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sue opere il Giolito stampò a Venezia, nel 1550 la Dote, la Moglie, i Dissimili, gli Incantesimi, la Stiava, l'Assiuolo, in prosa (ristampate dal Sonzogno nella Biblioteca classica economica, con prefazione di O. Guerrini. Milano, 1883): il Giunti anche a Venezia nel 1585 la Dote, la Moglie, il Corredo, la Stiava, il Donzello, gli Incantesimi, lo Spirito, in versi, e nel 1561 aveva già edito il Servigiale. Alcune di esse furono riprodotte nel Teatro comico fiorentino (Venezia, 1750) e tutte, ma pessimamente, a Milano dal Silvestri nel 1850 in due volumi. Il Sermartelli nel 1589 e nel 1592 stampò l' Esaltazione della Croce, riprodotta recentemente fra le Sacre Rappresentazioni (Firenze, Le Monnier, 1872, vol. III). A'dì nostri furono messe fuori molte delle cose inedite del Cecchi, cominciando dalle Maschere e dal Samaritano, che pubblicò il Fiacchi a Firenze nel 1818 presso il Pagani, e che trovansi anche nella citata collezione del Silvestri. Nel 1853 il Corazzini nella sua Miscel lanea di cose inedite o rare (Firenze, Baracchi), inserì i Malandrini, che su altro codice e insieme con le due edite dal Fiacchi, riprodusse i Dello Russo nel 1864 (Napoli, Ferrante). Il Tortoli nel 1855 mise in luce presso gli editori Barbèra, Bianchi e Compi, quattro Commedie inedite, cioè le Pellegrine, l'Ammalato, il Medico ovvero il Diamante e la Majana: e nel 1856 Gaetano Milanesi presso il Le Monnier, due volumi, contenenti il Figliuol prodigo, il Diamante, i Rivali, gli Sciamiti, le Pellegrine, la Morte del Re Acab, il Martello, l'Ammalata, le Cedole, la Majana, lo Sviato, la Conversione della Scozia. Altre ancora ne pubblicò il Dello Russo (Napoli, Ferrante, 1864), cioè l'Acqua - Vino, il Cleofas e Luca, il Duello della Vita attiva e della contemplativa, e il Duello del disprezzo dell'amore e bella terrena. Notiamo ancora: La Romanesca, farsa, pubblicata da D. Buonamici, Firenze, Cenniniana, 1874, e di nuovo, Livorno, Vannini, 1880; la Dolcina, opera spirituale, pubblicata da A. Lombardi, Siena, Bargellini, 1878, e di nuovo da C. Arlía nel Propugnatore, vol. XVI (a. 1883); il Riscatto, farsa spirituale, e gli Sbarbati, commedia, pubblicate in due volumetti da C. Arlía, a Firenze, Franchi e Cecchi, 1880. Altre, di argomento sacro, pubblicherà il dottor Raffaello Rocchi, al quale dobbiamo alcune delle notizie biografiche sopra riferite.

Per varietà di produzione e copia di soggetti e caratteri, ma soprattutto per festività di stile e ricchezza di schietto e vivo linguaggio popolare, il Cecchi ha un posto notevolissimo fra i comici fiorentini del secolo XVI. Vedi su di lu un bello studio di E. CAMERINI promesso l' Assiuolo nell'edizione Milano, Daelli, 1863, e riprodotto ue Profili letterari, Barbėra, 1870, pag 363.

Dal Figliuol prodigo. - [Panfilo che menava vita scioperata, ripreso dal padre suo Andronico, gli chiese la sua parte e se n'andò. Ritorna poi, quando meno l'aspettavano, pentito: è insultato da' servi suoi stessi, che non l'avevano riconosciuto, e per poco legato come ladro. E poi riconosciuto dall'amico suo Polibio, figlio dell' avaro Argifilo (al quale da Frappa parassito sono scroccati denari per conto di Polibio), e ricevuto beniguamente dal padre e poi anche dal fratello Vascanio.]

