Ma esser più desia, qual la fenice E cerca di mortal, farsi immortale; Anzi quella che l'uomo eterno serba Dolce nel fine e nel principio acerba.
La virtù dico, che volando al cielo Cinta di bella, d' instinguibil luce, Se ben vestita è del corporeo velo, Con le fort' ale sue porta e conduce Chi l'ama e segue; nè di morte il gelo Teme già mai, che questo invitto duce Spregiando il tempo e suoi infiniti danni Fa viver tal, che morto è già mill' anni.
Di così bel desio l' anima accende Questa felice e gloriosa scorta, Che alle cose celesti spesso ascende, E l'intelletto nostro spesso porta, Tal che del ciel e di natura intende Gli alti segreti, onde poi fatta accorta Quanto ogni altro piacer men bello sia, Sol segue quella, e tutti gli altri obblía. Quanti principi grandi amati e cari Insieme con la vita han perso il nome! Quanti poi vivon gloriosi e chiari Poveri nati, sol perchè le chiome Di sacri lauri, alteri doni e rari, S'ornarono felici: ed ora, come Chiare stelle nel ciel splendon beati, Mentre il mondo starà, sempre onorati! Molti esempj potrei venir contando De' quai piene ne son tutte le carte,
Che 1 ciel produtto ha in ogni tempo, ornando Non sempre avaro or questa or quella parte; Ma quanti ne fur mai dietro lasciando, E quanti oggi ne son posti da parte, Un ne dirò che tal fra gli altri luce, Qual tra ogni altro splendor del sol la luce.
Dico di voi, e dell' altera pianta,
Felice ramo del bennato lauro, In cui mirando sol, si vede quanta
Virtù risplende dal mar Indo al Mauro;
E sotto l'ombra gloriosa e santa
Non s' impara a pregiar le gemme o l' auro; Ma le grandezze ornar con la virtute, Cosa da far tutte le lingue mute.
Dietro all' orme di voi dunque venendo, Ogni basso pensier posto in obblío, Seguirò la virtù, chiaro vedendo Essere in seguir lei fermo desío, Fallace ogni altro; nè così temendo O nemica fortuna, o destin rio,
Starò con questa, ogni altro ben lasciando, L' anima e lei, mentre ch' io vivo, amando.
Spirto gentil, che sei nel terzo giro Del ciel fra le beate anime asceso Scarco del mortal peso,
Dove premio si rende, a chi con fede Vivendo fu d' onesto amore acceso, A me, che del tuo ben non già sospiro, Ma di me, ch' ancor spiro,
(Poi che al dolor che nella mente siede Sopra ogn' altro crudel non si concede Di metter fine all' angosciosa vita) Gli occhi, che già mi fur benigni tanto, Volgi agli miei, ch' al pianto
Apron sì larga, e sì continua uscita, Vedi come mutati son da quelli, Che ti solean parer già così belli.
L'infinita ineffabile bellezza
Che sempre miri in Ciel non ti distorni, Che gli occhi a me non torni,
A me, che già mirando ti credesti Di spender ben tutte le notti, e i giorni, E se 'l levarli alla superna altezza
Ti lieva ogni vaghezza,
Deh quanto mai quaggiù piu caro avesti La pietà, almen cortese mi ti presti, Ch' in terra unqua non fu da te lontana: Ed ora io n' ho d' aver più chiaro segno Quando nel divin regno
Dove senza me sei, n' è la fontana; S' Amor non può, dunque Pietà ti pieghi D' inchinar il bel sguardo ai miei prieghi.
Io sono, io son ben dessa; or vedi come M' ha cangiato il dolor fiero, ed atroce, Ch' a fatica la voce
Può di me dar la conoscenza vera.
Lassa, ch' al tuo partir, partì veloce Dalle guancie, dagli occhi, e dalle chiome Questa, a cui davi nome
Tu di beltà; ed io n' andava altiera,
Che me 'l credea, poichè in tal pregio t' era. Ch' ella da me partisse allora, ed anco Non tornasse mai più, non mi da noia, Poichè tu a cui sol gioia
Di lei dar intendea, mi viene manco; Non voglio no, s' anch' io non vengo, dove Tu sei, che questo, od altro ben mi giove.
