Portate, venti, questi dolci versi Dentro a l'orecchie de la Ninfa mia; Dite quant' io per lei lagrime versi, E lei pregate che crudel non sia; Dite che la mia vita fugge via, E si consuma come brina al sole. Udite, selve, mie dolci parole, Poichè la Ninfa mia udir non vuole.
Ciascun segua, o Bacco, te, Bacco, Bacco, oè oè.
Di corimbi, e di verd' edere Cinto il capo abbiam così, Per servirti a tuo richiedere Festeggiando notte e dì. Ognun beva: Bacco è quì; E lasciate bere a me. Ciascun segua ecc. Io ho vuoto già il mio corno, Porgi quel cantaro in qua. Questo monte gira intorno, 01 cervello a cerchio va; Ognun corra in qua o in là; Come vede fare a me.
Ciascun segua ecc.
Io mi moro già di sonno,
Sono io ebra o sì o no?
Più star dritti i piè non ponno, Voi siet' ebri, ch' io lo so. Ognun faccia com' io fo:
Ognun succe come me.
Ciascun segua ecc.
Ognun gridi Bacco, Bacco, E pur cacci del vin giù. Poi col sonno farem fiacco,
Bevi tu, e tu, e tu. Io non posso ballar più. Ognun gridi oè, oè.
Ciascun segua, o Bacco, te. Bacco, Bacco, oè oè.
1 cantárovaso da bere appresso gli antichi.
BARZELLETTA.1
Non mi negar, Signora, Di porgermi la man Ch' io vo da te lontan:
Non mi negar, Signora. Una pietosa vista
Può far ch' al duol resista Quest' alma afflitta, e trista Che già per te non mora: Non mi negar, Signora. E se 'l tuo vago volto Veder mi sarà tolto, Non creder sia disciolto Benchè lontan dimora: Non mi negar, Signora. S' io vado in altra parte, Il cor non si disparte Si che non discordarte; Benche lontan dimora: Non mi negar, Signora. Ahi cruda dipartita
Ch' a lagrimar m' invita Sento mancar la vita Si gran dolor m' accora. Non mi negar Signora Di porgermi la man Ch' io vo da te lontan: Non mi negar, Signora.
La speranza è sempre verde; Negli affanni mai si stanca; S'ogni cosa al mondo manca, La speranza mai si perde.
1 La Barzelletta è una canzonetta piacevole da cantarsi per framezzo nelle commedie giocose o dopo i pranzi, spezie di Rotondello, contenente l' intercalare del primo versetto; ma nel fine s' intercala tutta la prima strofe.
Può ben tor via la fortuna Stati, onori, ogni altro bene; Non può tor con arte alcuna Questa idea, che ne mantiene. Mentre questa ne sostiene, La fortuna ne rinfranca: S'ogni cosa al mondo manca, La speranza mai si perde.
Allor cantan le Sirene, Quando il mar ha più tempesta, Perchè speran d' aver bene, Quando il mar turbato resta. Se fortuna ci molesta La speranza ci rinfranca: S'ogni cosa al mondo manca, La speranza mai si perde.
Questa santa e dolce speme Fa leggiera ogni fatica; Fa gittar in terra il seme Per ricoglier poi la spica; De di in dì pasce e nutrica Nostra mente e ci rinfranca: S' ogni cosa al mondo manca, La speranza mai si perde.
Spera l' uom che 'l regno ha perso, Spera l'uomo incarcerato, Spera in mar l'uomo sommerso, Spera il servo incatenato; Quel che a morte è condannato Spera sempre e mai si stanca: S' ogni cosa al mondo manca, La speranza mai si perde.
Quando il miser si dispera, La speranza parla, e dice: Sta sù, tienti, vivi e spera, Chè sarai ancor felice! Quando è verde la radice L' arbor secco si rinfranca: S' ogni cosa al mondo manca, La speranza mai si perde.
Quanti miser disperati Cercan lor vita finire: Questa Dea gli ha rinfrancati Con promesse, e col bel dire: Quando alfin vuoi pur finire Il veleno, o il ferro abbranca; S' ogni cosa al mondo manca: La speranza mai si perde.
Acciò moran volentieri, La speranza grida forte: State franchi, state interi, Con voi vengo fino a morte, Condurrovvi con mia sorte A quel ben, che mai non stanca; S'ogni cosa al mondo manca: La speranza mai si perde.
SONETTO IN DIALOGO.
Sulla natura d' Amore.
Si rinveste di verde e bel colore.
Di che fusti creato? D'un ardore, Ch' ogni lascivo in sè rinchiude e serra. Chi ti produsse a farmi tanta guerra? Calda speranza, e gelido timore.
Ove prima abitasti? In gentil core, Che sotto al mio valor presto s' atterra. Chi fù la tua nutrice? Giovinezza,
E le sue serve accolte a lei d' intorno: Leggiadria, vanità, pompa e bellezza. D'un guardar adorno. Non può contra di te morte, o vecchiezza? No: ch' io rinasco mille volte il giorno.
ANTONIO TIBALDEO.
Fiori circa il 1480.
Spesso il cor mesto, e gli occhi lite fanno: Il cuor si duole, e dice che il lor lume Son causa del suo mal, ma per costume Altrove gli occhi volgerse non sanno. Il cuor, che crescer sente il grave affanno, Di lagrime un corrente, e largo fiume Agli occhi drizza, acciocchè si consume La visiva virtù, che gli fa danno.
E così il faretrato, e cieco Iddio,
Che mosso ha fra lor lite, per disfarme, Lieto ride fra se del danno mio.
Or mai io non so più di chi fidarme: Come sperar salute mai poss' io, Se i miei contro di me prendono l' arme?
Poich' Amor di quell' occhi il lume spento Vide, onde 'l suo valor prender solea, Più volte indarno per ferirmi avea L'arco ripreso, alle mie piaghe intento. Ma van' era ogni stral debile, e lento,
Che dall' impia sua corda al cor volgea. Così severo in libertà vivea
Troppo del primo amor sazio, e contento. Lui disdegnoso (ah chi i suoi colpi crede
Schifar, mal pensa) un più sald' arco scelse Poiche tempo a ferir più accorto vide.
E d' una viva petra un Lauro scelse;
Poi in mezz' al cor per forza 'l pose: or siede Fra' verdi rami, e del mio amor si ride.
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