1

La padrona e la serva. — Clemenza. Tant'è, fate quel che io v'ho detto. Orsù, Betta, che tu la spedisca mai più! Benedetta sia quella volta, che quando io voglio andare alla messa, io non t'abbia a aspettar due ore. Betta. Ecco ch'io vengo. Io non trovavo il torsello degli spilletti, per appuntarmi lo sciugatoio in capo. Clemenza. Si, si, delle tua!... trova ben delle scuse; di'pur che tu se'una scimunita e una smemorata, che ti stai sempre a donzellare; 3 e intorno a codesto tuo capo, ci vuole ogni volta quattro ore di acconciatura. Ma se tu non ti desti, Betta, Betta, noi saremo poco d'accordo insieme. Betta. Uhimè! che domine ho io mai a fare? Clemenza. Voglio che tu non ti faccia aspettare tutto il dì. Betta. In buon'ora: io fo più presto ch'io posso: ma s' io non trovo le cose da acconciarmi così presto, volete voi però ch'io v'accompagni come una cialtrona? Clemenza. Tu le dovresti mettere in luogo che quando tu l'hai a adoperare, tu le trovassi e poi, a dir il vero, e' non mi piace che tu stia tanto a raffazzonarti: a me basta che tu abbia il viso lavato e non lisciato. Betta. Uh! sciaurata me! che domin dite voi di liscio? io non ne veddi mai, non ch'io n' adoperassi. Clemenza. Non più. Fa' che questa sia l'ultima: chè io ho tant' altri dispiaceri da dua anni in qua che il mio Panfilo se n'è andato, che ogni cosa, per piccola che la sia, mi arreca noia e fastidio grandissimo. Betta. E io ve lo credo pur d'avanzo, che ogni volta ch' io me ne ricordo, non posso tener le lacrime. Affè! egli era pur un bel figliuolaccio allevatóne, che era una bellezza proprio a vederlo; e ora, Dio sa dove si trova! Clemenza. Basta: Dio perdoni a chi ne è causa. Betta. Oh chi n'è causa, altro che la troppa amorevolezza di messer Andronico suo padre? il quale non doveva mai dargli tanti danari; perchè, alla fine, i giovani

1 Guancialetto dove le donne tengono infilzati o appuntati gli spilli,

2 Cioè delle cose che suoli fare; dei tuoi soliti mancamenti.

8 Baloccarsi, dondolarsi, perder il tempo, come i vagheggini
Donna sciatta, sudicia, male in ordine nel vestire.

Di bella persona, venuto su bene, robusto.

son giovani. Vedete un po' come fa messer Argifilo vostro vicino con Polibio suo figliuolo; che a fatica gli dà tanti danari che si possa comprare le scarpette. E pure, non ha altro che quello. Clemenza. Che ha a fare Argifilo con Andronico? quello è un avaraccio, che per non avere a spendere, sopporterebbe che il figliuolo andassi ignudo. Ma di' un poco poichè tu mi hai ricordato Polibio, non mi dicesti tu, iersera, che ti disse che sapeva dove si trovava il mio Panfilo? Betta. Madonna sì, ch'io ve lo dissi; ma testè1 non me ne ricordo; se non che mi disse, ch'egli era discosto, discosto un buondato; fate voi: dice, che egli era di là dal mare, in una città che si chiama Tampoli, Rafani, o Raspoli, o un simil nome; e che v' era una carestia grande, grande. Clemenza. Oh povero figliuolo mio! mi pareva proprio indovinare che si sarà consumato ogni cosa; e testè forse patirà d'un boccone di pane: uh! uh! uh! Betta. Padrona, non piangete; chè questa sarà forse un'occasione di farlo ritornare a casa; e chi sa? forse anco la sua ventura. Clemenza. Del sta' cheta, sciocca che tu sei. E che ventura può egli avere, s'egli arà mandato male ogni cosa? E poi, ti so dire che egli ha un fratello che è tanto amorevole! Ma io voglio a ogni modo, com'io torno dalla messa, intender da questo Polibio Pallanti, come lui sa dove ei sia e s'io ne posso saper niente di certo, io non mancherò di fare ogni opera che ritorni a casa. Betta. Voi farete anco bene: chè egli è pur un peccato, a dire il vero, che si bel figliuolo vadia male. Clemenza. Io lo farò per ogni modo: ma non badiamo più, che poi non trovassimo messe. Betta. Non abbiate paura già di questo; chè delle messe non mancheranno; ché alla Nunziata le durano presso a vespro. Clemenza. Tanto meglio, io ne potrò udire più d'una. Orsù, andiamo. Betta. Andiamo. — (Atto I, scena I.)

Panfilo.

Il ritorno del Figliuol prodigo. Padre mio, già apertamente confesso il mio peccato, e conosco quanto v'abbia gravemente offeso; si che ora, per la mia mala vita, e per i falli mia gravissimi, già non son degno d'esser chiamato più vostro figliuolo; nè metter più il

