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Ma se va dietro al ver, che a destra scorge,
Quasi augel senza piume, o pigro verme,
Serra il cammino un sasso, un sterpo solo
Tu dunque, alto Rettor, più salde e ferme
Penne mi presta al vero; all' altre il volo
Tronca, ed apri la via che a te mi scorge.

GIOVANNI DELLA CASA.

1503-1556.

CAPITOLO IN LODE DEL BACIO.

Io stetti già per creder, che 'l popone
Fosse dianzi un gran pezzo di via
A tutte quante l' altre cose buone,
Massime col salume in compagnia,

Perchè quel dar così perfetto bere
M' andava molto per la fantasia.
El cacio con le fave, e con le pere

Anch' ebber un tempo assai la mia grazia, Ma dei poponi non senne può avere' Perchè n' è buon di mille un per disgrazia; E par che costan sempre tanto cari, Sol qualche buona borsa se ne sazia. Il cacio è cosa più de' nostri pari;

Se non fosse viscoso, e poco sano, Perchè non costa mai molti danari. Ma sia del nostro, o sia del Parmegiano Come tu t'avviluppi seco punto,

Ti fa doler la testa a mano, a mano
E ti bisogna avere il becco unto,

E la bocca aperta, sana, e intera,
E questo è necessario a punto, a punto.
Si che 'l popone, e 'l cacio con le pera,

A mio giudizio ed il presciutto ancora,
Non hanno in se la somma bontà vera.
Io cercai nel di lei dentro; e di fuora

Otri, volte, spezial1, cucine, e letti,

1 bottega dello speziale.

La volta, la cucina, i suoi diletti,
E tutti gli altri spassi della gola
Han per una virtù, cento difetti,
Così quel riposar tra le lenzuola

Ti riempie, ti sazia, e ti rincresce,
Come tu 'l fai per una volta sola.
Alla fin una cosa mi riesce

E questa è sola la virtù de' Baci,
Che non iscema mai, ma sempre cresce,
Questi, come i popon non son fallaci,

Possone avere a desinare, e a cena,
Or vadinsi a impiccar presciutti, e caci,
Forse, che ti debilitan la schiena,

O che ti guastan la complessione:

Ma 'l bacio non vuol gran forza, nè gran lena, Se tu baciassi il dì cento persone

Vi ti puoi mantener con poca spesa, E puoilo far ogn' dì, di passione. Questa è una cosa, che ti sarà resa,

Abbin', pur fame abbine pur gran sete,
Ed aspettal ad ogn' or, con la man tesa.
In tutti quei paesi ove voi siete,

In ogni etate, in tutte le stagioni,
Voi potete baciar, se voi volete,
Questo non è mestier da mascalzoni,
O che sia manifattura stravagante,
Che chi la ritrovò se gli perdoni.
Baciansi le parenti tutte quante

Perchè il Bacio in effetto par capace
D' uomini, donne, di famigli, e fanti;
Esso fa 'l parentado, esso la pace

Esso dall' oprar suo, mai non si pente,
Ben ha perduto il gusto, a chi non piace.
E se tu trovi, chi dica altrimente,

E vuol preporgli il zucchero, e le torte,
Digli da parte mia, che sene mente.
Trovansi baci al mondo di due sorte,
Parte ne son asciutti, e parte molli,
I primi s' usan volontieri in corte.
Se noi vogliam ch' alcuno ci satolli

Noi diciamo, Signore, io ve le bacio,
Piegate le ginocchia, e torti i colli.
Venere segue poi quell' altro Bacio,

La qual in ver senza di lui sarebbe Come son le lasagne senza cacio. Credo ogni valent' uom se straccherebbe, Che volesse cantar le sue maniere,

E poi forse anche non le conterebbe.

Basti accennarvi sol le cose vere,

Però dico, ch' un savio, e curvo, e 'n piede
Vi bacierà le notti intere, intiere.

Non ha dinanzi il Bacio la sua sede

Più che altrove, è lecito, e concesso
Di poterci baciar da capo a piede.
Non è più proprio all' un, che all' altro sesso,
E quel che fa patisce in questo caso,
E colui, ch' è baciato, bacia anch'esso.
E perchè paia, ch' io non parli a caso,
Dico che 'l Bacio si può mal' usare
Dalle persone c' hanno lungo il naso,
Ma nè per questo gli vo biasimare;
Perchè nel vero non ci han colpa avuto,
Se la Natura gli volse storpiare.
Ristorinsi costor dunque col fiuto,

E imparin la pazienza, e star bassi,
El Bacio resti a chi non è nasuto.
Ora io v'ho tocco di galanti passi,
Senza far troppo lunga dicerìa,
Perchè così con gl' intendenti fassi,
Bacio la man' di vostra Signoria.

