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ne per

ritirar quei del pretore. Furono accumulate legna e fascine alla porta di quel palazzo, lochè fece risolvere il pretore, e alcuni senatori a fuggirsela porta di dietro. Affin di quetare la matta furia di costoro, saltarono fuori i padri teatini, con promettere a tutti, che si farebbe il pane più grosso. Ma non prestandosi loro fede, volarono al palazzo del vicerè, chiedendo sollievo. Dalla finestra esso marchese de los Velez, e molti nobili usciti fuori, assicurarono i tumultuanti, che si era dato l'ordine per la loro soddisfazione, ed arrivata la notte parve dileguato quel nuvolo. Ma sulle tre ore della notte a cagion di molti, che nulla aveano da perdere, e molto speravano di guadagnare nella rivolta, maggiormente si aumentò il tumulto: furono rotte le carceri, e data la libertà circa a settecento facinorosi; e dipoi s'inviò l'infuriata plebe alla casa del duca della Montagna, maestro razionale del patrimonio reale per bruciarla. Colà bensì accorsero i padri gesuiti, portando processionalmente il SS. Sacramento; ma non conoscendo allora il popolo im bestialito nè moderazion nè religione, si vide perduto il rispetto ad essi religiosi (alcuni dei quali rimasero anche feriti) e al Sacramento stesso, convenendo loro di ritirarsi in fretta. Iti alla doganella, e ai luoghi dove si riscotevano i dazj e le gabelle, ne stracciarono tutti i libri e registri.

Fatto giorno, si portò il sedizioso popolo al palazzo del vicerè, gridando: fuora gabelle: ma ritrovatolo ben cust odito dalle guardie, non osa

rono di tentarne l'assalto. Intanto non pochi della nobiltà, la qual tutta stette sempre fedele al re, usciti a cavallo si studiarono di calmare il fuoco, e indussero il vicerè a pubblicar un editto, per cui si levavano le gabelle sopra la farina, carne, olio, vino, e formaggio, come le più gravose al popolo. E nè pur questo bastò, temendo i sollevati di essere sotto quell' apparenza ingannati; e però avvenutisi in don Francesco Ventimiglia marchese di Gierace, personaggio amato da ognu no, il proclamarono per lor signore e capo. A questo inaspettato e non voluto onore inorridi il cavaliere, e consigliato il popolo a gridare viva il re di Spagna, si applicò poi da saggio a trattar 'di concordia fra essi, e il governo, ottenendo loro molte grazie e privilegi lo che servi a quetare e rallegrare i sediziosi. Ma perciocchè dai bottegaj e dai rivenderuoli non si volle stare al fissato calamiere dei comestibili, tornò più pazzamente di prima ad infuriar la plebe, e andò per insignorirsi della casa, dove si conserva il tesoro del re; ma vi trovò un corpo di cavalleria, che mando a monte i loro disegni. Fu consigliato il vicerè di mettere in armi gli artisti, e così fu fatto. La nobiltà stessa, e fin gli ecclesiastici presero dipoi le armi contro la plebe: nel qual tempo colti alcuni capi degli ammutinati, a terrore degli altri furono impiccati. Ma non andò molto, che anche gli artisti si unirono col popolaccio, e perciocchè chiamati a palazzo due consoli delle arti, per trattare d'accordo, tardarono a tornare indietro, sparsasi voce, che fossero stati strangolati (lo che era

falso) viepiù allora divampò la furia della gente; e benchè comparissero liberi i consoli, non rallentò punto l'ardore dei sediziosi. Con sì strepitose scene, che durarono per più settimane, si era giunto al dì quindici di agosto, quando Giuseppe da Lesi, tiradore di oro, fattosi capo popolo, e gridando: muoja il mal governo, condusse tutti i suoi seguaci all' armeria regale, dove ciascun si provvide di armi, di polve da fuoco, e di ogni munizione da guerra; ed avendo anche tratto da un baluardo un cannone, e un sagro, condusse la truppa al palazzo e sparò quell' artiglieria verso la porta. Allora il vicerè prese il partito di uscire segretamente, e di salvarsi nelle galee, e la viceregina si ritirò anch'ella a Castellamare. Allora specialmente fu, che si unirono molti nobili per opporsi ai ribelli, i quali perchè s'insospettirono del loro capo, cioè di Giuseppe da Lesi, per aver egli messe guardie, acciocchè non fosse dato il sacco al palazzo, si rivoltarono contro di lui. Usciti i nobili a cavallo cominciarono a dar la caccia ai plebei. Fu ucciso il suddetto Giuseppe con Francesco suo fratello. Dei presi nel dì 22 di agosto ne furono strozzati tredici, ed altri menati alle prigioni.

