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LIBRO NONO.

CAPITOLO XCIV.

Gli Italiani dopo caduti gli Hohenstaufen. I Feudatarj. Torriani e Visconti.

Abbiamo dunque veduta l'Italia andare spartita a misura delle labarde vincitrici fra' capi de' varj eserciti longobardi, franchi, tedeschi, normanni, in quella feudalità che all' accentramento soverchio delle società antiche surrogava un soverchio sminuzzamento, sicchè mancata ogni idea di nazione o di Stato, quella soltanto sopravviveva d'un signore e d'una terra. A fianco di questa società, tutta di nobili possessori, viene alzandosi un'altra cittadina, di artigiani, di liberi uomini, di studiosi, e progredisce tanto da costituirsi in un Comune, che o si associa con quello dei nobili o gli fa contrappeso. Ne rimaneva ancora escluso il basso popolo, e questo pure cominciò a sentire di sè; e comunque non avesse importanza propria, l'acquistava coll'accostarsi ai nobili od ai Comuni, e così darvi prevalenza.

Di unità, di patria estesa non s'aveva concetto, e dire Italiani era poco diverso dal dire oggi Europei, non avendo nè origine nè ordinamenti comuni: le loro guerre erano funeste, non fratricide più che quelle del Francese contro il Tedesco: la libertà rimaneva un privilegio, giacchè, se la città era de' cittadini, l'Italia era dello straniero, e si direbbe che i nostri preferissero esser liberi con apparenze di servitù, che liberi di nome e servi di fatto.

Il titolo d'imperator de' Romani fece accettare la supremazia de' re forestieri: ma questi, non paghi di quell' augusta sovranità sui tanti signori scomunati, nè del patronato sui Comuni reggentisi a popolo, aspirarono a un dominio diretto ed efficiente, quale erasi veduto negli ultimi Romani. Alla pretensione posero argine i Comuni, e le due leghe Lombarde chiarirono come i deboli coll' unione possano resistere ai prepotenti. La prima riuscì ad assodare le repubbliche; la seconda invece spianò il calle alle tirannidi. Dalla pace di Costanza si ottenne una libertà sparpagliata, varia da città a città; ora queste vanno raccogliendosi in grossi Stati, sovente sottomessi a un capo: da

quella pace la sovranità imperiale restava consolidata a fianco della libertà; ora la si trasforma in tutt'altra guisa da quella che era stata concepita al tempo di Carlo Magno e nel grande concetto della repubblica cristiana.

Imperciocchè l'Impero, altercando coi papi, avea smarrita la sua impronta di santità; altercando coi popoli, cessò di sembrar tutore della libertà de' nuovi cittadini romani; ostinandosi nel conquistare l'Italia, non potè raccogliere la Germania in robusta unità, ma lasciolla ridursi a un regno simile agli altri, ove da un lato i capi s'industriavano a render retaggio di famiglia una dignità, che per essenza era elettiva e destinata ai migliori; dall' altro i principotti se ne disputavano i brani, in una dipendenza sempre scemante, in una confederazione sempre meno determinata. Discussa poi la dignità del capo durante il Grande interregno, rivalse in ogni dove il diritto del pugno, e la guerra di tutti contro tutti ammaccò il glorioso scettro di Carlo Magno, e finì coll'assicurare a un migliajo di baroni la sovranità territoriale, cioè che ciascuno fosse indipendente con mero e misto imperio nel proprio possesso, per quanto angusto.

Ingelositi delle eroiche famiglie che aveano dato una serie di grandi imperatori, i Tedeschi andarono a cercarne uno nei cinquanta conti tra cui si era spartita l'Elvezia. Un Rodolfo, conte di Habsburg nell'Argovia, aveva menato in Italia una banda d'uomini di Uri, Schwitz e Unterwald, coi quali mette1240 vasi a stipendio di chi bisognasse di braccia: servi Federico II all'assedio di Faenza, poi accettò soldo da' Fiorentini: chiuso in Bologna, tolse a prestito alquante lire per tornare in patria, lasciando statichi dodici tedeschi studenti su quell'università. Scomunicato per aver arso un monastero di Basilea, ne fece ammenda, e trovando una volta un curato che portava il santo viatico, gli cedette la propria montatura, nè più volle restituisse il cavallo che avea sostenuto il Signore del mondo. L'arcivescovo di Magonza viaggiando a Roma, si fece da lui scortare per le vie mal sicure; e quando si trattava di eleggere 1275 un imperatore, si risovvenne di Rodolfo e lo propose: È signore di poco

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Stato, perciò non potrà soperchiare; è vedovo e con molta figliolanza, perciò gli elettori potranno seco imparentarsi. Ebbe in fatto i voti; alla coronazione mancando lo scettro, egli impugnò una croce, e Ben ne terrå vece questo segno che salvò il mondo.

