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come è intimay la guerra: il che, oltre che sia fuor di proposito, pare ancor ordine strano; poichè si suole intimar la guerra prima, e poi tarla, ed or pensiamo intimarla quando già è stata fatta tanti mesi, che o per vittoria, o per altre vie converrebbe averla come finita. Sicchè io insin qui sono di opinione di non farlo, e attendere più presto a quel che mi commette nostro signore, e la ragione mi persuade che sia bene, che a quello che mi commette vostra signoria, e la ragione mi persuade che sia male. Pur io ragionerò con quest'altri signori ambasciatori, e discuteremo ben la cosa, e forse udendo ragione che mi convinca, muterommi di fantasia.

Del trattar la pace in nome del papa e di Cesare costi in corte del cristianissimo non saprei che dire (1). Parmi ben più onorevole per sua santità trattarla in Roma, dove è il podere per parte dell' imperatore, nè so con che colore si potesse rimettere cosa di tanta importanza nel modo che vostra signoria scrive. Pur forse piacerà così a nostro signore; e pur che succeda questo tanto bene della pace, succeda per mano di chi si sia, e di che modo si voglia.

Avendo scritto insin qui, e parlato coll'amba sciator di Venezia, il quale ha il medesimo dal suo secretario che vostra signoria scrive (2), sono

(1) Nel poscritto alla lettera quinta, a pag. 472, si può ve dere quel che pensasse il conte circa questa proposizione del nunzio Acciaiuoli,

(2) Il segretario di Venezia alla corte di Francia era Andrea Rosso, mandatovi, come scrive il Guicciardini lib. XVI, pag. 488, straordinariamente dalla Signoria, affine di sollecitare il re Francesco alla pronta esecuzione de'capitoli, Giovan Battista Sanga, che si trovava anch'esso a quella corte, spe ditovi dal pontefice per il medesimo effetto, in una sua lettera a monsignor Datario tra quelle de'principi lib. 2, pag. 4,

tante

stato lungamente coll'ambasciatore di Francia, il quale mi ha levato di grandissima molestia e di quella confusione, ch'io di sopra ho detto aver nell'animo; perchè mi dice non aver commissione alcuna del suo re circa questa intimazione, di che vostra siguoria mi scrive tanto efficacemente, e al che io ho risposto con parole e se al principio io lo avessi saputo non era bisogno ch'io pigliassi fatica di scrivere così lunga lettera nè a vostra signoria il fastidio di leggerla. Pregola a perdonarmi, e pigliar io buona parte tutto quello che le scrivo, perchè mio costume è di dire liberamente le cose, e parmi che così si debba fare, e massimamente quando importa: e sempre riceverò io grazia, quando vostra signoria userà il medesimo modo

meco.

Ho veduto le proprie lettere del cristianissimo al suo ambasciatore qui, nelle quali non solamente non è menzione alcuna di questa intimazione, ma pur non vi è una parola per risposta di quanto si scrisse circa al voler trattar particolarmente qui l'articolo della restituzione dei figliuoli di sua maestà, sicchè vosťra signoria consideri e commenti bene ciò che significa

fa grandi encomi dell' attività ed esperienza di questo sog. getto dicendo: E' qui il signor ambasciator tanto solleci to, quanto sia possibile, e parimente il secretario della illustrissima Signoria diligente, che più non potria essere, ed amendue espertissimi della natura delle cose di qua, che mai non cessano di sollecitare, e vedo anco l'effetto della diligenza loro. E alla pag. 6. Il secretario di Venezia, quale è veramente nomo d'assai, e altissimo a negoziare in que sta corte, poichè è veemente e gagliardo quanto ricerca il bisogno, fece quella sera buon officio con qualcuno dei signori del consiglio. L'ambasciatore veneziano poi accennato dal Sanga era Bastian Giustiniano; del cui merito veggasi il Parnta nel quinto libro della sua Storia, e tra gli Sto. rici delle cose de Veneziani, tom, 3, pag. 441 e 556.

questo per dichiarare la mente del cristianissimo, e se possiamo credere che sua maestà avesse intenzione di rompère in Navarra. Le cose ancora, che questo medesimo gentiluomo, che ora ritorna, ha portate d'Inghilterra fanno buon testimonio, che se la intimazione si facesse, più presto basterebbe per farci perdere quel re che guadagnarlo: il che ancora ci dimostrò chiaramente il suo ambasciatore qui, quando si fece la richiesta della restituzion de'figliuoli del cristianissimo con la prima parte del capitolo della lega; ed era di parere che non si facesse così gagliardamente, come si fece; tantochè non solamente lo contraddisse, ma se ne turbò. Nè altro occorrendomi, a vostra signoria sempre mi raccomando.

