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DIZIONARIETTO BIOGRAFICO

Accolti Bernardo. È più noto col so• prannome. che era insieme nome di battaglia, di Unico Aretino, col quale ei viene presentato e designato sempre dall' A. nel Cortegiano. Figlio di Bene detto, noto anch'esso. ma come lettore li diritto, e nella storia letteraria come storico ed umanista, ereditò quasi da Serafino Aquilano lo scettro della poesia estemporanea e riempi della sua fama clamorosa la fine del sec. xv e il principio del Cinquecento: degno continua tore di quella lirica cortigiana lambiccata, luccicante ed arguta e vacuamente sonora. che bene meritò l'epiteto di secentista e fu egregiamente studiata dal D'Ancona. Del secentismo nella poesia cortigiana del sec. XV, negli Studi sulla letterat. itul. dei primi secoli, Ancona, 1884; per l'Accolti, pp. 217-8). La sua vita. svoltasi fra il 1458 e il 1535, dopo trascorsa la prima giovinezza in Firenze dove il padre suo era cancelliere della Signoria, fu, durante un lungo periodo, una specie di vagabondaggio poetico e un po' anche ciarlatanesco; cosicche lo troviamo brillare, accarezzato e applaudito a gara nei più geniali ritrovi, nelle corti di Milano, di Urbino, di Mantova, di Na poli, di Ferrara e specialmente in Roma, a tempo di Giulio II e di Leone X, dal quale ottenne benefici ecclesiastici. Almeno sino dal 1502 ebbe l'ufficio di scrittore apostolico e di abbreviatore; e nel sett. 1521 fu nominato governatore - perpetuo di Nepi. Veramente alla sua fortuna più che la poesia, contribui poi il fratello suo Pietro, che nel marzo 1511 fu eletto cardinale. Rimatore copioso e sciatto, petrarcheggiò dapprima nella forma del sonetto e del madrigale, ma poi preferi lo strambotto. La sua Virgi

nia, detta da lui commedia •, è una po vera riduzione in ottava rima della no. vella boccaccesca di Giletta di Narbona (Decam. III, 9). con inserzione d'un capitolo ternario. Bravo a menar le mani come uno staffiere, era anche capace di macchiarsele di sangue, come un contemporaneo di Cesare Borgia e del Duca Francesco Maria d'Urbino. I documenti che in buon numero hanno veduta la luce recentemente. a cura del Luzio e del Renier (La famiglia di P. Aretino, nel Giorn. stor. d. Lett. it. IV. 381-1 e n.; I precettori d' Isabella d' Este, Ancona, 1887. pp. 65-8: Federico Gonzaga ostag gio alla Corte di Giulio II, Roma, 1887. p. 35. estr. dal vol. IX dell' Arch. d. Soc. rom. di st. p.; Mantova e Urbino, Torino, 1893. pp. 258-70; La coltura e le relaz. letter. d'Isabella d'Este, cit.. pp. 364-5. da Vitt. Rossi. Pasquinate di P. Aretino, Palermo, 1891, pp. 112-3 e 118) e del Cian (Un decennio della vita di P. Bembo, Torino. 1885, p. 236; Fra Serafino buffone, Milano, 1891, estr. dall' Arch. stor. lomb., p. 9), riprodotti e illustrati con qualche aggiunta dalla sig. Elvira Guarnera. in una monografia (Bern. Accolli, Saggio biograf. crit., Palermo, 1901) utile, ma prolissa e ver bosa, non solo hanno permesso di rico. struire, per l'ultimo trentennio circa, la vita di questo fortunato rimatore aretino, ma dimostrano essere piena mente conforme alla realtà storica la rappresentazione che di lui fece il C. nel Cortegiano, sovrattutto nel lib. I, cap. x, e nel lib. III, cap. LVI. Vanitoso, sitibondo di lodi, gli applausi che riscoteva con la sua arte di improvvi satore, gli davano talmente alla testa, da indurlo a porre se stesso come terzo poeta, accanto a Dante e al Petrarca.

