelli del tesoro; credendo i popoli, che fussino persone che attendessino alla geomanzia per ritrovare tesori e di ciò fu cagione l'avere eglino trovato un giorno una brocca antica di terra, piena di medaglie. Vennero manco a Filippo i denari, e si andava riparando con il legare gioie a orefici suoi amici, ch'erano di prezzo: e cosi si rimase solo in Roma, perchè Donato a Fiorenza se ne tornò; ed egli, con maggiore studio e fatica che prima dietro alle rovine di quelle fabbriche di continuo si esercitava. Nè restò che non fusse designata da lui ogni sorte di fabbrica, tempj tondi e quadri, a otto facce, basiliche, acquidotti, bagni, archi, colisei, anfiteatri, ed ogni temp. di mattoni: da' quali cavò le cignature ed incatenature, ? così il girarli nelle vôlte; tolse tutte le collegazioni e di pietre e d'impernature e di morse; ed, investigando a tutte le pietre grosse una buca nel mezzo per ciascuna in scttosquadra, trovò esser quel ferro, che è da noi chiamato la ulivella, con che si tira su le pietre; ed egli lo rinnov e messelo in uso dipoi. Fu, adunque, da lui messo da parte ordine per ordine, dorico, jonico e corintio: e fu tale que sto studio, che rimase il suo ingegno capacissimo di poter vedere nella immaginazione Roma, come ella stava quando non era rovinata. Fece l'aria di quella città un poco novità, l'anno 1407, a Filippo; onde egli, consigliato da' suoi amici a mutar aria, se ne tornò a Fiorenza: nella quale per l'assenza sua si era patito in molte muraglie, per le quali diede egli alla sua venuta molti disegni e molti consig.

[ocr errors]

Fu fatto, il medesimo anno, una ragunata di architettori e d'ingegneri del paese sopra il modo del voltar la cupola, dagli operaj di Santa Maria del Fiore e da'Consoli dell'Arte della Lana. Intra i quali intervenne Filippo, e dette consiglio, ch'era necessario cavare l'edifizio fuori del tetto, e non fare secondo il disegno di Arnolfo, ma fare un fregio di braccia quindici di altezza, e in mezzo a ogni faccia fare un occhio grande; perchè, oltra che leverebbe il peso fuor delle spalle delle tribune, verrebbe la cupola a voltarsi più facilmente: e cosi se ne fece modelli e si messe in esecuzione...

Stette poi molti mesi in Fiorenza, dove egli faceva segretamente modelli ed ingegni, tutti per l'opera della cupola, stando tuttavia con gli artefici in su le baie; chè allora fece egli quella burla del Grasso e di Matteo, e andando bene spesso per suo diporto ad aiutare Lorenzo Ghiberti a rinettar qualche cosa in sulle porte. Ma, tóccogli una mattina la fantasia, sentendo che si ragionava del far provvisione d'ingegneri che voltassero la cupola, si ritornò a Roma, pensando con più riputazione avere a esser ricerco di fuora, che non avrebbe fatto stando in Fiorenza. Laonde, trovandosi in Roma, e venuto in considerazione l'opera e l'ingegno suo acutissimo, per aver mostro ne' ragionamenti suoi quella sicurtà e quell' animo che non avevano trovato negli altri maestri, i quali stavano smarriti insieme coi muratori, perdute le forze, e non pensando poter mai trovar modo da voltarla, nè legni da fare una travata che fusse si forte, che reggesse l'armadura e il peso di si grande edifizio; deliberati vederne il fine, scrissono a Filippo a Roma, con pregarlo che venisse a Fiorenza: ed egli, che non aveva altra voglia, molto cortesemente tornò. E ragunatosi, alla sua venuta, l'uficio degli operaj di Santa Maria del Fiore ed i Consoli dell' Arte della Lana, dissono a Filippo tutte le difficultà dalla maggiore alla minore che facevano i maestri, i quali erano in sua presenza nell' udienza insieme con loro. Per il che Filippo disse queste parole: « Signori operaj, e non è dubbio che le cose grandi hanno sempre nel condursi difficultà; e, se niuna n'ebbe mai, questa vostra l'ha maggiore che voi per avventura non avvisate; perciocchè io non so che nè anco gli antichi voltassero mai una volta si terribile come sarà questa: ed io, che ho molte volte pensato all' armadure di dentro e di fuori, e come si sia

« IndietroContinua »