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ricordare ad ogni potente, che mai le ingiurie vecchie non furono cancellate dai benefizi nuovi; e tanto meno, quanto il benelizio nuovo è minore che non è stata l'ingiuria. E senza dubbio Servio Tullo fu poco prudente a credere che i figliuoli di Tarquinio fussero pazienti ad esser generi di colui, di chi e' giudicavano dovere essere re. E questo appetito del regnare è tanto grande, che non solamente entra nei petti di coloro a chi s'aspetta il regno, ma di quelli a chi non s'aspetta, come fu nella moglie di Tarquinio giovine, figliuola di Servio, la quale, mossa da questa rabbia, contro ogni pietà paterna mosse il marito contro al padre a torgli la vita e il regno: tanto stimava più essere regina che figliuola di re. Se adunque Tarquinio Prisco e Servio Tullo perdettero il regno per non si sapere assicurare di coloro a chi ei l'avevano usurpato, Tarquinio Superbo lo perdė per non osservare gli ordini degli antichi re, come nel seguente capitolo si mostrerà, CAPITOLO V.

Quello che fa perdere un Regno ad un Re che sia ereditario di quello.

AVENDO Tarquinio Superbo, morto Servio Tullo, e di lui non rimanendo eredi, veni

va a possedere il regno sicuramente, non avendo a temere di quelle cose ch'avevano offeso i suoi antecessori. E benchè il modo dell'occupare il regno fusse stato straordi nario e odioso, nondimeno quando egli avesse osservato gli antichi ordini degli altri re, sarebbe stato comportato, nè si sarebbe concitato il senato e la plebe contro di lui per torgli lo stato. Non fu adunque costui cacciato per aver Sesto suo figliuolo stuprata Lucrezia, ma per aver rotte le leggi del regno, e governatolo tirannicamente, avendo tolto al senato ogni autorità, e ridottola a sè proprio; e quelle faccende che nei luoghi pubblici con satisfazione del senato romano si facevano, le ridusse a fare nel palazzo suo con carico ed invidia sua, talchè in breve tempo egli spogliò Roma di tutta quella libertà ch'ella aveva sotto gli altri re mantenuta. Nè gli bastò farsi nimici i Padri, che si concitò ancora contro la plebe, affaticandola in cose meccaniche, e tutte aliene da quello a che l'avevano adoperata i suoi antecessori; talchè avendo ripiena Roma di esempi crudeli e superbi, aveva disposti già gli animi di tutti i Romani alla ribellione qualunque volta ne avessero occasione. E se l'accidente di Lucrezia non fusse venuto, come prima ne fusse nato un altro, arebbe partorito il medesimo effetto,

perchè se Tarquinio fusse vissuto come gli altri re, e Sesto suo figliuolo avesse fatto quell'errore, sarebbero Bruto e Collatino ricorsi a Tarquinio per la vendetta contro a Sesto, e non al popolo romano. Sappiano adunque i principi come a quell'ora e' cominciano a perder lo stato, ch' ei comincia no a rompere le leggi, e quelli modi e quelle consuetudini che sono antiche, e sotto le quali gli uomini lungo tempo sono vivuti. E se privati ch'ei sono dello stato, e'diventassero mai tanto prudenti, che conoscessero con quanta facilità i principati si tenghino da coloro che saviamente si consigliano, dorrebbe molto più loro tal perdita, e a maggior pena si condannerebbero che da altri fussero condannati, perchè egli è molto più facile esser amato da'buoni che da' cattivi, ed ubbidire alle leggi, che voler comandar loro. E volendo intendere il modo che avessero a tenere a far questo, non hanno a durare altra fatica che pigliar per loro specchio la vita dei principi buoni, come sarebbe Timoleone Corintio, Arato Sicioneo, e simili; nella vita de' quali ei troveranno tanta sicurtà e tanta satisfazione di chi regge e di chi è retto, che dovrebbe venirli voglia d'imitarli, potendo facilmente, per le ragioni dette, farlo, perchè gli uomini quan. do sono governati bene, non cercano nè ve

gliono altra libertà, come intervenne ai popoli governati dai due prenominati, che gli costrinsono ad esser principi mentre che vissono, ancora che da quelli più volte fusse tentato di ridursi in vita privata. E perchè in questo, e ne' due antecedenti capitoli si è ragionato degli umori concitati contro ai principi, e delle congiure fatte dai figliuoli di Bruto contro alla patria, e di quelle fatte contro a Tarquinio Prisco ed a Servio Tullo, non mi par cosa fuora di proposito nel seguente capitolo parlarne diffusamente, sendo materia degna di essere notata dai principi • dai privati.

CAPITOLO VI.

Delle Congiure.

E' non mi è parso di lasciare indietro il

ragionare delle congiure, essendo cosa tanto pericolosa ai principi ed ai privati. Perchè si vede per quello molti più principi aver perduta la vita e lo stato, che per guerra aperta, perchè il poter fare aperta guerra con un principe è conceduto a pochi, il potergli congiurar contro è conceduto a ciascuno. Dall'altra parte, gli uomini privati non entrano in impresa più pericolosa, nè più temeraria di questa, perchè ella è diffi

cile e pericolosissima in ogni sua parte. Donde ne nasce che molte se ne tentano, e pochissime hanno il fine desiderato. Acciocchè adunque i principi imparino a guardarsi da questi pericoli, e che i privati più timidamente vi si mettano, anzi imparino ad esser contenti a vivere sotto quello imperio che dalla sorte è stato loro preposto, io ne parlerò diffusamente, non lasciando indietro alcun caso notabile in documento dell'uno e dell'altro. E veramente quella sentenza di Cornelio Tacito è aurea, che dice: "Che gli uomini hanno ad onorare le cose passate, ed ubbidire alle presenti, e debbono desiderare i buoni principi, e, comunque si siano fatti, tollerargli.,, E veramente chi fa altrimenti, il più delle volte ruina sè e la sua patria. Dobbiamo adunque, entrando nella materia, considerare prima contro a chi si fanno le congiure, e troveremo farsi o contro alla patria o contro ad un principe. Delle quali due voglio che al presente ragioniamo, perchè di quelle che si fanno per dare una terra ai nimici che l'assediano, o che abbiano per qualunque cagione similitudine con questa, se n'è parlato di sopra a sufficienza. E tratteremo in questa prima parte di quelle contro al principe, e prima esamineremo le cagioni d'esse, le quali sono molte, ma una ne è

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