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bene ordinato nessuno debbe fare alcuna opera, se non regolato: e si troverà per questo che nell' esercito romano, dal quale, avendo egli vinto il mondo, debbono prendere esempio tutti gli altri eserciti, non si mangiava, non si dormiva, non si mercatava, non si faceva alcuna azione o militare o domestica senza l'ordine del consolo. Perchè quelli eserciti che fanno altrimenti, non sono veri eserciti, e se ne fanno alcuna prova, la fanno per furore e per impeto, non per virtù. Ma dove è la virtù ordinata, usa il furor suo coi modi e co' tempi, nè difficultà veruna lo invilisce, nè gli fa mancare l'animo, perchè gli ordini buoni gli rinfrescano l'animo e il furore, nutriti dalla speranza del vincere, la quale mai non manca, infino a tanto che gli ordini stanno saldi. Al contrario interviene in quelli eserciti dove è furore e non ordine, come erano i Francesi, i quali tuttavia nel combattere mancavano; perchè non riuscendo loro col primo impeto vincere, e non essendo sostenuto da una virtù ordinata quel lor furore, nel quale egli speravano, nè avendo fuori di quello cosa in la quale ei confidassero come quello era raffreddo, mancavano. Al contrario i Romani, dubitando meno dei pericoli per gli ordini loro buoni, non diffidando della vittoria, fermi ed ostinati com

battevano col medesimo animo e con la medesima virtù nel fine che nel principio, anzi, agitati dall'arme, sempre s'accendevano. La terza qualità d'eserciti è, dove non è furore naturale, nè ordine accidentale, come sono gli eserciti nostri italiani de' nostri tempi, i quali sono al tutto inutili; e se non si abbattono ad un esercito, che per qualche accidente si fugga, mai non vinceranno. E senza addurne altri esempi, si vede ciascun dì, come ei fanno prove di non avere alcuna virtù. E perchè con il testimonio di Tito Livio ciascuno intenda come debbe essere fatta la buona milizia, e come è fatta la rea, io voglio addurre le parole di Papivio cursore, quando ei voleva punire Fabio maestro de' cavalli, quando disse: Nemo hominum, nemo Deorum verecundiam habeat; non edicta imperatorum, non auspicia observentur: sine commeatu vagi milites in pacato, in hostico errent; immemores sacramenti, licentia sola se, ubi velint, exauctorent; infre quentia deserantur signa; neque conveniant ad edictum, nec discernant interdiu nocte, aequo iniquo loco, iussu, iniussu imperatoris pugnent; et non signa, non ordines servent; latrocinii modo, coeca et fortuita, pro solemni et sacrata militia sit. Puossi per questo testo adunque facilmente vedere, se la milizia de' nostri tempi è cieca e fortuita, o

sacrata e solenne, e quanto gli manca ad esser simile a quella che si può chiamar milizia, e quanto ella è discosto da essere furiosa ed ordinata come la romana, o fu riosa solo come la francese.

CAPITOLO XXXVII.

Se le piccole Battaglie innanzi alla Giornata sono necessarie, e come si debbe fare a conoscere un nimico nuovo, volendo fuggire quelle.

E'PARE che nelle azioni degli uomini, come altre volte abbiamo discorso, si trovi, oltre alle altre difficultà, nel voler condurre la cosa alla sua perfezione, che sempre propinquo al bene sia qualche male, il quale con quel bene sì facilmente nasce, che pare impossibile poter mancare dell' uno volendo l'altro. E questo si vede in tutte le cose che gli uomini operano. E però s' acquista il bene con difficultà, se dalla fortuna tu non sei aiutato in modo ch'ella con la sua forza vinca questo ordinario e naturale inconveniente. Di questo mi ha fatto ricordare la zuffa di Manlio Torquato e del Frandove Tito Livio dice: Tanti ea dimicatio ad universi belli eventum momenti fuit, ut Gallorum exercitus, relictis trepide castris,

cese,

in Tiburtem agrum, mox in Campaniam transierit. Perchè io considero dall'un canto, che un buon capitano debbe fuggire al tutto di operare alcuna cosa, che essendo di poco momento possa far cattivi effetti nel suo esercito; perchè cominciare una zuffa, dove non si operino tutte le forze, e vi si arrischi tutta la fortuna, è cosa al tutto temeraria, come io dissi di sopra, quando io dannai il guardare de' passi. Dall altra parte io considero, come i capitani savi, quando ei vengono all incontro d'un nuovo nimico, e che sia riputato, ei sono necessitati, prima che vengano alla giornata, far provare con leggieri zuffe ai loro soldati tali nimici, acciocchè cominciandoli a conoscere e maneggiare, perdano quel terrore che la fama e la riputazione aveva dato loro. E questa parte in un capitano è importantissima, perchè ella ha in sè quasi una necessità che ti costringe a farla, parendoti andare ad una manifesta perdita, senza avere prima fatto con piccole isperienze deporre ai tuoi soldati quello terrore che la riputazione del nimico aveva messo negli animi loro. Fu Valerio Corvino mandato da' Romani con gli eserciti contro ai Sanniti, nuovi nimici, e che lo addietro mai non avevano proper vate le armi l'uno dell'altro; dove dice Tito Livio, che Valerio fece fare ai Romani con

i Sanniti alcune leggieri zuffe: Ne eos novum bellum, ne novus hostis terreret. Nondimeno è pericolo grandissimo, che restando i tuoi soldati in quelle battaglie vinti, la paura e la viltà non cresca loro, e ne conseguitino contrari effetti ai disegni tuoi, cioè che tu gli sbigottisca avendo disegnato d'assicurarli. Tinto che questa è una di quelle cose che ha il male sì propinquo al bene, e tanto sono congiunti insieme, che egli è facil cosa prender I uno credendo pigliar altro. Sopra che io dico che un buon capitano debbe osservare con ogni diligenza, che non surga alcuna cosa che e per alcuno accidente possa torre l'animo all'esercito suo. Quello che gli può torre l'animo è cominciare a perdere; e però si deb be guardare dalle zuffe piccole, e non le permettere se non con grandissimo vantaggio, e con certa speranza di vittoria; non debbe fare impresa di guardar passi, dove non possa tenere tutto l'esercito suo; non debbe guardar terre, se non quelle che perdendole, di necessità ne seguisse la rovina sua; e quelle che guarda, ordinarsi in modo e con le guardie di esse e con l'esercito, che trattandosi della espugnazione di esse, ei possa adoperare tutte le forze sue; le altre debbe lasciare indifese. Perchè ogni volta che si perde una cosa che s'abbando-t

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