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di tutto il regno?» Rispose: « Per uno de' vescovi, io ne ho cento, e canonizati: per la nobiltà vostra, io ho quella de'martiri e confessori: per un solo vostro concilio (Dio sa chente),1 tutti i celebrati da mille anni in qua: e per questo piccolo regno, ho Francia, Spagna, Italia e tutti gl'imperi cristiani. > Non parve, presente il popolo, da lasciarlo più dire: e alli 5 di luglio fu dicapitato. (Dallo Scisma d'Inghilterra, lib. I, §§ XXXV-XXXVI.)

Definizione della moneta.

MONETA È ORO, ARIENTO o

RAME, CONIATO DAL PUBLICO A PIACIMENTO, FATTO DALLE GENTI PREGIO E MISURA DELLE COSE PER CONTRATTARLE AGE

VOLMENTE. Dicesi ORO, ARIENTO O RAME, perchè, avendo le genti questi tre metalli eletti per moneta fare, se un principe (chiamo principe chi padroneggia lo stato, sia uno o molti, o pochi o tutti) la facesse moneta di ferro, piombo, legno, sughero, cuoio, carta, sale, come già si son fatte, o d'altro, ella non sarebbe fuor del suo stato accettata, come fuor della generalmente accordata materia; nè sarebbe moneta universale; ma una taglia particulare, un contrassegno o bullettino, o poliza di mano del principe, lui obbligante a render al presentatore tanta moneta vera; come già s'è usato, quando, per mancamento di essa, il ricorrere a simili spedienti è stato salute pubblica. I Romani dunque chiamarono i lor maestri di zecca, i tre uomini sopra l'affinare e battere il rame, l'ariento e l'oro. Ulpiano, Pomponio e gli altri ammaestrati nella ragion civile, dicono chiaramente che moneta buona non è se non d'oro, d'ariento o di rame; onde fu Marcantonio tra l'altre cose infamato d'aver battuto il danaio dell'ariento misleale, e mescolato col ferro. Dicesi CONIATO DAL PUBBLICO, perchè rari metalli si trovan tutti puri; onde conviene, per far le monete eguali, ridurre il metallo ad una fineza, tagliarle d'un peso e suggellarle, per segno che elle siano leali, senza farne prova ogni volta. Non è uficio questo da privati uomini sospetti di froda, ma del principe, padre di tutti; perciò niuno di suo metallo può far moneta, quantunque ottima, sotto pena di falsità; ma portarlo conviene alla zecca pubblica, ed ella il prende e pesa e saggia e nota e fonde e allega e cola e schiaccia e

1 Fiorentinismo antico per quale.

2 Falso, non genuino.

taglia e aggiusta e conia e rende secondo sua legge. A PIACIMENTO si dice, perchè ordine delle genti è, che moneta si faccia; ma così o così, cioè tonda o quadra, o grossa o minuta, più pura o meno, d' un'impronta o d'altra, d'un nome o d'un altro, questi sono accidenti rimessi nel principe basta che egli non tocchi la sostanza ove non ha potere, cioè non faccia moneta che de' tre metalli, e non le dia mentito pregio, come sarebbe se in lei, cimentata, non si trovasse tanto metallo fino, che al nome datole corrispondesse; onde il popolo ingannato sotto la fede pubblica che 'l dee difendere, dir potesse come il lupo a' pastori che la pecora si mangiavano, « s'il facess' io, voi grideresti accorruomo, e leveresti a rumor la contrada. » Dicesi FATTO DALLE GENTI PREGIO E MISURA DI TUTTE LE COSE, perchè così d'accordo son convenuti gli uomini, e non perchè tanto vagliano di natura questi metalli. Un vitello naturale è più nobile che un vitel d'oro, ma quanto è pregiato meno? Un uovo ch' un mezo grano d'oro si pregia, valeva a tener vivo il conte Ugolino nella torre della fame ancora il decimo giorno; che tutto l'oro del mondo nol valeva. Che più a nostra vita importa che 'l grano? nondimeno diecimila granella oggi si vendono un grano d'oro. Ma come è ciò, che cose per natura sì valenti vagliano si poc' oro? Da che radice dipende che una cosa vaglia tanto più dell'altre, più tosto che tanto; o tant' oro più tosto che cotanto? Domin se ella fusse questa per avventura? Tutti gli uomini travagliano per esser felici: la felicità credon trovare nel sodisfare a tutte lor voglie e bisogni. A ciò fare ha la natura create buone tutte le cose terrene; tutte queste per accordo delle genti vaglion tutto l'oro (e con esso intendo l'ariento e 'l rame) che si travaglia: bramano adunque tutti gli uomini tutto l'oro per comperar tutte le cose, per appagar tutte lor voglie e bisogni, per esser felici. Le parti seguono la natura del tutto. Però quanta parte di tutta la felicità d'un regno, d'una città, d'un uomo alcuna cosa opera e cagiona, tanta parte vale di tutto il suo oro o lavoro: tanta ne cagiona quant'è la sua voglia e bisogno; poichè si gode tanto del bere quant'è grande la sete; la voglia dall' appetito e dal gusto, il bisogno dalla natura, stagione, grado, luogo, eccellenza, rarità e abbondanza prendon misura con perpetuo variare. Onde a veder giornalmente la regola e proporzione arimmetica che le cose hanno tra sè e con l'oro,