1 Ora, Adesso, Di presente.

2 Molto, un bel tratto. 3 Detto ironicamente.

Il figliuol prodigo,

piede dentro alla soglia vostra. Ma voi, padre benignissimo, prego per la vostra solita pietà, che non vogliate por mente alle mie scelleraggini, nè a peccato della mia giovinezza; e abbiate misericordia di me vostro povero indegnamente figliuolo: nè più vi dimando, se non che almeno facciate a me come fate ad un vostro famiglio o mercenario: e s'io non son più degno di mangiar il pane sopra la vostra tavola, non mi negate almeno di poter raccôrre e mangiare i minuzzoli che da quella cascono. Andronico. Non più, dolcissimo mio figliuolo, non più: chè le parole tue troppo mi trafiggono il cuore. Ringraziato sia Dio che mi t'ha reso sano e salvo: e tu, figliuol mio, sia ora mille volte il ben tornato. Polibio. Oh singular pietà! chi può tener le lacrime? Andronico. Eh datti pace, e non dubitar di cosa nessuna; perchè io voglio che per l'avvenire, sempre tu sia quello che mi sei stato per il passato. Polibio. Oh bontà paterna! Andronico. Nè come servo nè come mercenario ti vuo' tenere; ma come proprio e carissimo figliuolo che tu sei. Polibio. Ohimè, padre mio, la vostra è troppo grande amorevolezza; chè io non merito tanto, e non son degno di si fatta grazia. Andronico. Non pianger, figliuol mio, non pianger, dico; chè dato che tu non fossi degno di simil dono, son degno io di dartelo. Polibio. Oh animo generoso! Andronico. Tu, Romolo, va' su in casa a sua madre; e mandaci giù i panni per il Berna per rivestirlo, e la collana e l'anello; e mandaci giù il Norcia, e attendi a mettere in ordine la sala grande, e va' via prestamente. Romolo.* Ho io a far altro? Andronico. Fa' che tu faccia questo, e basta. Romolo. Vi loderete di me. Frappa.3 Messer Andronico, s'io posso aiutarvi a nulla anch'io a questa cena, ecco qui paratissimo per fare ogni piacere. Andronico. Puoi d'avanzo, Frappa mio galante: vorrei che conducessi l'organista della Badia a casa mia a cena con suoi strumenti, e entrar per la porta di dietro e fa' di venir tu ancora. Frappa. Non mancherò per niente. Polibio. Eh gliene credo! Frappa. Chè questo organista è mio amico, e io mi diletto della musica grandemente. Polibio. Si, di quella di cucina. Andronico. Tanto più l'ho caro. Va' dunque, innanzi che sia sera,

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Frappa. Così farò, non dubitate: fa li la lon fa, fa li la li lon. Andronico. Oh, tu canti e salti: che vuol dire ? Frappa. Io canto, chè già mi pare avere i suoni nel cervello. Polibio. Io dico, gli arrosti giù per la gola. Frappa. Avete il torto a creder questo, messer Polibio. Ma pure, ancora quando così fussi, non sapete voi che si dice: dove si manuca, Dio mi ci conduca; e dove si lavora non ancora? Polibio. Tu hai ragione, alla fe'! Andronico. Orsù, va' via, chè l'ora passa. Frappa. Non vi diate pensiero, che ora son qui; e se non credete ch' io sia fedele, fatene la prova in me: fa la li la lon fa. Polibio. Le cose andranno bene, messer Andronico; e' va via cantando! Ma ecco qua ancora il vostro servo e 'l vostro cuoco che vengon saltellando per l'allegrezza. Berna. Padrone, buon pro' vi faccia che avete ritrovato il figliuolo; e voi, messer Panfilo, siate il ben tornato. Ecco i panni che vi manda vostra madre, e si raccomanda a voi, e piagne per l'allegrezza come una bambina; e dice che voi andiate su presto, che gli par mille anni di baciarvi e farvi intorno mille carezze. Panfilo. Oggi non dicevi così. Berna. Perdonatemi, ch'io non vi conobbi per uomo da bene, nè per mio padrone. Norcia.1 O padroncino mio d'oro, perdonatemi ancora a me se oggi vi dissi villanie, e vi feci dare. Da vero, padroncino, che io non avrei mai pensato, che voi fossi stato quello. Eccomi, che io mi vi getto avanti ginocchioni: perdonatemi, vi prego, almeno per amor qui di vostro padre, e di voi, Polibio; e se volete pur vendicarvi, tenete, tenete, pigliate questo stidione e infilzatemi come fo io i fegatelli. Polibio. Ah! al nostro Norcia, gli è ben dover di perdonargli. Norcia. Padroncino, perdonatemi voi di cuore, e da dovero? Panfilo. Di cuore, e da dovero, si, Norcia. Polibio. Sta' un po' più in là con codesto stidione; chè non ci cavassi un occhio! Andronico. Dice il vero perchè hai portato testè lo stidione fuor di casa? Norcia. Oh perchè non devo io portar lo stidione ovunque io vo? Non vedete voi, padrone, che i birri portan sempre la spada, i facchini il cércine,3 gli zanaioli la zana,* che tutti son segni dell' arte loro? Polibio. Dico, il mortaio ancora.

1 Cuoco di Andronico.

2 Percuotere.

3 Avvolto di cenci fatto a cerchio, da assestarsi in capo per portar pesi, Cesta che serve a tenere e portare diverse cose, onde i portatori,

specie di facchini pubblici, eran detti zanaioli.

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