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Quasi un popol selvaggio, entro del cuore
Vivean liberi, e sciolti i miei pensieri;
E in rozza libertade incolti, e fieri,
Nè meno il nome conoscean d' Amore.
Amor si mosse a conquistargli; e il fiore
Spinse de' forti suoi primi guerrieri;
E degl' ignoti inospiti sentieri
Superò coraggioso il grande orrore.
Venne, e vinse pugnando; e la conquista
A voi, Donna gentil, diede in governo;
A voi, per cui tutte sue glorie acquista.
Voi dirozzaste del mio cuor l'interno;

Ond' io contento, e internamente, e in vista,
L'antica libertà mi prendo a scherno.

CARLO MARIA MAGGI.

1630-1699.

SONETTI.

Scioglie Eurilla dal lido. Io corro, e stolto
Grido all' onde, che fate? Una risponde:
Io, che la prima ho il tuo bel nume accolto,
Grata di sì bel don, bacio le sponde.
Dimando all' altra: Allor che 'l Pin fu sciolto
Mostrò le luci al dipartir gioconde?
E l'altra dice: Anzi serena il volto,
Fece tacere il vento, e rider l'onde.
Viene un' altra, e mi afferma: or la vid' io
Empier di gelosia le Ninfe algose,

Mentre sul mare i suoi begli occhi aprio.
Dico a questa: e per me nulla t' impose?
Disse almen la crudel di dirmi Addio?
Passò l'onda villana, e non rispose.

Punto d' ape celata infra le rose

Nella man, che vi stese, incauto Amore,
Pianse alla madre, e la perfidia espose,
Che si copria nella beltà del fiore.

Or le ferite intendi, ella rispose,

Che fai nell' alme altrui, dal tuo dolore;
Ben le pruova più crude, e insidiose
Di quelle del tuo dito il nostro core.

Pur la tua spina a noi tu non iscopri,

E in paragon di questa, ape infedele, Più crudeltade, e con più frode adopri. Ci pungi a morte in promettendo mele,

E in rose di beltà tue punte copri;

Ma l'inganno più bello è il più crudele.

Io grido, e griderò, finchè mi senta

L' Adria, il Tebro, il Tirren, l' Arno e 'l Tesino,
E chi primo udirà, scuota il vicino,
Ch'è periglio comun quel, che si tenta.
Non val, che Italia a' piedi altrui si penta,
E obbliando il valor, pianga il destino;
Troppo innamora il bel terren Latino,
E in disio di regnar pietate è spenta.
Invan con occhi molli, e guance smorte

Chiede perdon; che il suo nemico audace
Non vuole il suo dolor, ma la sua morte.
Piaccia il soffrire a chi 'l pugnar non piace:
E' stolto orgoglio in così debil sorte
Non voler guerra, e non soffrir la pace.

FRANCESCO DE LEMENE.

1634-1704.

SONETTI.

La Violeta.

Messaggiera dei fior, nunzia d' Aprile,
De' bei giorni d' Amor pallida Aurora,
Prima figlia di Zeffiro, e di Flora,
Prima del praticel pompa gentile.
S' hai nelle foglie il tuo pallor simile
Al pallor di colei, che m' innamora:
Se per immago sua ciascun t'adora;
Vanne superba, o violetta umile.
Vattene a Lidia, e dille in tua favella,

Che più stimi degli ostri i pallor tuoi,
Sol perchè Lidia è pallidetta anch' ella.
Con linguaggio d' odor dirle tu puoi:

Se voi, pompa d' Amor, siete sì bella,
Son bella anch' io, perchè somiglio a voi.

Amore abituato.

Deh per pietà, chi la mia fiamma ammorza,
Che mai non mi consuma, e m' arde sempre?
Onde mi sembra in sì penose tempre,
Fatta immortal questa mia frale scorza.
Per estinguer in van l' ardente forza,

Fia, ch' in acqua di pianto il cor si stempre;
Nè fia, che coll' età l' ardor si tempre,
Che quanto invecchia più, più si rinforza.
Non so come bastante il cor riesca

A nutrir sì gran fiamma, e appoco appoco Non manchi in me la vita, e 'l foco cresca. Morte, ed Amor, voi per pietate invoco: Fate debile il foco, e debil l' esca,

E manchi o'l foco all' esca, o l'esca al foco.

MADRIGALI.

Loda il soave cantare di bella giovane.

Offesa verginella

Piangendo il suo destino,

Tutta dolente e bella,

Fù cangiata da Giove in augellino,

Che canta dolcemente, e spiega il volo:

E questo è l' usignuolo.

In verde colle udì con suo diletto

Cantar un giorno Amor quell' augelletto;
E del canto invaghito,

Con miracol gentil, prese di Giove

Ad emular le prove;

Onde, poi ch' ebbe udito

Quel musico usignuol, che sì soave

Canta, gorgheggia e trilla,

Cangiollo in verginella: e questa è Lilla.

Dimenticatosi il Berettino nella Casa del Signor de Lemene il Signor Segretario Maggi, egli racchiuselo in un plico, e suggellatolo, vi fece la soprascritta con questa

OTTAVA.

Maggi, prima d'aprire, indovinate
Il negozio, che qui racchiuso resta.
È legger, ma dimostra gravitate,
È superbia del capo, e non è cresta.
Vicino alla memoria lo portate;
Ma sovente però v' esce di testa.
Di fuori è ner, di dentro è limoncino,
Ma di dentro, e di fuori è Berettino.

CAPRICCIO.

Si propone non voler più cantare d' Amore.

Son troppo sazia,

Non ne vo' più.

Cantar sempre d'amore,

Nè mai cangiar tenore,
È una cosa, che sazia,
È una gran servitù.
Son troppo sazia

Non ne vo' più.

Non si parli d' amor; sen vada in bando;
Cantiam d'altro, mio cor, cantiam d' Orlando.

Era Orlando innamorato,

Forsennato

Per Angelica la bella.

O pazzarella,

Ecco che amor ritorna in isteccato.

Tosto volgiamo in carmi

Dove si tratta sol di guerre e d'armi.

Trojani a battaglia:

Già delle spade ostili appare il lampo;
Tutta l'Europa è in campo;

Omai non può tardar che non v' assaglia;
Trojani, a battaglia.

ANTOLOGIA.

11

Già sentite la tromba
Come rimbomba.

Quando cada la spada,
Sentirete come taglia;
Trojani, a battaglia.

Correte a difendere
La famosa rapina

Di beltà peregrina,

Di quella gran beltà, ch' amor rapì.
Sia maledetto amor, eccolo quì.

Che gran disgrazia!

Sempre amor per tutto fu.

Son troppo sazia,

Non ne vo' più.

Ma lassa, che farò, perchè da me
Amor rivolga il piè?

Mai dal cor non si divide,
Nel pensier sempre soggiorna.
S' io 'l minaccio, ed ei si ride;
S' io 'l discaccio, ed ei ritorna.

Mio cor, che puoi far tu,

Che far poss' io per non parlarne più?

Ah! che un' alma innamorata

O felice, o sventurata,

Abbia pure o guerra, o pace.

Sol non parla d' amore allor che tace.

VINCENZO DA FILICAJA.

1642-1707.

SONETTI.

All' Italia.

Italia, Italia, o tu, cui feo la sorte
Dono infelice di bellezza, ond' hai
Funesta dote d' infiniti guai,

Che in fronte scritti per gran doglia porte:

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