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Frisio; di modo che sempre poeti, musici, e d'ogni sorte omini piacevoli, e li più eccellenti in ogni facultà che in Italia si trovassino, vi concorrevano.

VI. Avendo adunque papa Julio II con la presenzia sua e con l'aiuto de' Franzesi ridutto Bologna alla obedienza della sede apostolica nell'anno MDVI, e ritornando verso Roma, passò per Urbino; dove quanto era possibile onoratamente, e con quel più magnifico e splendido apparato che si avesse potuto fare in qualsivoglia altra 5 nobil città d'Italia, fu ricevuto di modo che, oltre al papa, tutti i signor cardinali ed altri cortegiani restarono summamente satisfatti; e furono alcuni, i quali, tratti dalla dolcezza di questa compagnia, partendo il papa e la corte, restarono per molti giorni ad Urbino; nel qual tempo non solamente si continuava nell'usato stile delle 10

21. Poeti. Si devono annoverare, anzitutto, il Bembo e il Castiglione, po. scia l'Accolti, e, come letterati e, all'oc correnza, versificatori, il Calmeta, il Bibbiena, Ottaviano Fregoso, Cesare Gonzaga, Giuliano de' Medici. - Musici. Più specialmente valenti nella musica erano, tra i frequentatori della Corte urbinate, il Terpandro, Morello de' Rizzardi, Giancristoforo romano; e se ne dilettavano, più o meno, tutti gli altri, da buoni cortigiani, come il Castiglione e il cugino suo Cesare Gonzaga.

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Omini piacevoli: cioè bufoni, dei quali, come si vedrà, il C. era tutt'altro che tenero. Tuttavia egli, ossequente alla realtà storica, introdusse in questi ragionamenti uno di siffatti uomini, fra Serafino.

VI. 1. Avendo adunque papa Jullo II ecc. Giulio II, dopo aver benedetta la prima pietra della Basilica Vaticana e letta ad alta voce l'antifona in viam pucis (!), mosse da Roma il 27 agosto 1506 seguito dai suoi cardinali e da tutta la prelatura cortigiana e da 3000 cavalli, alla testa d'un esercito che andò ingrossando per via. Il 25 settembre entrava in Urbino e la gente mirava stupita quel papa di 64 anni che anelava battaglie, come un vecchio guerriero. Dopo aver compiuta l'impresa di Bologna, cioè ridotta, a suo modo, quella città alla obedienza della sede apostolica, se ne partiva il 22 febbrajo del 1507 e circa un mese dopo, il 28 di marzo, faceva il suo ingresso trionfale in Roma. Ma anche nel ritorno fece una sosta in Urbino, dove entrò festeggiatissimo il 3 di marzo a mezzogiorno, in compagnia di quel Duca, e dove si trattenne sino al 7, nel qual giorno mosse

alla volta di Foligno. Per particolari notizie sulle vicende di questo viaggio di papa Giulio è da vedere la pubblica. zione di L. Frati, Le due spedizioni militari di Giulio II, tratte dal Diario di Paride de Grassi ecc., Bologna, 1985; il Gozzadini, Di alcuni avvenimenti in Bologna e nell'Emilia dal 1506 al 1511 negli Atti e mem. d. Deputaz. di St. patria per le prov. di Romagna, S. III, vol. IV, 1836, pp. 67-176; ma sovrattutto i Diarti di Marin Sanudo (t. VI coll. 394 sgg. e t. VII, coll. 23 sgg.) e Pastor, Geschichte der Päpste, vol. III, lib. III, cap. III. Questa spedizione di Giulio II, che era detta l'impresa di Bologna, fu narrata in versi latini dal cardinale Adriano da Corneto, nel Iter Julii Pont. Rom., che si può leggere ristampato dal Roscoe, Vita e pontificato di Leone X, trad. Bossi, t. IV, pp.257-62. Secondo un Diario sincrono, pubbl. nell'Archivio p. le Marche ecc., vol. III, 1886, p. 458, Giulio II avrebbe sostato in Urbino due giorni soltanto, cioè dal 3 al 5 di marzo. In esso infatti leggiamo: << Alli 3 marzo venne il Papa a Urbino, entrò di mercore a ore 23; erano seco 12 cardinali... Alli 5 parti e fu di venere la mattina, fra le 13 e le 14. Andò ad alloggiare a Cagli, e rimasero in Urbino i cardinali di Mantova, Narbona, Aragona e S. Pietro in Vincola». Ciò è confermato da una lettera che Giovanni Gonzaga scriveva da Urbino al Marchese di Mantova il 5 marzo e da una lettera del Cardinal d'Aragona allo stesso Marchese, scritta il medesimo giorno; dalle quali apparisce come anche in tutti questi particolari il C. sia stato fedele alla verità storica.