L'esagerato sentimento che aveva di sé, in così stridente contrasto col suo valore effettivo, riusciva comico, anzi grottesco. Nelle conversazioni del Cor. tegiano, come nei documenti sincroni. fra i quali è notevole una lettera del Bembo (Lettere, vol. I, lib. II, 9) egli appare uno spasimante iperbolico di duchesse e di grandi dame, un innamorato fatale incompreso, che la duchessa Elisabetta e la marchesa Isabella si dilettavano a canzonare; mentre egli, da disinvolto giullare, si acconciava alla parte di vittima cosi di sublimi amori, come di amabili beffe. Un bel ritratto di lui si vede nell'opera dell'Opdyke, p. 16, riprodotto dall' affresco del Vasari, in Palazzo Vecchio.

Arlosto Alfonso. Nella lettera dedicatoria a don Miguel de Silva (I, 31-7) 11 C. deplora la morte di lui, come di « gio. vane affabile, discreto. pieno di soavi simi costumi, ed atto ad ogni cosa conve. niente ad uomo di corte », tale modello, cioè, di cortigiania, che bene poteva il Cortegiano essergli« indrizzato ». Un proemio pubblicato già dal Serassi e poi riprodotto dal Di Vesme in appendice alla sua edizione fiorentina (Le Monnier, 1851, p. 307), e che appartiene alla redazione primitiva dell'opera, ci fornisce questa importante notizia, che il C. s'era indotto a scrivere il libro del perfetto Cortegiano " per le vive istanze fattegli dall' amico da parte del Re di Francia, quel medesimo che nel Cortegiano (I. XLII) aveva rammentato con lode quale Monsignor d'Angolem ⚫e futuro re dei Francesi e del quale, divenuto ormai Re Cristianissimo, esalta entusiasticamente nel detto proemio le virtú e la potenza, incitandolo alla Crociata contro il Turco. La composizione di quelle pagine a messer Alfonso deve cadere nel l'anno 1515, dopo il gennaio, quando il figlio di Carlo di Valois e Conte d'An

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1 Che l'Unico non fosse preso troppo sul serio e che egli stesso facesse talvolta il buffone, e quasi la parte buffonesca del millantatore megalomane e sentimentale, mi sembra confermato dalla lettera che il Picenardi scriveva da Urbino il 19 febbr. 1512, sovrattutto dal passo seguente: Lui [l' Unico] dice che à ad esser re perché suo fratello à ad esser papa, e con questo conforta vostra sorella la duchessa a ciò che la se habbia ad humiliare a lui et compiacendolo che la serà regina.... Ogni giorni lui va di bene in meglio cioè in stulticia». (Mantova e Urbino, p. 268).

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goulème, succedette sul trono di Francia a Luigi XII e non dopo il dicembre, non dopo il Congresso di Bologna, nel quale l'indegno mercato che Francesco I fece con Leone X del ducato d' Urbino, dovette intiepidire nel fedele cortigiano dei Signori rovereschi quei suoi entusiasmi francesi. Appunto in quel mese di dicembre egli, in occasione d'un'udien za, potè avvicinare, in Bologna, il vincitore di Marignano. Più tardi, appunto per queste ragioni di convenienza politica, il C. sostitui quel proemio con un altro, che il Serassi e il Di Vesme (p. 3126 pubblicarono come tratto dalla prima bozza » dell'opera, e nel quale si parla soltanto delle continue e lunghe preghiere dell'Ariosto; ma del desiderio del re francese non si fa più menzione. Da ultimo, morto l'Ariosto, il nuovo proemio diventò quello che nelle moderne edizioni è il primo capitolo del I libro, e al suo posto il C. inseri la lettera dedicatoria al De Silva.

Per darci ragione di tanto onore che egli tributo pubblicamente all'amico, della stima grande e del vivo affetto che traspaiono dalle parole ch'egli ebbe a consacrargli, gioverà dare qualche notizia della sua vita e delle sue relazioni con l'autore del Cortegiano.

