Da poi che 'l genio vostro sì m' invita, Vorrei farla con voi; ma il bel saria, Che come dolce fosse anche infinita. O che grata o che bella compagnia!
Bella non è per me, ma ben per voi, So io che bella non saria la mia. Ma noi ci accorderemmo poi fra noi Quando fossimo un pezzo insieme stati, Ogn' uno andrebbe a far i fatti suoi. Faremmo spesso quel gioco de' frati,
Che certo è bello e fatto con giudizio In un convento, ove sien tanti abati. Diremmo ogni mattina il nostro uffizio,
Voi cantereste, io vel terrei segreto. Che non son buono a sì fatto esercizio. Pur per non stare inutilmente cheto, Vi farei quel servigio, se voleste,
Che fa, chi suona agli organi di dreto. Qual più solenni e qual più allegre feste,
Qual più bel tempo e qual maggior bonaccia, Maggior consolazion sarien di queste? A chi piace l' onor, la roba piaccia:
Io tengo un bene grande in questo mondo, Lo stare in compagnia che soddisfaccia. Il verno al fuoco in un bel cerchio tondo, A dire ogn' un la sua, la state al fresco, Questo piacer non ha nè fin nè fondo. Ed io di lui pensando sì m' adesco,
Che credo di morir, se mai v' arrivo. Or parlandone indarno, a me rincresco. Vi scrissi l' altro dì, che mi spedivo
Per venir via, ch' io muojo di martello, Ed ora un' altra volta ve lo scrivo. I' ho lasciato in Padova il cervello,
Voi avete il mio cor serrato e stretto Sotto la vostra chiave e 'l vostro anello. Fatemi apparecchiare intanto il letto,
Quella sedia curule, e due cucini, Ch' io possa riposarmi a mio diletto,
E state sani, Abati miei divini.
VITTORIA COLONNA,
Marchesana di Pescara.
Quando miro la terra ornata e bella Di mille vaghi ed odorati fiori, E siccome nel ciel luce ogni stella, Così splendono in lei varj colori; Ed ogni fiera solitaria e snella, Mossa da natural istinto, fuori
De' boschi uscendo e dell' antiche grotte, Va cercando il compagno giorno e notte;
E quando miro le vestite piante Pur di be' fiori e di novelle fronde, E degli uccelli le diverse e tante Odo voci cantar dolci e gioconde; E con grato romor ogni sonante Fiume bagnar le sue fiorite sponde; Tal che di se invaghita la natura Gode in mirar la bella sua fattura;
Dico fra me pensando: quanto è breve Questa nostra mortal misera vita! Pur dianzi tutta piena era di neve Questa piaggia, or sì verde e sì fiorita, E d'un aer turbato oscuro e greve La bellezza del ciel era impedita; E queste fiere vaghe ed amorose Stavan sole fra monti e boschi ascose.
Nè s' udivan cantar dolci concenti Per le tenere piante i vaghi augelli; Che dal soffiar de' più rabbiosi venti, S'atterran, secche queste, e muti quelli: E si veggion fermar i più correnti Fiumi dal ghiaccio, e piccioli ruscelli; E quanto ora si mostra e bello e allegro, Era per la stagion languido ed egro.
Così si fugge il tempo, e col fuggire Ne porta gli anni e 'l viver nostro insieme; Che a noi, colpa del ciel, di più fiorire, Come queste faran, manca la speme, Certi non d' altro mai che di morire, O d'alto sangue nati o di vil seme; Nè quanto può donar benigna sorte Farà verso di noi pietosa morte.
Anzi questa crudel ha per usanza I più famosi e trionfanti regi, Allor c' hanno di vincere speranza, Privar di vita degli ornati fregi; Nè lor giova la regia alta possanza Nè gli avuti trofei nè i fatti egregi; Che tutti uguali in suo poter n' andiamo, Nè più di ritornar speranza abbiamo.