5. Si avesse ecc. Più corretto: si fosse.

feste e piaceri ordinarii, ma ognuno si sforzava d'accrescere qualche cosa, e massimamente nei giochi, ai quali quasi ogni sera s'attendeva. E l'ordine d'essi era tale, che, subito giunti alla presenzia della signora Duchessa, ognuno si ponca a sedere a piacer suo, o come la 15 sorte portava, in cerchio; ed erano sedendo divisi un omo ed una donna, fin che donne v'erano, ché quasi sempre il numero degli omini era molto maggiore; poi, come alla signora Duchessa pareva si governavano, la quale per lo più delle volte ne lasciava il carico alla signora Emilia. Cosi il giorno apresso la partita del papa, essendo 20 all'ora usata ridutta la compagnia al solito loco, dopo molti piacevoli ragionamenti la signora DUCHESSA volse pur che la signora EMILIA cominciasse i giochi; ed essa, dopo l'aver alquanto rifiutato tal'impresa, cosi disse: Signora mia, poiché pur a voi piace ch'io sia quella che dia principio ai giochi di questa sera, non possendo ra25 gionevolmente mancar d'obedirvi, delibero proporre un gioco, del qual penso dover aver poco biasimo e men fatica: e questo sarà, che ognun proponga secondo il parer suo un gioco non più fatto; da poi si eleggerà quello che parerà esser più degno di celebrarsi in questa compagnia. E cosi dicendo, si rivolse al signor GASPar Palla30 VICINO, imponendogli che 'l suo dicesse; il qual subito rispose: A voi tocca, signora, dir prima il vostro. Disse la signora EMILIA : Eccovi ch' io l'ho detto, ma voi, signora Duchessa, comandategli ch' e' sia obediente. Allor la signora DUCHESSA ridendo, Acció, disse, che ognuno v'abbia ad obedire, vi faccio mia locotenente, e 35 vi do tutta la mia autorità.

VII. Gran cosa è pur, rispose il signor GASPAR, che sempre alle donne sia licito aver questa esenzione di fatiche, e certo ragion saia volerne in ogni modo intender la cagione; ma per non essere io quello che dia principio a disubedire, lassarò questo ad un altro 5 tempo, e dirò quello che mi tocca; e cominciò: A me pare, che gli animi nostri, si come nel resto, cosi ancor nell'amare siano di giudicio diversi: e perciò spesso interviene, che quello che all'uno

11. Accrescere qualche cosa. Nel significato, poco frequente, di aggiungere. I vocabolari citano un esempio tratto dalle rime del Menzini: «Io cedo ed esco Di questo arringo; e la tropp'alta inchiesta Lascio, ed altre parole io non vi accresco». Dove abbiamo quasi l'appulcrare dantesco con una sfumatura di significato che s'adatterebbe al passo del C.

13. E l'ordine d'essi era tale ecc. Cosi nella brigata del Decameron : « e quivi, sentendo un soave venticello venire, siccome volle la lor Reina, tutti sopra la verde erba si puosero in cerchio a sedere. Giova a tale riguardo avvertire

come il C., in una redazione primitiva, si fosse tenuto più stretto al modello del Boccaccio, fingendo che ogni sera si creasse un novo re o regina, il quale nel dipartirsi renunziava il domino a chi più gli piaceva ».

18. Per lo plú delle volte. Più comune il più delle volte o, senz'altro, « per lo più » e, nel Boccaccio, più semplicemente ancora, le più volte ».