Alfonso era figlio di Bonifacio d'Aldobrandino, quindi cugino in secondo grado del poeta del Furioso, come appare dall'albero genealogico degli Ariosti, pubblicato dal Frizzi nella Raccolta di opuscoli scientif, e letter, ecc., t. III, Ferrara, 1779, p. $3. Nato - verso il 1175 - e cresciuto all' ombra della Casa estense, ne fu uno dei famigliari più fidi, particolarmente caro al Duca Alfonso, che dei suoi servigì lo ricompensò anche con la donazione di alcuni poderi nel territorio di Lugo. Ma nella sua giovinezza passò qualche tempo a Milano, forse per ragioni di studio o di tiroci nio cavalleresco, forse a quella Corte sforzesca, dove è probabile si sia incontrato col giovine Baldassarre, col quale dovette stringere sin d'allora quell'amicizia affettuosa che durò poi tutta la vita. Tanto più probabile ciò, dacché due lettere di Alfonso (firmate, la prima, Alfonsus de Ariostis, la seconda, Alfonso de Ariosti), scritte da Milano il 7 d'agosto del 1496 e il 24 genn. 1498 ed esistenti nell' Archivio Gonzaga, ci mostrano il giovine ferrarese in relazione con la Corte di Mantova. Esse infatti sono dirette alla Marchesa Isabella. e rivelano una certa famigliarità, specialmente la prima, nella quale annuncia con suo vivo rammarico alla gen

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tile signora d'avere smarrito la lettera che essa gli aveva spedita per mezzo d'un cavalier mantovano, destinata, si noti, al Duca di Milano.

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Se l'era posta in seno per portarla e gli era caduta, ne, per quante ricer che avesse fatto, era riuscito a ritrovarla per forma (aggiungeva) ho voluto dare lanima al diavolo, dubitando non li sia cosa importi ».

Ritornatosene in patria, fu tutto dedito agli Estensi: il che è anche attestato esplicitamente da Agostino Mosti, nella preziosa Relazione pubbl. da Angelo Solerti (La rita ferrarese nella prima metà del sec. XVI descritta da A. Mosti, Bologna, Tip. Fava e Gavaguani, 1892, p. 9. estr, dagli Atti e Mem. d. r. Deputaz. di st. p. p. le Prov. di Romagna. S. III, vol. x), dove fra i « pochi gentiluomini molto famigliari » del Duca Alfonso e suoi commensali, è ricordato Mes. Alfonso Ariosti ».

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Il quale diede al suo signore una prova insigne della sua devozione, come attesta il poeta del Furioso (XL, 1)

nella battaglia della Polesella (22 dic. 1509), nella quale combatte valorosamente contro i Veneziani. Date le intime relazioni di parentela che la Corte di Ferrara aveva con quella di Mantova, e le relazioni del nostro C. con gli Estensi, sovrattutto col cardinale Ippolito (Corteg., I, XIV, 35), è naturale che fra il cavaliere ferrarese (con questo titolo di cavaliere lo menziona nel suo testamento il fratello Scipione) e i Gonzaga e messer Baldassarre si faresse sempre più viva consuetudine di servigi reciproci e d'amicizia. Di questa consuetudine e insieme dell'attività militare e diplomatica di Alfonso abbiamo documenti per l'anno 1509, in due lettere autografe (Arch. Gonzaga di Mantova, Cart. Stati Veneti) ch' egli scriveva il 5 e il 27 settembre alla Marchesa, dal « Campo imperiale », firmandosi indegnio

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alievo e servitor». per darle notizie della guerra. Ed è del 21 sett. 1520 una lettera della stessa Marchesa al Duca Alfonso suo fratello, nella quale si legge l'av vertenza seguente: « Le alligate mi sono state indrizate da messer Alfonso Ariosto. Si capisce pertanto come questi fosse noto ben presto ed ospite gradito anche alla Corte urbinate. Ma già sin dal periodo della vita ferrarese del Bembo 1