Come possibil è, quando sovviemme
Del bel guardo soave ad ora, ad ora, Che spento ha si breve ora,
Ond' è quel riso lusinghier estinto,
Che mille volte non sia morta, o mora? Perchè, pensando all' ostro, ed alle gemme, Ch' avara tomba tiemme,
Di ch' era il viso angelico distinto
Non scoppia il duro cor dal dolor cinto? Com'è ch' io viva quando mi rimembra, Ch' empio sepolcro, e invidiosa polve Contamina, e dissolve
Le delicate alabastrine membra? Dura condizion, che Morte è peggio Patir di Morte, e insieme viver deggio.
Io sperai ben di questo carcer tetro
Che quaggiu serra ignuda anima sciorme, E correr dietro all' orme
Dei tuoi santi piedi, e teco farmi Delle belle una in ciel beate forme.
Ch' io crederia, quando ti fusse dietro, E insieme udisse Pietro,
E di Fede, e d' Amor di te lodarmi, Che le sue porte non potria negarmi. Deh perchè tanto è questo corpo forte, Che nè la lunga febbre, nè 'l tormento, Che maggior nel cor sento
Potesse trarlo a destinata morte, Si, che lasciato avessi il mondo teco, Che senza te, ch' eri suo lume, è cieco? La cortesia, e 'l valor, che stati ascosi Non so in qual' antri, e latebrosi lustri
Eran molt' anni, lustri,
E che poi teco apparvero; e la speme, Che in più matura etade all' opre illustri Pareggiassi dei Publij; e quei famosi Tuoi fatti gloriosi
Sicch' a sentire avessero l' estreme Genti, ch' ancor viva di Marte il seme: Non pur non veggio, nè da quella notte Che agli occhi miei lasciasti un lume oscuro, Mai più veduti furo,
Chè ritornati a loro antiche grotte;
E per disdegno congiurarno, quando Del mondo uscir, torne perpetuo bando.
Del danno suo Roma infelice accorta
Dice: Poi che costui Morte mi tolli, Non mai più sette colli
Duce vedrà, che trionfando possa Per Sacra Via trar catenati i colli.
Dell' altre piaghe, ond' io son quasi morta, Forse sarei risorta;
Ma questa è in mezzo il cor quella percossa, Che da me ogni speranza ne ha rimossa. Turbato corse il Tebro alla marina;
E ne die annunzio ad Ilia sua, che mesta Gridò piangendo, or questa
Di mia progenie è l'ultima roina. Le sante Ninfe, e i boscarecci Dei Trasser il grido a lagrimar con lei.
E fu sentito in l' una, e in l' altra riva Pianger donne, e donzelle, e figlie, e matri E da purpurei patri
Alla più bassa plebe il popol tutto, E dire: O patria: questo dì fra gli atri D' Allia, e di Canne a' posteri si scriva, Quei giorni, che cattiva
Restasti, e ch' el tuo Impero fu distrutto. Nè più di questo son degni di lutto, E 'I desiderio Signor mio, e il ricordo, Che di te in tutti gl' animi è rimaso Non trarrà già all' occaso
Di questo il violente Fato ingordo, Nè potrà far, mentre che voce, e lingua Forman parole, il tuo nome s' estingua.
Vorrei l'orecchia aver qui chiusa, e sorda Per udir coi pensier più fermi, e intenti, L' alte angeliche voci, e i dolci accenti, Che vera pace in vero amor concorda. Spira un' aer vita! tra corda, e corda,
Divino, e puro in quei vivi stormenti 1, E si move ad un fine i lor concenti; Che l'eterna armonia mai non discorda. Amor alza le voci, Amor le abbassa;
Ordina, e batte ugual l' ampla misura, Che non mai fuor del segno in van percote; Sempre è più dolce il suon, se ben' ei passa Per le mutanze in più diverse note; Che chi compone il canto ivi n' ha cura.
Se con l'armi celesti avess' io vinto
Me stessa, i sensi, e la ragione umana, Andrei con alto spirto alta, e lontana Dal mondo, e dal suo onor falso dipinto. Su l'ali della fede il pensier cinto
Di speme omai non più caduca, e vana, Sarebbe fuor di questa valle insana Da verace virtute alzato, e spinto. Ben ho già fermo l'occhio al miglior fine Del nostro corso; ma non volo ancora Per lo destro sentier salda, e leggiera: Veggio i segni del Sol; scorgo l' aurora; Ma per li sacri giri alle divine
Stanze non entro in quella luce vera.
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