25. Celebrarsi. Essere eseguito: insolito, detto d'un gioco non pubblico, né solenne.

VII. 6. Siano di giudicio diversi, giudichino diversamente.

è gratissimo, all'altro sia odiosissimo; ma con tutto questo, sempre però si concordano in aver ciascuno carissima la cosa amata; talmente che spesso la troppo affezion degli amanti di modo inganna 10 il lor giudicio, che estiman quella persona che amano esser sola al mondo ornata d'ogni eccellente virtù, e senza difetto alcuno; ma perché la natura umana non ammette queste cosí compite perfezioni, nė si trova persona a cui qualche cosa non manchi, non si po dire che questi tali non s'ingannino, e che lo amante non divenga cieco 15 circa la cosa amata. Vorrei adunque che questa sera il gioco nostro fusse, che ciascuno dicesse, di che virtú precipuamente vorrebbe che fusse ornata quella persona ch'egli ama; e, poiché cosi è necessario che tutti abbiano qualche macchia, qual vizio ancor vorrebbe che in essa fusse per veder chi saprà ritrovar più lodevoli ed utili virtú, 20 e più escusabili vizii, e meno a chi ama nocivi ed a chi è amato. Avendo cosí detto il signor GASPAR, fece segno la signora EMILIA a madonna COSTANZA FREGOSA, per esser in ordine vicina, che seguitasse, la qual già s'apparecchiava a dire; ma la signora DUCHESSA subito disse: Poiché madonna Emilia non vole affaticarsi in trovar 25 gioco alcuno, sarebbe pur ragione che l'altre donne partecipassino di questa commodità, ed esse ancor fussino esenti di tal fatica per questa sera, essendoci massimamente tanti omini, che non è periculo che manchin giochi. Cosi faremo, rispose la signora EMILIA; ed imponendo silenzio a madonna COSTANZA, si volse a messer CE- 30 SARE GONZAGA che le sedeva a canto, e gli comandò che parlasse: ed esso cosi cominciò:

VIII. Chi vol con diligenzia considerar tutte le nostre azioni, trova sempre in esse varii difetti; e ciò procede perché la natura, cosi in questo come nell'altre cose varia, ad uno ha dato lume di ragione in una cosa, ad un altro in un'altra: però interviene, che sapendo l'un quello che l'altro non sa, ed essendo ignorante di quello 5 che l'altro intende, ciascun conosce facilmente l'error del compagno

10. La troppo affezion ecc. Quest'uso del troppo in funzione avverbiale, non accordantesi quindi nel genere col sostantivo che segue, è un arcaismo che il C. difficilmente avrebbe potuto giustificare con i criteri linguistici da lui espressi nella cit. Lett. dedicat.

11. Che estiman quella persona ecc. Sentimento comunissimo, appunto perché vero e che fu espresso dai poeti di tutti i tempi e di tutti i paesi. Ma forse esso non trovò mai un'espressione cosi perfetta e profonda come nel petrarchesco... colei che sola a me par donna », un accento, che al Bartoli (Storia d. lett. ital.: VII, 235-6) parve ben a ragione contenere in sé tutto un poema d'amore ».

19. Macchia. In significato prossimo all'etimologico (macula), cioè di piccolo, lieve difetto. Orazio cosi esprimeva (Satir. I, 111, 68-9) questo concetto volgare: << Nam vitiis nemo sine nascitur; optimus ille est, Qui minimis urgetur ».

23. In ordine ecc. Cioè, secondo l'ordine dei posti scelti o assegnati alla compagnia, madonna Costanza sedeva fra il Pallavicino e il Gonzaga.

VIII. 6. Ciascun conosce ecc. Vecchia sentenza, che troviamo espressa in forme svariatissime nei proverbi di tutti i popoli. Anche l'arguto Orazio, ben noto al nostro A.. scriveva: Stultus et improbus hic amor est dignusque notari,

e non il suo, ed a tutti ci par esser molto savii, e forse più in quello in che più siamo pazzi; per la qual cosa abbiam veduto in questa casa esser occorso, che molti i quali al principio sono stati reputati 10 savissimi, con processo di tempo si sono conosciuti pazzissimi: il che d'altro non è proceduto, che dalla nostra diligenzia. Ché, come si dice che in Puglia circa gli atarantati s'adoprano molti instrumenti

Cum tua pervideas oculis mala lippus inunctis, Cur in amicorum vitiis tam cernis acutum, Quam aut aquila aut serpens Epidaurius? (Satir. I, I, 21-7). E Petronio: In alio pediculum, in te ricinum non vides» (Sat. 37).

7. Ed a tutti ci par esser molto savil ecc. Anzi la moderna frenologia ha sperimentato che negli stessi manicomi il pazzo, come la maggior parte degli uomini, si crede savio, ma ammette benissimo che gli altri rinchiusi sieno pazzi.

