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endoli simili privati favori, quali si fanno gli uomini partigiani, e danno anima, a chi è così favorito, di poter corrompere il pubblico e sforzare le leggi. Debbe pertanto una repubblica bene ordinata aprire le vie, come è detto, a chi cerca favori per vie pubbliche, e chiuderle a chi li cerca per vie private, come si vede che fece Roma; perchè in premio di chi operava bene per il pubblico, ordinò i trionfi, e tutti gli altri onori che la dava ai suoi cittadini; ed in danno di chi sotto vari colori per vie private cercava di farsi grande, ordinò le accuse; e quando queste non bastassero, per essere accecato il popolo da una specie di falso bene, ordinò il dittatore, il quale con il braccio regio facesse tornare dentro al segno chi ne fusse uscito, come la fece per punire Spurio Melio. Ed una che di queste cose si lasci impunita, è atta a rovinare una repubblica, perchè difficilmente con quello esempio si riduce dipoi in la vera via.

NON

CAPITOLO XXIX.

Che gli Peccati dei Popoli nascono
dai Principi.

Non si dolgano i principi d'alcuno peccato

ON

che facciano i popoli, ch' egli abbiano in

governo, perchè tali peccati conviene che nascano o per sua negligenza o per esser lui macchiato di simili errori. E chi discorrerà i popoli che nei nostri tempi sono stati tenuti pieni di ruberie e di simili peccati, vedrà che sarà al tutto nato da quelli che li governavano, che erano di simile natura. La Romagna, innanzi che in quella fussero spenti da papa Alessandro VI quelli signori che la comandavano, era uno esempio d'ogni scelleratissima vita, perchè quivi si vedeva per ogni leggiera cagione seguire uccisioni e rapine grandissime. Il che nasceva dalla tristizia di quei principi, non dalla natura trista degli uomini, come loro dicevano. Perchè sendo quelli principi poveri, e volendo vivere da ricchi, erano forzati volgersi a molte rapine, e quelle per vari modi usare; e intra l'altre disoneste vie che e'tenevano, facevano leggi, e proibivano alcuna azione; dipoi erano i primi che davano cagione della inosservanza di esse, nè mai punivano gl'inosservanti, se non poí quando vedevano esser incorsi assai in simile pregiudicio, ed ora si voltavano alla punizione, non per zelo della legge fatta, ma per cupidità di riscuotere la pena. Donde nascevano molti inconvenienti, e sopra tutto questo, che i popoli s'impoverivano, e non si correggevano; e quelli che erano im

poveriti, s'ingegnavano contro ai meno potenti di loro prevalersi. Donde surgevano tutti questi mali che di sopra si dicono, dei quali era cagione il principe. E che questo sia vero, lo mostra Tito Livio quando ei narra, che portando i legati romani il dono della preda de' Veienti ad Apolline, furono presi dai corsari di Lipari in Sicilia, e condotti in quella terra. Ed inteso Timasiteo loro principe che dono era questo, dove egli andava e chi lo mandava, si portò, quantunque nato a Lipari, come uomo romano, e mostrò al popolo quanto era empio occupare simil dono; tanto che con il consenso dell'universale ne lasciò andare i legati con tutte le cose loro. E le parole dell'Istorico sono queste: Timasitheus multitudinem religione implevit, quae semper regenti est similis. E Lorenzo dei Medici, a confirmazione di questa sentenza, dice:

E quel che fa il signor fanno poi molti,
Chè nel signor son tutti gli occhi volti.

CAPITOLO XXX.

Ad un Cittadino che voglia nella sua repubblica far di sua autorità alcuna opera buoè necessario prima spegnere l'Invidia ; e come venendo il nimico, s'ha a ordinare la difesa di una città.

na,

INTENDER

NTENDENDO il senato romano come la Toscana tutta aveva fatto nuovo deletto per venire a'danni di Roma, e come i Latini e gli Ernici, stati per lo addietro amici del popolo romano, s'erano accostati con i Volsci, perpetui nimici di Roma, giudicò questa guerra dovere essere pericolosa. E trovandosi Cammillo tribuno di potestà consolare, pensò che si potesse fare senza creare il dittatore, quando gli altri tribuni suoi colleghi volessero cedergli la somma dello imperio. Il che detti tribuni fecero volontariamente: Nec quicquam (dice Tito Livio) de majestate sua detractum credebant, quod majestati eius concessissent. Onde Cammillo presa a parole questa ubbidienza, comandò che si scrivessero tre eserciti. Del primo volse esser capo lui, per ire contro ai Toscani; del secondo fece capo Quinto Servilio, il quale volle stesse propinquo a Roma, per stare ai Latini ed agli Ernici se si muo

Tessero; al terzo esercito prepose Lucio Quinzio, il quale scrisse per tenere guardata la città, e difese le porte e la curia, in ogni cosa che nascesse. Oltre a questo, ordinò che Orazio, uno de' suoi colleghi, provvedesse le armi e il frumento, e le altre cose che richieggono i tempi della guerra. Prepose Cornelio ancora suo collega al senato ed al pubblico consiglio, acciocchè potesse consigliare le azioni che giornalmente s'avevano a fare ed eseguire. In questo modo furono quelli tribuni in quelli tempi per la salute della patria disposti a comandare ad obbedire. Notasi per questo testo, quello che faccia in un uomo buono e savio, e di quanto bene sia cagione, e quanto utile ei possa fare alla sua patria, quando, mediante la sua bontà e virtù, egli ha spenta l'invidia, la quale è molte volte cagione che gli uomini non possono operar bene, non permettendo detta invidia ch'egli abbiano quella autorità, la quale è necessaria avere nelle cose d'importanza. Spegnesi questa invidia in due modi, o per qualche accidente forte e difficile, dove ciascuno veggendosi perire, posposta ogni ambizione, corre volontariamente ad ubbidire a colui che crede che con la sua virtù lo possa liberare; come intervenne a Cammillo, il quale avendo dato di sè tauti saggi di uomo eccellentissimo, ed

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