Conosceva il suo tempo costui. Professandosi affatto tedesco, in altra lingua non volea parlare, nè in altra dettar le leggi; rattoppava egli stesso la propria casacca, mangiava le rape nel campo; e tal fama godea d'onestà, che lo chiamavano la legge vivente. Ben presto diè a conoscere di voler rispettata la corona. Vinto il suo competitore Ottocaro II re di Boemia, che aveva oc4282 cupato pure i paesi tra il Danubio e l'Italia, del ducato d'Austria a lui tolto investi il proprio figliuolo Alberto, mettendo le basi alla grandezza di sua famiglia, alla quale trovò modo d'infeudar pure la Carintia, la marca dei Venedi e Pordenone, cioè una delle porte d'Italia.

Rodolfo non riceveva un'avita tradizione di risse e puntigli coi papi, në

GEOGRAFIA POLITICA DELL'ITALIA.

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come gli Ottoni e i Federichi smaniava per la civiltà romana risorgente in Italia; vedea di dover assicurare il primato in Germania, anzichè pericolosamente disputarlo in quest' Italia, ch' egli paragonava alla caverna del leone infermo, dove la volpe vedeva tutte le pedate dirette in dentro, nessuna di ritorno. Non pensò dunque mai a venire per la corona, pago d'intitolarsi re dei Romani, e confermò ai papi quanto pretendeano (T. III, pag. 626), i quali così furono assodati nel temporale dominio, ed ebbero resa l'Italia indipendente dai Tedeschi, ponendovi anche un robusto contrappeso nella dominazione meridionale degli Angioini. Per sessant'anni i paesi della lega Lombarda non sentirono calcagno d'imperatori, che cessato d'essere conquistatori, e perdendo l'influenza esterna perchè in paese mancavano di quiete, negligevano il giardin dell'Impero, come Dante se ne lagnava 2; nè fino ai miseri tempi di Carlo V non pensarono mai seriamente a far conquiste di qua dai monti. Rodolfo, poco geloso di diritti nominali in paese forestiero, vendeva privilegi e libertà a qualunque città avesse danaro da comperarli; a Lucca per dodicimila scudi; per metà tanti a Genova, Bologna, Firenze: bella opportunità di legalizzare e consolidare le libere costituzioni.

Queste erano nate, non dirò dal fondersi, ma dall'accostarsi degli elementi indigeni con quelli della conquista, e sviluppate col sottrarre la giurisdizione dai conti e dai vescovi, poi difenderla contro delle armi tedesche e delle indigene ambizioni. Costretti a trionfare d'un potere guerresco, por freno ad un'autorità illimitata, restringere le immunità del clero e i privilegi de' nobili, sbalzare antiche famiglie dai possessi o dai dominj, emancipare gli schiavi, costruire l'edifizio nuovo con rovine impastate di sangue, i Comuni doveano di necessità passare per le tempeste, che sgomentano le anime paurose, ma che offrono nobile spettacolo a chi nella storia ama vedere gli uomini in contingenze che agitano il loro spirito, esaltano le loro passioni.

Chi scorreva il bel paese, lo trovava diviso in un'infinità di Comuni erettisi in repubblica, e frammezzati da signorie militari. Quasi guardiano il conte di Savoja teneva i due pendii dell'alpi Cozie e Graje, al meridionale de' quali si appoggiavano i marchesi di Saluzzo e del Monferrato. Piemonte si diceva propriamente il paese fra le Alpi, il Sangone e il Po, cui terra principale Pinerolo. Sulla sinistra del Po Torino, già suddita de' proprj vescovi, che nel 1469 ebbero dal Barbarossa l'immunità pel circuito d'un miglio, era superata ancora per traffici e attività da Chieri, per potenza da Ivrea, ed Asti 4. Vercelli dominava la destra della Sesia: tra il qual fiume, il Ticino e le Alpi che chinano al lago Maggiore prosperava il Novarese.