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11. Come si dice che in Puglia ecc. Ma non in Puglia soltanto si credeva e si crede tuttora nella efficacia del ballo e della musica per curare gli atarantati o tarantolati, cioè i morsicati dalla tarantola ragno della specie detta cosa tarantula, o tarantula Apuliae che derivò il suo nome da Taranto e lo diede al noto ballo detto tarantella. A questo fatto alludeva già Senofonte nei Detti memorabili di Socrate (lib. I, cap. III), dove Socrate rassomiglia gli effetti del bacio dato a una bella persona, a quelli delle tarantole (pańúyyia), le quali, solo che si appressino alla bocca, straziano gli uomini con dolori o li fanno uscire di senno e consiglia a Senofonte, per guarirne, di viaggiare per tutto un anno, e forse appena in tanto tempo potrai di questo morso risanare. Qui di musica non si fa parola, ma è noto quanto fosse diffusa nell'antichità la credenza nelle virtú miracolose della musica, come si legge anche nel Toscanello in musica di messer Pietro Aron fiorentino (In fine: In Vinegia per maestro Bernardino et mae. stro De Vitali venitiani al di v Juli mille Cinquecentoxxix), dove è detto: Che sia giovevole [la musica] e salutifera a l'infermità corporali, queste memorie in fra le altre ne abbiamo: Xenocrate con l'organica modulazione liberava i spiritati, Asclepiade col canto de le trombe a sordissimi l'audito, con altra symphonia a frenetichi la mente restituiva ecc. ». (Cfr. C. Colomb, La musique, Paris, 1878, capp. xx, xxII). Nel dialogo Antonius il Pontano riferisce, in latino, un curioso carmen, che si cantava nella Puglia « ad sanandum ra

bidae canis morsum »; e ci offre un accenno, più notevole anche perché più preciso, agli atarautati: < Etenim caeteros quidem homines cum nulli non stulti essent, vix stultitiae suae ullam satis honestam afferre causam posse; Apulos vero solos, paratissimam habere insaniae excusandae rationem Araneum illum scilicet, quem Tarantulam nomi. nant, cuius ammorsu insaniant homines, idque esse quam felicissimum; quod ubi quis vellet, insaniae quem suae fructum cuperet, etiam honeste caperet ». Quando il C. scriveva, l'imagine degli atarantati era passata già nella poesia cortigiana, e forse egli ricordava un sonetto di Seratino Aquilano, il quale, in una adunanza di vaghe giovinette s'era rassomigliato, indefesso nel ballare, all'uomo morso dalla tarantola, che trova ristoro soltanto nel girare vertiginoso (Cfr. D'Ancona, Del secentismo nella poesia cortigiana del sec. XV, negli Studj sulla Lett. it. de' primi secoli, Ancona, 1884, p. 208); e forse un altro sonetto, udito o letto alla Corte sforzesca, di Gaspare Visconti, intitolato Comparacione delli Intarantolati, che si può leggere nel fogl. 46 della Raccolta milanese (1756). In quei medesimi anni Antonio de Ferrariis, detto il Galateo, nel trattatello latino Della gotta (Opusc. vol. II, 261) scriveva: « Aracnei Appuli (tarantola) venenum tympanis et phistulis pellitur». Ma su questo argomento v'è tutta una letteratura svariata, che sarebbe troppo lungo richiamare in una nota. Ricorderò solo il curioso dialogo 8' della Easy Phraseology (1775) di Giuseppe Baretti e gli articoli usciti nella Rassegna settimanale, vol. VIII, 1881, uno dei quali di Aless. Ademollo. L'uso, accennato dal C., che è l'effetto d'un pregiudizio, sopravvive ancor oggi nelle Puglie (V. Gregorovius, Nelle Puglie, vers. di R. Mariano, Firenze, Barbèra, 1882, p. 448) e in Terra d'Otranto, e nella Sardegna, dove esistono delle canzonette speciali pro s'arza (V. nell'Archivio p. le tradiz. popol. del Pitrè, vol. IV, p. 234; vol. VII, pp. 344-9 e La Marmora, Voyage en Sardaigne, 2o éd., To. rino, 1839, vol. I, pp. 178-9 e 189).