SONETTO.

Al Sonno.

O Sonno, o della queta, umida, ombrosa
Notte placido figlio, o de' mortali
Egri conforto, obblio dolce de' mali
Sì gravi ond' è la vita aspra e nojosa;
Soccorri al core omai, che langue e posa
Non ave; e queste membra stanche e frali
Solleva a me ten vola, o Sonno, e l' ali
Tue brune sovra me distendi e posa.
Ov' è il silenzio, che 'l dì fugge e 'l lume?
Ei lievi sogni, che con non secure
Vestigie di seguirti han per costume?
Lasso che invan te chiamo, e queste oscure
E gelide ombre invan lusingo. O piume
D' asprezza colme! O notti acerbe e dure.

FR. GRAZZINI

DETTO IL LASCA.

1503-1565.

SONETTO

contra G. Ruscelli editore del Dante, Boccaccio ed Ariosto.

Com' hai tu tant' ardir, brutta bestiaccia,
Che vada a vis' aperto, e fuor di giorno,
Volendo il tuo parer mandare attorno
Sopra la seta, e non conosci l'accia?
O mondo ladro, or ve' chi se l' allaccia!
Fiorenza mia, va ficcati 'n un forno,
S' al gran Boccaccio tuo con tanto scorno
Lasci far tanti sfregj in sulla faccia.
Non ti bastava, pedantuzzo stracco,

Delle Muse e di Febo mariuolo,
Aver mandato mezzo Dante a sacco?
Che lui ancor, che nelle prose è solo,
Hai tristamente sì diserto e fiacco,
Che d' una lancia è fatto un punteruolo.
Ma questo ben c'è solo,

Ch' ogni persona saggia, ogni uom, ch' intende,
Ti biasma, e ti garrisce, e ti riprende.

In te, goffo, contende,

Ma non si sa chi l'una o l' altra avanza,
O la prosunzione, o l' ignoranza.
Io ti dico in sostanza,
Che dove della lingua hai ragionato,
Tu non intendi fiato, fiato, fiato.
E dov' hai emendato,

O ricorretto, o levato, o aggiunto,
Tu non intendi punto, punto, punto.
E dov' hai preso assunto
Di giudicar, tu sembri il Carafulla,
E non intendi nulla, nulla, nulla.
Trovategli la culla,

La pappa, il bombo, la ciccia e 'l confetto,
Fasciatel bene, e mettetelo a letto.

Io ti giuro e prometto,

Se già prima il cervel non mi si sganghera,
Tornarti di Ruscello una pozzanghera.

CANZONE.

Nella morte di un Cane di Messer Fandolfo de' Pucci.

Se mai per tempo alcun, grazia o piacere
Mi feste, o Muse, or tempo è d'ajutarmi
E di dare a' miei carmi

Valore, spirto, possanza ed ardire;
Perchè, cantando e piangendo, vo' dire
Le virtù rare, e le bellezze vere,
Le cortesi maniere,

Gli atti degni e sovrani

D'un cane, imperador degli altri cani:
E la crudele, aspra sua morte ancora,
La qual pensando, tutto m' addolora.
Nella sua più fiorita giovinezza

Fu menato in Firenze a grand' onore
Dal suo caro signore,

Questo can, ch' io vi dico, allegramente;
Onde correa per vederlo la gente,
Stupita per l' immensa sua bellezza:
E per somma vaghezza,

Gridava ad alta voce,

E sì faceva il segno della croce

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Dicendo: Questa è vera maraviglia,

Che sol sè stessa, e null' altra somiglia.

Il pelame, la fronte, il naso, il mento,

Gli occhi, la bocca, il collo, il petto, e i fianchi,

I piè nerbuti e bianchi,

Non potrebber rifar sì vaghi e belli,

I colori giammai, nè gli scarpelli.

Ma che dich' io! se Giove fusse intento:

Anzi se fusser cento

Giovi, e cento Nature,

Una sol parte non ne farian pure.

Ma soprattutto gli orecchi fur quello

Membro, ch' egli ebbe più degli altri bello.

Correa veloce più d' una saetta:

I' non vo' dire, o tigre o leopardo:

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