E pur con tutto ciò, miseri e stolti, Del nostro ben nimici e di noi stessi, In questo grave error fermi e sepolti Cerchiamo il nostro male e i danni espressi; E con molte fatiche e affanni molti Rari avendo i piaceri, i dolor spessi, Procacciamo di far nojosa e greve La vita che troppo è misera e breve. Quello per aver fama in ogni parte Nella sua più fiorita e verde etade, Seguendo il periglioso e fiero Marte, Or fra mille saette e mille spade Animoso si caccia, e con nuova arte Mentre spera di farsi alle contrade Più remote da noi altri immortale, Casca assai più che un debil vetro e frale. Quell' altro ingordo d' acquistar tesori Si commette al poter del mare infido; E di paura pieno e di dolori
Trapassa or questo ora quell' altro lido; E spesso dell' irate onde i romori
Gli fan mercè chiamar con alto grido; E quando ha d' arricchir più certa speme, La vita perde e la speranza insieme.
Altri nelle gran corti consumando Il più bel fior de' lor giovanil' anni; Mentre utile ed onor vanno cercando, Sol ritrovano invidia, oltraggi e danni:
Mercè d' ingrati principi che in bando Posto hanno ogni virtute, e sol d' inganni E di brutta avarizia han pieno il core, Pubblico danno, al mondo disonore.
Altri poi vaghi son d' esser pregiati; E di tener fra tutti il primo loco; E per vestirsi d'oro, e gire ornati Delle più care gemme, a poco a poco Tiranni della patria odiosi e ingrati Si fanno ora col ferro ora col foco; Ma alfin di vita indegni e di memoria Son morti, e col morir muor la lor gloria.
Quanti son poi che divenuti amanti Di due begli occhi e d' un leggiadro viso, Si pascon sol di dolorosi pianti Da se stesso tenendo il cor diviso; Nè gioja nè piacer sono bastanti Trar lor del petto, se non finto riso; E se lieti talor si mostran fuori, Hanno per un piacer mille dolori.
Chi vive senza mai sentir riposo Lontano dalla dolce amata vista; Chi a se stesso divien grave e nojoso Sol per un guardo o una parola trista; Chi da un nuovo rival fatto geloso,
Quasi appresso al morir duolsi e s' attrista; Chi si consuma in altre varie pene Più spesse assai che le minute arene.
E così senza mai stringere il seno Con la ragion a questi van desiri, Dietro al senso correndo, il viver pieno Traggono d' infiniti aspri martiri; Che tranquillo saria puro e sereno, Se senza passion, senza sospiri
Lieto godendo quanto il ciel n' ha dato, Vivesser con modesto ed umil stato.
Come nella felice antica etate, Quando di bianco latte e verdi ghiande Si pascevan quell' anime bennate Contente sol di povere vivande; E non s' udiva infra le genti armate Delle sonore trombe il romor grande; Nè per far l'armi li ciclopi ignudi Battendo risuonar facean gl' incudi.
Nè lor porgeva la speranza ardire Di poter acquistar fama ed onore; Nè per darsi dappoi grave martire Con dubbiosi pensier davan timore; Nè per mutarsi i regni e per desire Di soggiogare altrui, gioja e dolore Sentivano già mai, sciolti di queste Umane passion gravi e moleste.
Ma senz' altri pensier stavan contenti Con l'aratro a voltar la dura terra, Ed a mirar i lor più cari armenti Pascendo insieme far piacevol guerra; Or con allegri e boscherecci accenti Scacciavano il dolor che spesso atterra Ch' in se l'accoglie, fra l' erbette e i fiori Cantando or con le ninfe or co' pastori.
E spesso a piè d'un olmo ovver d'un pino Era una meta o termine appoggiato; E chi col dardo al segno più vicino Veloce dava, era di frondi ornato: A Ceres poi le spiche, a Bacco il vino Offerivan divoti, e in tale stato Passando i giorni lor, serena e chiara Questa vita facean misera e amara. Questa è la vita che cotanto piacque Al gran padre Saturno, e che seguita Fu da' pastori suoi mentre che giacque Nelle lor menti l'ambizion sopita. Ma come poi questa ria peste nacque, Nacque con lei l' invidia sempre unita; E misero divenne a un tratto il mondo Prima così felice e sì giocondo,
Perchè dolce più assai era fra l'erba Sotto l'ombre dormir queto e sicuro, Che ne' dorati letti, e di superba Porporea ornati; e forse più ogni oscuro Pensier discaccia ed ogni doglia acerba, Sentir col cor tranquillo allegro e puro Nell' apparir del sol mugghiar gli armenti, Che l'armonia de' più soavi accenti.
Beato dunque, se beato lice
Chiamar, mentre che vive, uomo mortale: E se vivendo si può dir felice,
Parmi esser quel che vive in vita tale:
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