Si era restituito il marchese de los Velez a Castellamare, e quivi coi suoi consiglieri andava studiando le maniere di dar fine alla tragedia, con pubblicare un perdon generale, e promettere l'abolizione delle gabelle; e furono anche distesi molti capitoli di migliore regolamento in avvenire per bene ed appagamento del popolo. Ma

quando egli si credea di essere in porto, si trovava di nuovo in tempesta, perchè i siciliani nazion vivacissima, quanto facili sono a prendere fuoco, altrettanto son difficili a quietarsi. Perciò durò il torbido sino al dì 13 di novembre, in cui il vicerè, sì per le vigilie e crepacuori patiti, come per veder disapprovata dalla corte la sua condotta, per non aver egli mai, siccome signore di animo misericordioso e buono, voluto domar colla forza il forsennato popolo, oppresso dagli affanni cessò di vivere. Era già destinato a quel governo il cardinal Teodoro Trivulzio, persona di gran mente e prudenza, e che sapeva far anche alle occasioni da bravo, con averne dati più saggi nella difesa dello stato di Milano. Arrivò egli nel dì 17 del suddetto novembre a Palermo, e contro il parere di chi gli consigliava di andar prima a Messina; oppure andando a Palermo, di ricoverarsi nel castello; sbarcato che fu, passò francamente alla chiesa maggiore fra la gran folla del popolo, che venerando l'alta sua dignità e giubilando, per ricevere un vicerè italiano, l'accompagnò colà con incessanti acclamazioni. Altro non rispondeva egli, se non: Pace e libro nuovo. Come se riputasse quieti gli animi di tutti, cominciò a dar udienze ad ognuno, a rimettere in autorità i magistrati, a gastigare animosamente chi ricalcitrava, con opprimere dipoi varie congiure, che di mano in mano si andavano tessendo dai restanti malviventi. In una parola, con tal dolcezza, e insieme con tal forza maneggiò quei focosi cervelli, che fece tornar la quiete e

l' ubbidienza tanto in Palermo, che in altre parti della Sicilia, dove si era dilatata quella mala influenza.

Vegniamo a Napoli, città, che per essere tanto più abbondante di popolo, e popolo anche essu sommamente spiritoso ed inquieto, maggiori e più strepitose scene, che quelle di Palermo fece vedere nella sollevazion sua, appartenente anch'essa all'anno presente. Erasi in quella gran città per li correnti bisogni della corona a cagion delle guerre, che in tante parti l'infesta vano istituita una gabella sopra le frutta, che perciò si vendevano più care, ed eretta una baracca nella piazza del mercato, dove stavano i ministri deputati per esigerla. Al basso popolo, che specialmente si pasce di pane e frutta, intollerabil parea questo nuovo aggravio, e non si udiva che mormorazioni, e digrignar di denti. Trovossi una mattina abbruciata la baracca: lo che fece riflettere a don Rodrigo Ponze di Leon duca di Arcos, e vicerè molto savio, che non era da caricar la povera gente di quel dazio, e doversi ricavar da altra parte quella somma di danaro. Pure cedendo al parer di coloro, ai quali fruttava essa gabella, rimise la baracca, come prima. Ora avvenne che un certo Tommaso Aniello da Amalfi, comunemente appellato Mas-Aniello, giovane di ventiquattro anni, di vivace ingegno, e pescatore di professione, introducendo pesce senza aver pagata la gabella, fu maltrattato dagli esecutori della giustizia, e perdè quel pesce. Tutto collera ne giurò vendetta, e cominciò a persuadere ai

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