bisognerebbe di cielo o di qualche altissima vetta poter guatare tutte le cose che sono e che si fanno in terra, o veramente le loro immagini ripercosse nel cielo come in verace speglio annoverare, perchè noi gitteremmo nostro abbaco e diremmo: tanto oro ci ha in terra, tante cose, tanti uomini, tanti bisogni, tanti ciascheduna cosa n'appaga, tant' altre cose vale; tant' oro vale. Ma noi di quaggiù scopriamo a pena quelle poche cose che ci stanno d'intorno, e le pregiamo secondo che più o meno le veggiamo richiedere in ciascun luogo o tempo. Della qual cosa i mercatanti stanno sollecitamente avvertiti e avvisati; però sono de'pregi delle cose peritissimi. — (Dalla Lezione della Moneta).

BATTISTA GUARINI.

Fu di nobile famiglia oriunda di Verona, trapiantata poi (1429) a Ferrara dal celebre Guarino Veronese; nacque verso la fine del 1538 in Ferrara da Francesco e da Orsina Machiavelli. Prima del 1557 studiò giurisprudenza a Padova, d'onde passò professore di retorica e poetica (1557) nella patria Università; e intorno a questo tempo sposò Taddea di Niccolò Bendidio. Nel 1564 si recò a Padova e fu dell'Accademia degli Eterei istituitavi da Scipione Gonzaga, stringendovi amicizia con Torquato Tasso e con altri accademici. Decaduta l'Accademia e partito il Gonzaga da Padova, il Guarini tornò (1567) a Ferrara per invito del duca Alfonso II d'Este, ed entrò nella sua corte splendida e gaia. Ebbe varie missioni politiche; tra le altre a Venezia al doge Pietro Loredan (1567); creato cavaliere nel 1569 fu poi ambasciatore residente a Torino nel 1570; ritornato a Ferrara (1571), dove aveva la famiglia, ebbe una seconda missione a Venezia e un'altra a Roma (1572) per fare omaggio al nuovo papa Gregorio XIII. Nel 1573 assistè a Ferrara alla rappresentazione dell'Aminta; indi ebbe una nuova legazione a Venezia. Una duplice legazione (1574-75) sostenne con altri in Polonia quando il duca Alfonso aspirava alla elezione a quel trono: nella seconda ammalò. Morto il segretario ducale Pigna e recluso ormai a Sant'Anna il Tasso, del quale era stato rivale anche in amore come fu emulo audace nella poesia, il Guarini godè maggiori grazie e favori nella corte estense, ma egli senti presto noia della vita spensierata e disutile di corte e più volte se n'assentò per necessità domestiche, finchè nel 1583 si ritirò alla Guarina, la sua villa nel Polesine, alternando questo soggiorno con quello di Padova, dove si trovava un' eletta schiera di dotti e letterati,

tra' quali G. Vincenzo Pinelli. Nel 1585 fu a Ferrara per assistere alle nozze di sua figlia Anna col conte Ercole Trotti; il qual matrimonio finì poi tragicamente. Si recò poi a Torino presso Carlo Emanuele I di Savoia, e, mentre pareva che volesse entrare a' servigi di quel duca, Alfonso lo richiamò in corte in qualità di segretario (1585). In questo tempo ebbe fiere discordie col figlio Alessandro, per le quali e per la sua naturale e continua irrequietezza lasciò improvvisamente la corte e il servizio del duca (cfr. la scena prima dell'atto quinto del Pastor Fido, nella quale il Guarini in Carino adombra sè e alcuni suoi casi). Fu a Venezia, a Firenze, a Torino, dove prestò servigi al duca Carlo Emanuele come riformatore dello Studio e consigliere di Stato; ma poco vi rimase e ritornò (1589) alla Guarina, facendo gite ora a Padova ora a Venezia. Perduta la moglie (1590) si trovò involto in nuove discordie domestiche, e, perseguitato ormai dal rancore del duca Alfonso, entrò (1592) al servizio de' Gonzaga in Mantova; si riconciliò col figlio, ma per opera dell' Estense ebbe licenza dalla corte mantovana (1593), e, rientrato in grazia di Alfonso, tornò a Ferrara (1595). Visse poi fra Padova e Venezia (1596-97) essendo Ferrara tornata alla Chiesa, e avendo Cesare d'Este trasportata a Modena (1598) la sede. Passò al servizio del Granduca di Toscana (1599) e fu arciconsolo della Crusca; ma nel 1601 si congedò dal Medici, ed entrò (1602) a' servigi del Duca d'Urbino; anche da questa corte per nuovi dissidi parti (1604) (v. A. SAVIOTTI, Guariniana, Pesaro, Federici 1888), e tornò a Ferrara. Si chiude la sua vita pubblica colla gita che nel 1605 fece a Roma per rendere omaggio a nome di Ferrara al nuovo papa Paolo V. Gli ultimi suoi anni non offrono fatti degni di nota; ma non cessò nemmeno in questi dalle liti co' figli e co' parenti, e ne aveva avute anche co' Gesuiti (v. G. ZANNONI, in Cultura, ottobre 1890). Compiacimento ebbe solo de' molti onori che si rendevano a lui vecchio e celebre poeta: nel 1611 fu principe degli Umoristi di Roma de' quali erano il Marini e il Tassoni, che ebbero amicizia con lui, e il Chiabrera. Nello stesso anno da Roma venne a Ferrara dove s'ammalò: passò poi convalescente a Venezia e vi morì il 7 ottobre 1612, sepolto, con molte onoranze, nella chiesa di San Maurizio.