1 11 Bembo si serviva dell'amico, da Venezia e da Verona, per trasmettere le sue lettere a Lucrezia Borgia, alla quale, scrivendo il 22 settembre 1504, annunciava di

incominciò l'amicizia che con lui contrasse il letterato veneziano, interlocutore del Cortegiano, il quale più tardi, nel 1521, invitò l'Ariosto e l'amico Molza nella sua villa Bozza, in quel di Padova (Lett. del Bembo, ed. Classici. III, III, 14). Il primo documento a me noto dell' amicizia che legò il cavaliere ferrarese al mantovano, è relativamente tardo; è una lettera che Gian Jacopo Bardelone scriveva da Mantova il 28 novembre del 1513 al ., allora a Casatico, e con la quale gli accompagnava l'invio d'una del nostro messer Alphonso Ariosto . A questo porgeva occasioni frequenti d'allargare la cerchia delle sue amicizie e di rivedere i vecchi amici la fidncia del Duca Alfonso, che lo adoperava spesso come suo inviato in negoziati politici. Appunto in questa qualità lo ve diamo menzionato dal Guicciardini nelle sue lettere dalla Legazione d'Emilia per gli anni 1517 e 1520 (Opere, VII, 111, 223),

Tutto questo però non basta a spiegarci la dedica che il C. fece al cavaliere ferrarese; nel quale egli doveva trovare anche un amico fornito di coltura e di gusto letterario, che, all' occorrenza, poteva giovargli coi suoi consigli. Fatto sta che, quand'ebbe condotto a termine, in una redazione non ancora definitiva, il Cortegiano, ne affidò il manoscritto a lui. in Ferrara, dopo averlo sottoposto al giudizio del Bembo e del Sadoleto. Il 30 novembre del 1520. scrivendo da Roma alla madre, aggiungeva il poscritto seguente: « Scrivo la qui alligata a Messer Alphonso [Ariosto], pregandolo che 1 mandi el Cortegiano a V. S. perche lui lo ha nelle mani ». In altre due lettere alla madre, del 18 e del 19 dicembre, egli insisteva per riavere il libro che gli stava tanto a cuore ; onde madonna Aloigia si rivolgeva anche

attendere alla stampa degli Asolani a lei delicati, e parlandole con effusione galante, soggiungeva: Il presente apportatore Mes

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ser Alfonso Ariosto viene con sommo desiderio di fare a V. S. ria riverenza e di conoscerla, già acceso della fiamma che i raggi della vostra molta virtù gli ha nel petto appresi, sentendone ragionare altamente molte fiate, col quale in tali ragio<namenti consumai dolcissimamente lunghe ore; pur anzi guadagnai, ché tutte le altre spendo e consumo invano. Esso merita la « buona grazia di V. Sria si per questo e si perché è, nel vero, costumato giovane < e giudicioso assai, e quanto si può gen⚫ tile..... (Lettere, iv, 9; efr. anche Lett. Iv, 10).

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cosa, e per non pagare cosí con litere ringratiatorie, S. Ex.tia, como per quel la ancora vi schrissi non ho fatto tale heffecto de schriverli ma riportatomi alo hofitio vi pregai facesti in questo per me. et che son certo averete compitamente satisfato sel si po arrivarli, mi resta però un rimorso a la consientia che mi he forza con questa fare almen questo, di pregare voi che fatiate sapere a S. Ex.ia che resto tanto ben servito de dito stalon et che lo ho trovato tanto bon, bello et al proposito che non lo averia per la sorte saputo immagi nare meglio. et che non possendo pa

a messer Ludovico Da Bagno, il compare di Lodovico Ariosto e famigliare del Cardinale di Ferrara, al quale e al fratello Alessandro è indirizzata la Sat. II. E il 22 gennaio del 21 il Da Bagno rispondeva da Ferrara alla magnifica sua cugina e sorella honoranda madonna Aloysa da Castiglione »: « Non restarò di sollicitar Messer Alfonso Ariosto circa el libro de Messer Baldesera nostro, el quale, per quanto reparlando con dicto Messer Alfonso ho inteso, ancor non si trova: Duolmi per el dispia cere che so ne havera esso Messer Baldesarc.... Finalmente, dopo lunghe ri cerche, il libro fu ritrovato; e il 3 d'agare con altro ne servirmi di quelle belle prile del 21 il C. s'affrettava ad esprimere

parole pregarò chi il tutto po [= Dio]

prima che mora un servitio a S. Ex.ia che altri rifutasse di fare. et basare le mani in mio nome, e supplicarla tenere memoria di la devota servitů gli por taro in eterno.

il piacere che ne aveva avuto, alla mani doni tanta gratia che io possa fare dre, e soggiungeva: La po tenerlo cos presso di se: senza mandarmelo altramente. L'Ariosto fu anche ospite dei Castiglione: il che si desume da una letterina che 1's sett. del 23 Baldassarre scrisse da Mantova alla madre, allora nella villa di Casatico: Messer Alfonso Ariosto mi ha mandato a dire che vuol venire qui a me adesso, perche è venu to a Mantua con Madonna Gratiosa, la quale credo abbia menato sua figliuola a marito».