Nelle pingui pascione che pianeggiano fra il Ticino, l'Adda e il lago Maggiore primeggiava Milano, circondata da altre, minori eppure indipendenti, quali Como che signoreggiava la maggior parte del suo lago e di quel di Lugano, e addentravasi nelle valli di Chiavenna fin alla Spluga, della Leventina fin al Sangotardo, della Valtellina fin allo Stelvio; Lodi, rinnovatasi in riva all'Adda inferiore; Crema sul basso Serio; Pavia che dal Ticino si allargava oltre il

Po, fra i dominj di Vercelli, Novara, Lodi, Tortona e del Monferrato; Bergamo, donna delle romantiche valli da cui colano l'Imagna, l'Oglio, il Serio, il Brembo; Brescia, estesa dall'Oglio fin ad Asola e al lago di Garda, in pericoloso contatto colla ghibellina Cremona, che estendevasi da Cassano a Guastalla, da Mozzanica a Bozzolo, sull'isola Fulcheria, sullo stato Pelavicino fra Parma e Piacenza, possedendo trecento ville e parrochie.

Di là dal Po, Alessandria al confluente della Bòrmida e del Tanaro, rammentava sempre le proprie origini; sulla Scrivia fioriva Tortona; sulle due rive del Mincio e del Po da Asola fin al Mirandola sanavasi per via di argini e di colmate il territorio di Mantova, allora più bella che forte. Verona fu sempre tenuta in gran conto dai dominatori forestieri, perchè signoriando dal territorio di Roveredo fin nel Polesine di Rovigo, schiudeva i passi dalle gole Trentine fino alla pianura circumpadana. Allo sbocco delle valli Alpine e tra l'Adige, la Piave, il Tagliamento 6 cresceano Bassano, Treviso, Vicenza, Padova: a Udine il patriarca, signore del Friuli e dell'Istria, colla sua potenza, non seconda che al papa, aveva impedito si formassero i Comuni, stabilendo invece una feudalità ecclesiastica con parlamento, cioè riunendo le forze sociali che altrove restavano spicciolate.

L'antica Gallia cispadana, fra il Po, gli Apennini, la Trebbia e il Reno, era divisa tra Piacenza sulla Trebbia, Parma, Reggio, Modena che si spingeva fin presso al piccol Reno. A Ferrara si aggregava gran parte de' paesi abbracciati dai varj rami del gran fiume dove pigramente scende all'Adriatico. Tante città, e l'una accosto all' altra! eppure all'aura della legale e consentita libertà seppero compiere imprese, cui appena basterebbero estesi principati.

Dapertutto, ma singolarmente ne' territorj montuosi, eransi conservati o sorti castellani, signori assoluti ciascuno nella propria terra, e amici, nemici, alleati fra loro o colle città vicine come con Stati indipendenti. A piè dell'alpi Cozie prepoteano i Saluzzo, i Masino, i Balbo tra le repubbliche d'Asti e di Chieri, e una serie di castellotti annidava i signori della val d'Aosta. Nelle Retiche a Trento sedeva un duca longobardo, che dominava a settentrione fin a Mezzolombardo, segnando il confine germanico Mezzotedesco che gli sta a fronte; a mezzogiorno abbracciava la val Lagarina, ma non la val Sugana, annessa al distretto di Feltre. Sotto i Carolingi or formò contado distinto, or pare unito a Verona: ma gli imperatori tedeschi procurarono toglierlo all'Italia, investendone i vescovi, e unendone così le sorti a quelle di Bolzano, sede d'un graf tedesco. I vescovi ebbero dipendenti ma spesso contumaci i conti del castello Tirolo, che poi diede nome a tutto il paese: e dopo che Federico II mandò a tiranneggiare Trento il podestà Lazzaro da Lucca e l'odiato Rodegerio da Tito, il vescovo Engone sollevò le giudicarie, e lunga guerra ne seguì tra i guelfi di Lizzana, Madruzzo, Vigolo, Brenta, e i ghibellini d'Arco, Pergine, Campo, Levico: Trento era sbranata fra i partiti, e ne ingrandirono i conti di Tirolo, imparentati cogli Svevi e cogli Absburgesi, i quali infine ne divennero signori 7.

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