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di Francia co' Svizzeri, sopravvenendo la notte, credettero quella parte dei Svizzeri che erano rimasti intieri aver vinto, non sapendo di quelli ch'erano stati rotti e morti: il qual errore fece che loro medesimi non si salvarono, aspettando di ricombattere la mattina con tanto loro disavvantaggio; e fecero ancora errare, e per tale errore presso che rovinare l'esercito del papa e di Spagna, il quale in su la falsa nuova della vittoria passò il Po, e se procedeva troppo innanzi, restava prigione dei Francesi che erano vittoriosi. Questo simile errore occorse ne' campi romani e in quelli degli Equi, dove sendo Sempronio consolo con l'esercito all'incontro degl'inimici, e appiccandosi la zuffa, si travagliò quella giornata infino a sera con varia fortuna dell'uno e dell'altro; e venuta la notte, sendo l'uno e l'altro esercito mezzo rotto, non ritornò alcuno di loro ne' suoi alloggiamenti, anzi ciascuno si ritrasse nei prossimi colli, dove credevano esser più sicuri; e

eser

cito romano si divise in due parti, l'una ne andò con il consolo, l'altra con un Tempanio centurione, per la virtù del quale l'esercito romano quel giorno non era stato rotto interamente. Venuta la mattina, il consolo romano, senza intendere altro de' nimici, si tirò verso Roma, il simile fece l'esercito

degli Equi, perchè ciascuno di questi credeva che il nimico avesse vinto, e però ciascuno si ritrasse senza curare di lasciare i suoi alloggiamenti in preda. Accadde che Tempanio, ch'era con il resto dello esercito romano, ritirandosi ancora esso, intese da certi feriti degli Equi, come i capitani loro s'erano partiti, ed avevano abbandonati gli alloggiamenti; onde che egli in su questa nuova se n'entrò negli alloggiami ro mani, e salvogli. et saccheggiò quegli do aqui, e se ne tornò a Roma vittorioso. La qual vittoria, come si vede, consistè solo in chi prima di loro intese i disordini del nimico. Dove si debbe considerare, come e' può spesso occorrere che i due eserciti che siano a fronte l'uno dell'altro, siano nel medesimo disordine e patiscano le medesime necessità, e che quello resti poi vincitore ch'è il primo a intendere la necessità dell'altro. Io voglio dare di questo uno esempio domestico e moderno. Nel mille quattrocento novantotto, quando i Fiorentini avevano uno esercito grosso in quel di Pisa, e stringevano forte quella città, della quale avendo presa i Viniziani la protezione, non veggendo altro modo a salvarla, deliberarono di divertire quella guer ra, assaltando da un'altra banda il dominio di Firenze; e fatto un esercito potente en

trarono per la Val di Lamona, ed occuparono il borgo di Marradi, ed assediarono la rocca di Castiglione, che è in sul colle di

Il che sentendo i Fiorentini, deliberarono soccorrere Marradi, e non diminuire le forze avevano in quel di Pisa; e fatte nuove fanterie, ed ordinate nuove genti a cavallo, le mandarono a quella volta, delle quali ne furono capi Iacopo quarto d'ApPlainor di Piombino, ed il conte Rinuccio da Marcian. Sandosi adunque condotte queste genti in sul colle p. Mar. radi, sí levarono i nimici d'intorno a Castiglione, e ridussonsi tutti nel borgo; ed essendo stato l'uno e l'altro di questi due eserciti a fronte qualche giorno, pativa l'uno e l'altro assai di vettovaglie, e d'ogni altra cosa necessaria; e non avendo ardire l'uno d'affrontare l'altro, nè sapendo i disordini l'uno dell'altro, deliberarono in una sera medesima l'uno e l'altro di levare gli alloggiamenti la mattina vegnente, e ritirarsi indietro; il Viniziano verso Berzighella e Faenza; il Fiorentino verso Casaglia e il Mugello. Venuta adunque la mattina, ed avendo ciascuno de' campi cominciato ad avviare i suoi impedimenti, a caso una donna si parti dal borgo di Marradi, e venne verso il campo fiorentino, sicura per la vecchiezza e per la povertà, desiderosa di ve

dere certi suoi che erano in quel campo; dalla quale intendendo i capitani delle genti fiorentine, come il campo viniziano partiva, si fecero in su questa nuova gagliardi, e, mutato consiglio, come se egli avessero disalloggiati i nimici, ne andarono sopra di loro, e scrissero a Firenze averli ributtati e vinta la guerra. La qual vittoria non nacque da altro che dall'avere inteso prima de' nimici come e' se n'andavano; la quale notizia se fusse prima venuta dall'altra parte, arebbe fatto contro a' nostri il medesimo effetto.

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CAPITOLO XIX.

niù necessario

Reggere una monuma
l'Ossequio che la Pena.

ERA la repubblica romana sollevata per le inimicizie de' nobili e de' plebei, nondimeno soprastando loro la guerra, mandarono fuori con gli eserciti Quinzio ed Appio Claudio. Appio, per essere crudele e rozzo nel comandare, fu male ubbidito dai suoi, tanto che quasi rotto si fuggì della suo provincia. Quinzio, per essere benigno e di umano ingegno, ebbe i suoi soldati ubbidienti, e riportonne la vittoria. Donde ei pare che sia meglio a governare una moltitudine essere umano che superbo, pietoso

che crudele. Nondimeno Cornelio Tacito, al quale molti altri scrittori acconsentono, in una sua sentenza conchiude il contrario, quando dice: In multitudine regenda plus poena, quam obsequium valet. E considerando come si possa salvare l'una e l'altra di queste opinioni, dico: o che tu hai a reg gere uomini che ti sono per l'ordinario compagni, o uomini che ti sono sempre sogget ti. Quando ti sono compagni, non si può interamente usare la pena, nè quella severità di che ragiona Cornelio; e perchè la plebe romana aveva in Roma eguale imperio con la nobiltà, non poteva uno che diventava principe a tempo, con crudeltà e rozzezza manera. E molte volte st vida chegor frutto fecero i capitani romani, che si facevano amare dagli eserciti, e che con ossequio li maneggiavano, che quelli che si facevano straordinariamente temere, se già e' non erano accompagnati da una eccessiva virtù, come fu Manlio Torquato. Ma chi comanda ai sudditi, de' quali ragiona Cornelio, acciocchè non diventino insolenti, e che per troppa tua facilità non ti calpestino, debbe volgersi piuttosto alla pena che all'ossequio. Ma questa ancora debbe essere in modo moderata, che si fugga l'odio; perchè farsi odiare non torna mai bene ad alcun principe. Il modo del fuggirlo

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