Lancia spezzata degli Estensi, come s'è detto. l'Ariosto si mantenne fedele alla loro politica favorevole alla Francia, anche quando il C. volgeva sempre più verso quella politica imperialista che doveva procurargli l'onore, ma anche le iatture e i dolori della disgra ziata Nunziatura di Spagna. Non deve quindi stupirci che il C. scrivendo in cifra, il 7 gennaio del 1522 a messer Stazio [Gadio], desse questo giudizio del l'amico suo: «Gentilhomo da ben; pur è molto francese ». Da una memoria di Giulio e di Gabriele Ariosto, riferita dal Frizzi (Op. cit., p. 147) si desume che messer Alfonso mori nel 1525. Come saggio della sua prosa epistolare riprodu co fedelmente una sua lettera di sull'autografo che esiste nell'Archivio Gonzaga, Carteggio da Ferrara ed è scritta un anno prima della sua morte.

Al mio caro fratel Messer Braghino de lo Ill. S. Marchese di Mantoa servitore, in Mantoa».

Messer Bragin mio, ancor che vi pregasse per la lettera vi scrissi quando mandai per il chavallo mi donò per stalon lo Ill. S. nostro comun patron (il marchese Federico Gonzaga] che in nome mio volessi ringratiarlo del dito liberalissimo bello et a mi carissimo presente, pur perché quanto più gli ho pensato e penso trovo hesere magior

Di mi seria superchio se non il ri cercharvi di novo achadendomi et cosi fare el medesimo di me che senza fine me ve rec.do. De Ferrara

a di 23 marzo 1525

vostro Alphons. Areosti ».

Ma non voglio chiudere questa nota illustrativa senza rammentare una prova altamente onorevole di affezione che il nostro Alfonso diede a messer Ludovico, allorquando, in una lettera da Ferrara del 28 marzo 1514. scritta al Card. Ippolito. raccomandava a costui un miglior trattamento pel cugino che tra scinava una vita di stenti ai suoi servigì e si sentiva costretto (essendo « in questa fantasia de non voler essere prete», s' intende, per godere i beneficî), di passare al servizio di altri (CAMPORI. Notizie per la vita di L. Ariosto, Firenze, Sansoni, 1896, pp 17-8).

Barletta. E menzionato, in due luo ghi (I. LVI, 7-9; II, XI, 9) come presente ai conversari del Cortegiano, e nel primo di essi è detto musico piacevolissimo e danzator eccellente, che sempre tutta la Corte teneva in festa ». Una lettera inedita del C. al Cardinale Ippolito d'Este, dell'8 dicembre 1507, da Urbino, ci conferma che esso era il musico prediletto della Duchessa Elisabetta, onde a stento messer Baldassarre era riuscito a ottenere che venisse a lui, a Ferrara, ma pel minor tempo possibile.

Bembo Pietro. Questo veneziano, nato di famiglia patrizia nel 1470, poeta e prosatore, volgare e latino, grammatico e