Di Granata alli II di dicembre MDXXVI.

VII.

A papa Clemente VII.

Con le lettere del vescovo di Pistoia (1) dei

5 di settembre, nelle quali mi s'avvisa della giunta dell'uomo mio a Roma, ho ancora una della santità vostra de' 20 d'agosto, la qual mi ha molto accresciuto il mio infinito dispiacere, vedendo, che quella cosa che solo m'era restata per consolarmi, mi manca insieme con tutte l'altre ed è, che fra tanti miei travagli io pensava che la santità vostra fosse soddisfatta dei miei servizii, e sapesse quello che insino le pietre sauno in Ispagna. Ora vedendo il contrario, sento che cordoglio sia il patire e non l'aver

(1) Il vescovo di Pistoia era Antonio Pucci Fiorentino, che fu poi cardinale, e penitenzier maggiore.

meritato; e perchè i successi seguiti fanno, che non sia necessario rispondere particolarmente a tutta la sopraddetta lettera, lascerò quella parte che appartiene agli affanni di vostra santità: i quali ancora che per altro io non sapessi quanto sien grandi, lo posso comprendere per quello che in me n'è redundato, e gli tengo per tanto gravi, che appena credo che senz'aiuto di Dio creatura umana bastasse per tollerarli. Non dirò ancor delle giuste querele di vostra beatitudine, e come indegnamente e perfidamente sia stata oppressa, e quanta obbligazione abbia Cesare di darle rimedio, in quanto a Dio e in quanto al mondo. E perchè tutte le cose contenute nella detta lettera mi sono notissime prima che óra, infinite volte le ho dette e dicole ogni dì all'imperatore e a tutti gli altri, non mi par già di poter lasciar di risponder a quella parte dove si mostra, che la santità vostra crede che questi disordini sieno passati con molta colpa mia, per essermi fidato troppo, con prometter largamente della volontà dell'imperatore, e che Borbone avesse ad osservar quello che il vicerè prometteva, e che dopo il caso io così ne' rimedii come nello scrivere abbia usata imprudenza e negligenza. E veramente, padre beatissimo, la riverenza che io debbo a' suoi santissimi piedi, mi persuade a tacere e conformarmi totalmente col giudicio suo ancor in quelle cose che fosser di biasimo e carico mio, senza darle in questi tempi molestia di legger le mie scusazioni; le quali par che mal si possan fare senza quasi una maniera di contraddire: il che non conviene alla mia umil servitù verso la santità vostra. D'altra parte la couscienza mia mi sforza tanto a discolparmi di quello che non solamente mi persuadeva esser notissimo per l'opere, ma

di meritarne laude e premio, che non posso resisterle: ed è forza ch'io, per l'estremo dispia cere che ne sento, dica ch'io non credo delle cose soprascritte meritar quel biasimo che mi si dà per la lettera sua: la quale, ancorchè io riceva per singolar grazia che sia scritta in nome proprio di vostra beatitudine e non d'altri, come si suole (1), pur, al parer mio, porta seco più castigo che favore, e non piccolo freno a supprimere molte mie giustificazioni. Però, per escusarmi dell'aver creduto troppo della buona mente dell'imperatore, io non dirò altro, che le parole formali le quali sono nella medesima lettera scritta in nome di vostra santità, cioè che, ancorchè i fatti del vicerè fossero dissimili alle parole del generale (2), nondimeno il generale giurava e affermava di modo quello che da parte di sua maestà offeriva che ad un tal principe sarebbe stato gravissimo errore non prestar fede. E appresso, ch'una lettera portata per il signor Cesare Feramosca spense ogni dubbio dell'animo di vostra santità: e che se il Turco le avesse mandato a dir quelle parole, ella gli avrebbe prestato fede. Oltre a quello che portò per lettere di man propria e a bocca messer Paolo d' Arezzo (3) e che fu conferinato per li mandati pubblici; di sorte, che se le parole del generale e del signor Cesare Feramosca e delle lettere di mano propria del vicerè meritarono

(1) Per lo più le lettere di stato si scrivevano da'ministri del papa in nome proprio, come si vede nella raccolta delle lettere di principi in quelle del Giberti, del Salviati e dell'arcivescovo di Capua.

(2) Era questi, come si disse, il padre Francesco Angelice, generale de'francescani, venuto di Spagna con commissioni dell' imperadore al pontefice.

(3) Cameriere del papa mandato al re di Francia, poi all'imperadore in Ispagna.

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