III. Poichè ripresa avea l' alma digiuna Va la gente perduta; altri s' aduna. Fuggia quel crudo, e stretta la mascella, Forte graffiava con la man lo scritto. Ma più terso il rendea l' anima fella; Dio fra le tempie gliel' avea confitto, Nè sillaba di Dio mai si cancella. IV. Uno strepito intanto si sentìa, Che Dite introna in suon profondo e rotto Il bieco peccator per quella via Lo scontrò, lo guatò senza far motto: Pianse al fine, e da' cavi occhi dirotto Come lava di foco il pianto uscìa. Folgoreggiò sul nero corpo osceno L' eterea luce, e d' infernal rugiada Fumarono le membra in quel baleno. Tra il fumo allor la rubiconda spada Interpose Giustizia: e il Nazareno Volse lo sguardo e seguitò la strada. Sopra la Morte. Morte, che se' tu mai? Primo dei danni Ma l' infelice, a cui de' lunghi affanni E ride all' appressar dell' ore estreme. Ti sfida il forte, che ne' rischi indura; Ritratto de' Francesi. Fingi, o scultor d' umano sangue lordo Il ferreo cuor di stragi unqua mai stanco; Ruoti la spada il destro braccio, e ingordo All' oro stenda, e alle rapine il manco. Sotto il piè vincitor l' iniquo prema Giustizia e Fedeltà; veli sua fronte Religione, e per l'orror ne gema. Irto abbia il crine, ed infuocati gli occhi E sian nel volto queste note impronte: Son lo sdegno di Dio, nessun mi tocchi." LUIGI LAMBERTI. 1758-1813. I cocchi. Pera chi osò primiero, ODE. Fidato a briglie e a mal securo ingegno, Dell' indocil destriero Aggiogar la cervice a debil legno; Ond' alto assisi su volubil soglio, Ebbri d' insano orgoglio, O del fatal costume, Artefice cagion d' ampie ruine, Prema il flagel delle feroci Eríne! Dunque, senza che l' uom caggia e trabocchi Abbastanza da se già non s' apría Vasta al morir la via? Pagar la pompa dei sublimi carri, O sotto l' unghie de' corsier bizzarri. Scosso per opra di venale auriga Senza l' equestre fasto, Se fra i bassi guerrier l' ire movea, Forse maggior contrasto Facea Troilo al furor dell' asta Achea. Senza i destrier frenati, orbo rimaso, Forse addutta all' occaso, Non piagnevi, oh d' Egèo famoso seme, Sventurato fanciullo! A lui che valse il formidabil gioco Pagar tributo di Ciprigna al foco; Se poscia in onta dell' Ortigia Diva, Sulla Trezenia riva, L' estinse, ammenda ai non commessi falli, Sedea su altero cocchio In atti il giovan dolcemente acerbi, Vegliava al fren dei corridor superbi; Di ver la racemifera Epidauro Balzar mostroso tauro. Allo spettacol diro, Rincularo i cornipedi feroci, Nè più il flagel sentiro, O il noto suon delle animose voci; Quindi sbattendo i rabbuffati colli, Si disserrar, forzando e briglie e morso, Come fischiando scoppia, E fugge pietra da aggirata fionda, A dritta e a manca per la curva sponda; Rote, timone ed assi Si scommosser crocchiando, e in cento parti, Te fra le briglie avvolto, Ippolito, traean pei scabri liti, I rei destrieri di tua man nudriti. Isti acerbo all' Eliso, Ed ei, che mal sul Pegaseo si tenne, Ad incontrar ti venne. La Vendemmia. CANZONE. Dalla luce educati, e dagli ardori Già per l' aperto campo Brillan delle mature uve i tesori; Che più bella non han porpora, Villanelle, che i dì paghi, e securi A che fate soggiorno? Uscite omai dai semplici abituri. od auro Ve'! come stanca e ripiegata in arco A se ne chiama la feconda vite: Ma pria che siate a bei lavor converse E dai correnti fiumi Escan tre volte, e sei le mani asterse; Ma più ancor sian dei lini e della salma Forse noto non v'è; ma un' alma Diva Sovente ai lidi nostri Preme col sacro piede or poggio, or riva: E adombrata dal vel che la ricopre Già tempo i figlj dell' ingrata terra Delle stelle il governo Credeansi torre, e il provocaro in guerra: Star contra, e alzarsi per caduche scale Ai fianchi allora dell' eterno senno Stetter nell' armi, e ne seguiro il cenno; Grand' Evio, atto del pari ai miti studi, Sol d' Eleusi la Dea dei serti amica A ravvivar col ciglio Venne dei campi l' utile fatica, Nè in umile sdegnò forma terrestre Ove lo stuol villesco era ridutto A cor di Bacco il frutto. Sotto la mano usa a brandir lo scettro, E ad aggiogar serpenti I grappoli ridenti Facean onta ai piropi, e al biondo elettro; Che al paragon mal resse Quel che dall' urne d' oro Ebe dispensa All' Olimpica mensa. De' rei Germani alfin spenta la rabbia, Fra lieti inni la Dea |