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Ma lasso or più di lui cura non prendi,
Ond' ei trae mesti i giorni,

Nè sa, se resti, o torni,

Perchè tu nol vuoi teco, e nol mi rendi. Qual fine avrà così nuovo martire?

Non chieggo lieta sorte,

Ma dammi vita, o morte,

Che questo non è viver, nè morire.

PAOLO ROLLI.

1687-1784.

CANZONETTE.

I.

Solitario bosco ombroso

A te viene afflitto cor

Per trovar qualche riposo
Nel silenzio e nell' orror.

Ogni oggetto ch' altrui piace,
Per me lieto più non è:

Ho perduto la mia pace,

Son' io stesso in odio a me.

La mia Fille, il mio bel foco,
Dite o piante, è forse qui?

Ahi la cerco in ogni loco,
E pur so ch' Ella partì.

Quante volte, o fronde amate
La vostr' ombra ne coprì!
Corso d'ore sì beate

Quanto rapido fuggì!

Dite almeno amiche fronde,
Se 'l mio ben più rivedrò?
Ah! che l'eco mi risponde,
E mi par che dica: No.

Sento un dolce mormorio,
Un sospir forse sarà:
Un sospir dell' idol mio,
Che mi dice, tornerà.

Ahi ch'è il suon del rio che frange
Tra quei sassi il fresco umor,
E non mormora, ma piange
Per pietà del mio dolor.

Ma se torna, fia pur tardo
Il ritorno e la pietà;
Chè pietoso invan lo sguardo
Su 'l mio cener piangerà.

II.

Se tu m' ami, se sospiri

Sol per me, gentil pastor;
Ho dolor de' tuoi martiri,
Ho diletto del tu' amor:

Ma se pensi che soletto
Io ti debba riamar;
Pastorello sei soggetto

Facilmente a t' ingannar.

Fù già caro un solo amante,
Or quel tempo non è più:

Il mio sesso è men costante,
Perchè il vostro ha men virtù.

Bella rosa porporina

Oggi Silvio sceglierà,

Con la scusa della spina,
Doman poi la sprezzerà!

Ma degli uomini 'l consiglio
Io per me non seguirò,
Non perchè mi piace il giglio,
Gli altri fiori prezzerò.

Scelgo questo, scelgo quello,
Mi diletto d' ogni Fior.
Questo par di quel più bello,

Quel di questo ha meglio odor.

Colti tutti, e poi serbati;

Un bel serto se ne fa,

Che su 'l crine o al sen portati,
Fanno illustre la beltà.

ONOFRIO MINZONI.

Nato circa il 1690.

Morte di Sansone.

SONETTI.

I.

Con quella forza, ch' ogni forza eccede,
Sanson del Tempio le colonne abbraccia,
Ambe le tira a se, da se le caccia,
E torce, e strappa in fin dalla lor sede.
Il tetto già precipita: si fiede,

Si lacera, si stritola, si schiaccia

A cui la nuca e 'l dosso, a cui la faccia,
A cui l' imbusto, a cui lo stinco e 'l piede.
Trema il suol, mugge l' aria, notte fassi,
Tanta è la polve, che dal monte s' erge
Di travi, di cadaveri, di sassi.

Da tale avel non più cieca ed inulta
Del feroce campion l' anima emerge;
Lo mira, il calca, amaramente esulta.

II.

Dal fondo ancor di sì confuso ammasso
Sbucan de' Filistei l'ombre dolenti,
Con fronte china, con incerto passo,
Tremebonde, impiagate, sanguinenti.
Nel vincitor s' incontrano, e dal casso
Mandar vorrian o fremiti, o lamenti:
Ma l'occhio, che si alzò, ritorna al basso,
E si serra la lingua in mezzo a' denti.
L'anima nobilmente disdegnosa

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Non le rampogna no, solo le guata
,, A guisa di leon, quando si posa.
Ma lampi i guardi sono, orridi lampi,
Onde la turba vil resta accecata,
E par, che l' orbo ciel tutto divampi.

III.

Ecco venir la femmina perversa,
Ecco venir la traditrice putta:

Ma da quella, che fu, quanto e diversa,
Or che del suo fallir coglie le frutta!
Straccia il crin, batte il sen, lagrime versa
Lorda, sciancata, estremamente brutta:
E d' ulceri, com' è, tutta cospersa
Tutta si vela, si rannicchia tutta.
Pur tiene ancor quell' anima ribalda
In mano strette le recise chiome,
Onde una volta andò sì lieta e balda.
Mostrale, o volpe, e nelle usate forme
Schiamazza, insulta di Sansone il nome:
L' hai su' ginocchi ancora, ancora ei dorme.

IV.

Voce non già, ma folgore fu questa,
Che dal labbro scoppiò del vincitore,
Onde la donna instupidita resta,
E quasi quasi un' altra volta muore.
Ella di qua, di là volge la testa,

Cercando appoggio, dove accese amore:
Ma soccorso alla misera non presta
Niuno di tanti drudi in tanto orrore.
Adunque che farai? Se di Sansone

Teco l'intera turba si spaventa,
Quanto più forte puoi, chiama Dagone.
Dagone ella chiamò: ma nella gola

Un enorme Demon, che se le avventa,
Troncò l'abbominevole parola.

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Grecia, ah Grecia, ti scuoti: Eccoti i fieri
Traci, che vengon tutti a vendicarsi
Di te. Non vedi al ciel la polve alzarsi?
Non senti il calpestar dei lor destrieri?
Ecco, ecco i forti duci: ecco i guerrieri

D' Asia: già sento i gridi all' aria sparsi.
Ma tu tremi: ah non anco offesi, ed arsi
Sono i tuoi campi: a che lassa, disperi?
Or non è questo il loco, onde il feroce

Pirro un tempo discese, e surse il grande
Epaminonda? Or quì non nacque Achille?
Aimè, ch' io parlo al vento, e già l'atroce

Turco lo preme, e incendio, e terror spande:
Quegli già furo, or son mill' anni, e mille.

CARLO INNOCENZIO FRUGONI.

1692-1768.

SONETTI.

Almo Sol, che rimeni il sempre amaro
E sacro giorno ancor stillante, e ancora
Tinto del sangue prezioso o caro,
Che a noi le vie del ciel segna e colora,
Me quella, ahi! santa lacrimevol' ora,
Che compiè l' opra del comun riparo,
Quando natura conturbossi, e fuora
D'urna le redivive ombre s' alzaro;
Quando per la pietà del lor fattore

Il dì, e la luce seco venner manco
Repente, e in duo partissi il vel del tempio,

Me selce aspra vedrà contra 'l dolore

Farmi nè trar sospiro? Oh non pur anco
Udito mai di feritate esempio !

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