di musica, e con varii suoni si va investigando, fin che quello umore che fa la infirmità, per una certa convenienzia ch'egli ha con alcuno di quei suoni, sentendolo, subito si move, e tanto agita lo infermo, 15 che per quella agitazion si riduce a sanità: cosi noi, quando abbiamo sentito qualche nascosa virtú di pazzia, tanto suttilmente e con tante ? varie persuasioni l'abbiamo stimulata e con si diversi modi, che pur al fin inteso abbiamo dove tendeva; poi, conosciuto lo umore, cosí ben l'abbiam agitato, che sempre s'è ridutto a perfezion di publica 20 pazzia e chi è riuscito pazzo in versi, chi in musica, chi in amore, chi in danzare, chi in far moresche, chi in cavalcare, chi in giocar

14. Una certa convenienzia. Conformità e quasi consonanza. A questa « convenienzia alludeva Jacopo Soldani nel principio della Sat. III, cantando: «Vedesi in Puglia, che i tarantolati, Come che tutti al concento salubre Commossi a saltellar, restin sanati, Non guariscon però tutti al lugubre O al contrario suon: quel ch'all'umore Giova dell'un, a quell'altro è insalubre ».

22. Moresche. Sorta di ballo, spesso assai complicato e grandioso, e accompagnato da musica, che usava frequente nelle feste delle corti nostre dalla seconda metà del secolo xv al principio del xvi, e di solito serviva come intromessa o intermezzo nelle rappresentazioni teatrali, specialmente di carattere mitologico pastorale, dunque un intermezzo coreografico-musicale. Cosi, una didascalia apposta in margine alla st. LIV (penultima) del Tirsi (la pastorale del nostro C., rappresentata nel carnevale del 1506 alla Corte urbinate) avvertiva: « Qui s'interpone una moresca». Questa pantomima alternata con musica e danza, provenutaci dall' Oriente, per l'intermediario della Spagna e di Napoli (cfr. Croce, La corte spagnuola d'Alfonso d'Aragona a Napoli, Napoli, 1894, p. 12), fu anche detto « ballo di Etiopia e forse fu eseguito dapprima dalle zingare (Cfr. una bella nota di E. Lovarini premessa ad una zingaresca da lui riprodotta nelle Canzoni antiche del popolo ital., Roma, 1891, pp. 142-3). Come esempio di tali spettacoli, invece della descrizione lasciataci dal C. di quelle eseguite in Urbino il 6 febbr. 1306 come intromesse alla prima rappresentazione della Calandria, recitata con Prologo del C. stesso (descrizione che può leggersi nelle sue Lettere, I, 158), preferisco riprodurre parte d'una lunga e curiosa lettera inviata da Roma, il primo di Quaresima del 1521, nella quale il Nostro descrive al marchese Federico

Gonzaga, suo Signore, una moresca < assai bella, eseguitasi alla presenza di Leone X, in quell'ultimo carnevale goduto dal papa Mediceo: La dominica di sera in Castello li Sanesi fecero una moresca nel cortile assai hella, la quale fu di questa sorte, che poi che fu notte li morescanti, che erano otto giovani Sanesi, vennero in Castello accompagnati da circa 50 servitori tutti in giuppone di raso e calze ad una certa loro livrea e gran torze in mano. E cosi se misero nel cortile del Castello et allargorno uno pavaglione di raso berrettino, sotto il quale erano li morescanti. Il Papa stava con molti altri Signori alle finestre che rispondono sopra il cortile. La moresca fu di questa sorte, che prima usci una donna, la quale con certe stanzie in octava rima pregó Venere che li volesse dare uno amante degno, e cosi detto se ne tornò; di poi a suono di tamburino cominciò dal pavaglione uscire la moresca, che era otto eremiti, i quali, in abito griso ballando se menavano in meggio incatenato uno Amore, et cosi poi che ebbero ballato un poco, si fermorno e cominciorno a parlare, e dissero che questo era quell'inimico del mondo, che faceva tutti e mali, e però lo voleano castigare: et qui ognuno col suo bastone ballando cominciorno a darli e lui ballando a parare con la faretra, perché quelli eremiti gli avevano tolto l'arco. Ballato alquanto, questo Amore s'inginocchio e fece una orazione a Venere, sua matre, pregandola che lo liberasse dalle mani di costoro e cosi fece per due volte. In ultimo comparse Venere, la quale mandò quella donna che l'avea pregata che li desse lo amante degno, per vedere d'ingannare questi eremiti; et essa accostatasi a loro, loro diede a bere un certo liquore che li fece dormire. E cosi poi subito scatenò Amore, e li rese l'arco e li strali e tutti li suoi ordegni: onde

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