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cendo, la gloria e lo acquisto è tutto loro; e quando non vi sono, sendo la gloria d'altrui, non pare loro potere usare quello acquisto s'ei non spengono in altrui quella gloria che loro non hanno saputo guadagnarsi, e diventare ingrati ed ingiusti; e senza dubbio è maggiore la loro perdita che il guadagno. Ma quando, o per negligenza o per poca prudenza, e'si rimangono a casa oziosi, e mandano un capitano, io non ho che precetto dar loro altro, che quello che per lor medesimi si sanno. Ma dico bene a quel capitano, giudicando che non possa fuggire i morsi della ingratitudine, che faccia una delle due cose o subito dopo la vittoria lasci l'esercito, e rimettasi nelle mani del suo principe, guardandosi da ogni atto insolente o ambizioso, acciocchè, quello spogliato d'ogni sospetto, abbia cagione o di premiarlo o di non l'offendere; o quando questo non gli paia di fare, prenda animosamente la parte contraria, e tenga tutti quelli modi, per li quali creda che quello acquisto sia suo proprio e non del principe suo, facendosi benevoli i soldati ed i sudditi, e faccia nuove amicizie con i vicini, occupi con i suoi uomini le fortezze, corrompa i principi del suo esercito, e di quelli che non può corrompere si assicuri, e per questi modi cerchi di punire il suo signore

di quella ingratitudine che esso gli userebbe. Altre vie non ci sono; ma, come di sopra si disse, gli uomini non sanno essere nè al tutto tristi, nè al tutto buoni. E sempre interviene che subito dopo la vittoria, lasciare lo esercito non vogliono, portarsi modestamente non possono, usare termini violenti, e che abbiano in sè l'onorevole non sanno. Talchè stando ambigui, tra quella loro dimora e ambiguità, sono oppressi. Quanto ad una repubblica, volendo fuggire questo vizio dello ingrato, non si può dare il medesimo rimedio che al principe; cioè che vada e non mandi nelle espedizioni sue, sendo necessitata a mandare un suo cittadino. Conviene pertanto che per rimedio io le dia, che la tenga i medesimi modi che tenne la repubblica romana, ad esser meno ingrata che l'altre; il che nacque dai modi del suo governo. Perchè adoperandosi tutta la città, e gli nobili e gli ignobili, nella guerra, surgeva sempre in Roma in ogni età tanti uomini virtuosi, e ornati di varie vittorie, che il popolo non aveva cagione di dubitare di alcuno di loro, sendo assai, e guardando l'uno l'altro. E intanto si mantenevano interi, e rispettivi di non dare ombra di alcuna ambizione, nè cagione al popolo come ambiziosi d'offenderli, che venendo alla dittatura, quello maggior gloria ne ri

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DE DISCORSI,

portava, che più tosto la deponeva. E così non potendo simili modi generare sospetto, non generavano ingratitudine. In modo che una repubblica che non voglia avere cagione d'essere ingrata, si debbe governare come Roma; e uno cittadino che voglia fuggire quelli suoi morsi, debbe osservare i termini osservati dai cittadini romani.

CAPITOLO XXXI.

Chei Capitani romani per errore commesso non furono mai istraordinariamente puniti, nè furono mai ancora puniti quando per la ignoranza loro, o tristi partiti presi da loro, ne fussero seguiti danni alla Repubblica.

I Romani non solamente, come di sopra avemo discorso, furono manco ingrati che l'altre repubbliche, ma furono ancora più pii e più rispettivi nella punizione de' loro capitani degli eserciti che alcune altre. Perchè se il loro errore fusse stato per malizia, e' lo gastigavano umanamente; se egli era per ignoranza, non che lo punissero e' lo premiavano ed onoravano. Questo modo di procedere era ben considerato da loro; perchè e' giudicavano che fusse di tanta importanza a quelli che governavano gli eserciti

loro, lo avere l'animo libero e spedito, e -senza altri estrinsechi rispetti nel pigliare i partiti, che non volevano aggiugnere ad una cosa, per sè stessa difficile e pericolosa, nuove difficultà e pericoli, pensando che aggiungendoveli, nissuno potesse essere che operasse mai virtuosamente. Verbigrazia, ei mandavano un esercito in Grecia contro a Filippo di Macedonia, o in Italia contro ad Annibale, o contro a quelli popoli che vinsono prima. Era questo capitano che era preposto a tale espedizione angustiato da tutte quelle cure che si arrecavano dietro quelle faccende, le quali sono gravi e im"portantissime. Ora se a tali cure si fussero aggiunti tali esempi di Romani, ch'eglino avessero crucifissi, o altrimente morti, quelli che avessero perdute le giornate, egli era impossibile che quello capitano intra tanti sospetti potesse deliberare strenuamente. Però giudicando essi che a questi tali fusse assai pena ·la ignominia dello avere perduto, non li vollono con altra maggior pena sbigottire. Uno esempio ci è quanto allo errore commesso non per ignoranza. Erano Sergio e Virginio a campo a Veio, ciascuno preposto ad una parte dello esercito, de' quali Sergio era all'incontro donde potevano venire i Toscani, e Virginio dall'altra parte. Occorse che sendo assaltato Sergio dai FaMachiavelli, vol. III.

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lisci e da altri popoli, sopportò di essere rotto e fugato, prima che mandar per aiuto a Virginio. E dall'altra parte Virginio aspettando che si umiliasse, volle piuttosto vedere il disonore della patria sua, e la rovina di quello esercito, che soccorrerlo. Caso veramente esemplare e tristo, e da fare non buona coniettura della repubblica romana, se l'uno e l'altro non fussero stati gastigati. Vero è che dove un'altra repubblica gli arebbe puniti di pena capitale, quella li puni in danari. Il che nacque, non perchè i peccati loro non meritassero maggior punizione, ma perchè i Romani vollono in questo caso, per le ragioni già dette, mantenere gli antichi costumi loro. E quanto agli errori per ignoranza, non ci è il più bello esempio che quello di Varrone, per la temerità del quale sendo rotti i Romani a Canne da Annibale, dove quella repubblica portò pericolo della sua libertà, nondimeno perchè vi fu ignoranza e non malizia, non solamente non lo gastigarono, ma lo onorarono, e gli andò incontro nella tornata sua in Roma tutto l'ordine senatorio; e non lo potendo ringraziare della zuffa, lo ringraziarono che egli era tornato in Roma, e non si era disperato delle cose romane. Quando Papirio Cursore voleva fare morire Fabio, per avere contro al suo comandamento combattuto

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