storico, trattatista d'amore e umanista dottissimo, gentiluomo galante e segretario pontificio, nonché, gli ultimi otto anni di sua vita (1539-17) cardinale di santa Chiesa, è tanto noto nelle nostre storie letterarie, che il discorrerne qui sarebbe superfluo. Basti rimandare, anche per le opportune indicazioni bibliografiche, alla Storia del Gaspary, e al Cinquecento del Flamini, e al vol. IV, P. I e II della Geschichte der Pupste del Pastor. In Urbino egli fu la prima volta, ma di passaggio, probabilmente nel 1503, certo, nel 1505. di ritorno da Roma. Vi si ricondusse l'anno seguente. e d'allora in poi, trascorse, salvo rare e brevi interruzioni. sei auni felici. parte alla Corte, parte nella quiete studiosa delle Ville ducali, a Casteldurante e nella Badia della Croce dell'Avellana, alla Vernia, stringendo la più cordiale amicizia col C. In tal modo egli riusci ad alternare il suo tempo fra gli studî severi di filologia greca e latina. ai quali trovava aiuti preziosi nella biblioteca dei Duchi, la composizione delle Prose e il verseggiare latino e volgare, gli amori e le galanterie e le feste e i lieti e arguti conversari della Corte. In questi anni appunto, e forse nel 1507, cade la composizione di quei Motti, che bene si connettono con i trattenimenti prediletti della Corte urbinate. (Vedi i Motti ined. e sconosciuti di m. P. Bembo pubbl. e illustr. con introduzione da V. Cian, Venezia. tip. dell'Ancora, 1888. p. 22).

E appunto pel carnevale di Corte del 1507 (l'anno dei ragionamenti del Cortegiano), egli, seguendo l'esempio del C. e di Cesare Gonzaga che l'anno innanzi vi avevano recitato l'ecloga Il Tirsi, il Bembo compose le celebri Stanze pastorali, che recitò insieme con Ottaviano Fregoso.

Lui il C. aveva rappresentato nel Tirsi, sotto le sembianze d'un famoso pastore venuto ad Urbino a dal seno d'Adria», a rendere omaggio alla Dea del loco, la Duchessa Elisabetta, cantando (st. XL):

Dal seno d'Adria quà venne un Pastore Fra tutti gli altri assai famoso e degno, Qual sentendo di questa il gran valore, Solo a cantar di Lei pose il suo ingegno; Ed ha del suo splendor si vago il core, Che non curò lasciar il patrio regno; Ma venne ad abitar questo paese, E cautò dolcemente: Alma cortese. - con quest' Alma cortese, alludendo alla Canzone composta dal Bembo per la morte del fratello Carlo e indirizzata

da lui alla Duchessa. Non a torto il C. lo disse fra tutti gli altri (pastori] as sai famoso e degno; che nel 1506 il Bembo s'era già acquistata una bella fama con gli Asolani, pubblicati l'anno innanzi coi tipi di Aldo e dedicati a Lucrezia Borgia. Colmato di cortesie e di benefici da quei Signori, egli volle mo strar loro la sua gratitudine scrivendo Toperetta De Guido Ubaldo Feretrio leque Elisabetta Gonzagia Urbini Du cibus. della quale si è fatta spesso pa rola nelle note al presente volume. In Roma, dov' egli fu. col Sadoleto, segretario ai brevi di Leone X. si rinsaldo la sua amicizia col C.. della quale sono bei documenti certe sue lettere volgari e latine, del periodo urbinate e del ro. mano, che riescono non di rado una felice illustrazione del Cortegiano. Allorquando. nel 1518. quest'opera fu composta. l'autore s'affrettò a sottoporla alla revisione autorevole e coscienziosa dell'amico veneziano, che aveva quasi compiute le Prose della volgar lingua: e di questa revisione sono numerose le tracce nei codici originali del libro. Nel quale. verso la fine lib. IV, capp. LI sgg.). il C. gli assegnò la parte di precettista caldo ed eloquente dell' amor platonico. bene adatta a chi aveva trat tata la stessa materia negli Asolani. E fu una fortuna per lui e per l'opera : ché il Bembo. come appare dalle primitive redazioni di essa, rischiò di dover trattare della lingua. Fortuna, che fra l'autore degli Asolani e quello delle Prose il primo abbia avuto il soprav vento nella mente del C. E a noi piace ripensare alla gita che, nella primavera del 1516, il Bembo fece a Tivoli in compagnia del C., di Raffaello, di Andrea Navagero e del Bevazzano (cfr. Corteg., II. LXX, 15); piace immaginare quella. brigata di degni amici, e d'insigni rappresentanti della Rinascita, aggirarsi, ammirando e commentando, fra le rovi ne della Villa Adriana (Lettere del Bembo, I. 11, 7).

Nella versione dell' Opdyke, p. 288. è riprodotta la bella medaglia del Bembo cardinale, dovuta probabilmente a Benvenuto Cellini.

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