Notevoli fra molti canzonieri del Cinquecento e da ravvicinare per raffinata eleganza a quelle del Tasso sono le Rime. Aveva cominciato a scriver versi prima del 1563, e continuò a farne fino a tarda età. Compose sonetti, stanze, madrigali, canzonette, intermezzi: molte di queste poesie, composte per piacere ai Signori e per nozze principesche, furono anche musicate (1a edizione Venezia, Ciotti, 1598).

Il Pastor Fido tragicommedia pastorale è il capolavoro del Guarini. Cominciò ad attendervi circa il 1580, quando (Venezia, Aldo 1581) usciva alla luce l'Aminta del Tasso. Ne andò leggendo

qualche parte in varie città; ed è frutto di lunga elaborazione l'ultima forma che diede alla sua pastorale. Ne fece omaggio nel 1585 a Carlo Emanuele I. Dopo averla sottoposta alla recensione di Lionardo Salviati e Scipione Gonzaga ne diede la prima stampa a Venezia presso Gio. Battista Bonfadino nel 1590, e la ventesima impressione, prima della redazione definitiva, in Venezia presso G. Ciotti nel 1602: a questa aggiunse l'importante Compendio della poesia tragicomica composto già nel 1599 e edito separatamente nel 1601. In esso vengon riassunte alcune teoriche e osservazioni che il Guarini espose nella controversia, avuta fin dal 1588 con Giasone De Nores professore a Padova, contro il quale scrisse Il Verato e il Verato secondo (1592). Nella controversia altri s'intromisero pro e contro il Guarini, e la questione continuò per tutto il Secento. La prima rappresentazione del Pastor Fido fu fatta in Crema nel 1596: suntuosissima quella mantovana del 1598 (D'ANCONA, Orig. del Teatro ital., II, 566). Come il Guarini riconosce, il suo lavoro continua il genere iniziato col Sacrifizio da Agostino Beccari, collo scopo d' emulare l'Aminta; ma amplia smisuratamente il quadro, come si vede dal titolo stesso, e vi fa entrare ogni sorta di caratteri, di forme, di stili. Grande fu la fama del Pastor Fido per l'intrinseco pregio, per la novità e l'arditezza del genere, e perchè quella squisitezza quintessenziale di concetti e di forme rispondeva alle inclinazioni de' tempi. Sicchè infinite ne furono le stampe, numerose le imitazioni, e ogni nazione culta lo voltò nel proprio idioma. Il Guarini sapeva, e compiacevasi, che il suo lavoro fosse divenuto « delizia delle bellissime e non mai abbastanza esaltate e riverite dame di Francia; » e tale durò lungo tempo nella società culta e polita di tutta Europa, mantenendo e diffondendo colla Gerusalemme, la conoscenza e la riputazione della poesia italiana. Si veda l'acuto giudizio che fecero del Pastor Fido, G. CASELLA (nel discorso premesso all' edizione Barbèra, 1866) e F. DE SANCTIS (St. d. lett. it., Napoli, Morano, 1879, II, 198).

In prosa lasciò il Guarini la commedia L'Idropica, composta circa il 1584, non molto notevole tra le tante del secolo; di maggiore importanza e valore le Lettere (1a ediz. Venezia, Ciotti, 1593). Tra le scritture minori, senza dire delle cinque sue orazioni latine, ricordiamo Il Segretario, dialogo nel qual non sol si tratta dell'ufficio del Segretario et del modo del compor lettere, ma sono sparsi infiniti concetti alla Retorica, alla Loica ed alle Morali pertinenti (Venezia, Mejetti, 1594), il Trattato della politica libertà, rimasto inedito fino al 1818 (Venezia, Andreola), invettiva contro il governo repubblicano in favore de' Medici, e le scritture che si riferiscono alla lite avuta con Giovanni Bonifacio a proposito della traslazione delle ossa di S. Bellino (villaggio vicino alla Guarina) Altri scritti rimasero inediti o andarono sperduti. Curò la Scelta delle rime di T. Tasso fatta in Ferrara, Baldini, 1582.

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