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JACOPO SANNAZARO.

1458-1530.

SONETTI.

I.

La Gelosia.

O Gelosia, d' amanti orribil freno,

Che in un punto mi volgi e tien sì forte;
O sorella dell' empia amara Morte,
Che con tua vista turbi il ciel sereno:
O serpente nascosto in dolce seno

Di lieti fior, che mie speranze hai morte;
Tra prosperi successi avversa sorte;
Tra soavi vivande aspro veneno.

Da qual valle infernal nel mondo uscisti,
O crudel mostro, o peste de' mortali,
Che fai li giorni miei sì oscuri e tristi?
Tòrnati giù, non raddoppiar miei mali;
Infelice paura, a che venisti?

Or non bastava Amor con li suoi strali?

II.

Mentr' a mirar vostr' occhi intento io sono,
Madonna, ogni dolor da me si parte,
E sento Amor nell' alma a parte a parte
Gioir si ch' ogni offesa io gli perdono.
Ma poichè 'l caro, e grazioso dono

Togliendo a me, volgete ad altra parte,
Per viver mi bisogna usar nov' arte,
E col mio cor dipoi penso, e ragiono.
Onde la mente innamorata, e vaga

Seguendo in sogno l'aria del bel viso
Convien, che infin' al ciel si levi, ed erga:

Così si gode del suo ben presaga

In terra il dì, la notte in Paradiso:

Tanta forza ha il pensier, che in ella alberga.

:84 BALDASSARE CASTIGLIONE.

LODOVICO ARIOSTO.

BALDASSARE CASTIGLIONE.

1468-1529.

SONETTO.

Cantai, mentre nel cor lieto fioria

De' soavi pensier l' alma mia spene,
Or ch' ella manca, e ognor crescon le pene,
Conversa è a lamentar la doglia mia.
Che 'l cor, ch' ai dolci accenti aprir la via
Solea, senza speranza omai diviene
D'amaro tosco albergo, onde conviene,
Che ciò, ch' indi deriva, amaro sia.
Così un fosco pensier l' alma ha in governo,
Che col freddo timor dì e notte a canto
Di far minaccia il suo dolore eterno.
Però, s' io, provo aver l' antico canto,
Tinta la voce del veneno interno
Esce in rotti sospiri, e duro pianto.

LODOVICO ARIOSTO.

1473-1534.

SONETTI.

Mal si compensa, ahi lasso, un breve sguardo
All' aspra passion, che dura tanto:
Un'interrotto gaudio a un fermo pianto,
Un partir presto e un ritornarvi tardo.
E questo avvien, che non fu pari il dardo,
Nè il foco par, ch' Amor m' accese a canto,
A me il cor fisse, a voi non toccò il manto,
Voi non sentite il caldo, ed io tutt' ardo,
Pensai, che ad ambi avesse teso Amore,

E voi dovesse a un laccio coglier meco,
Ma me sol prese, e voi lasciò andar sciolta.
Già non vid' egli molto a quella volta,

Che se avea voi1, la preda era maggiore,
Eben mostrò ch' era fanciullo e cieco.

1 Rime e Satire di M. Lodovico Ariosto (Venetia 1613): s' have a voi?

Ben che 'l martir sia periglioso, e grave,
Che 'I' mio misero cor per voi sostiene,
Nè m' incresce però, perchè non viene
Cosa da voi, che non sia soave.
Ma non posso negar che non mi grave,
Non mi strugga ed a morte non mi mene;
Che per aprirvi le mie ascose pene
Non so, nè seppi mai volger la chiave.
Se perchè io dica, il mal non mi si crede:
Es' a questa fatica afflitta e mesta,
Se a cocenti sospir non si dà fede,
Che provar più se non morir mi resta?

Ma troppo tardi, ahi lasso, si provede
Al duol, che sola morte manifesta.

CAPITOLO AMOROSO.

Nella stagion, che il bel tempo rimena,
Di mia man posi un ramoscel di Lauro
A mezzo un colle in una piaggia amena,
Che di bianco, d'azzur, vermiglio, e d' auro
Fortuna sempre, e sempre il Sol scopriva,
O fosse all' Indo, o fosse al lido Mauro,
Quivi traendo or per erbosa riva,

Or rotando con man la tepid' onda,
Or rimovendo la gleba nativa,

Hor riponendo più lieta, e feconda,

Fei si con studio, e con assidua cura,
Che 'l Lauro ebbe radice, e nova fronde.

Fu sì benigna a' miei desir Natura,
Che la tenera verga crescer vidi,

E pianta diventar solida, e dura.

Dolci ricetti, solitari, e fidi

Mi fur quest' ombre, ove sfogar potei
Securo il cor con amorosi gridi.

Vener, lasciando i tempj Citerei

E gli altri altar, le vittime, e gli odori
Di Gnido, e d' Amatunte, e de' Sabei;
Sovente con le Grazie in lieti cori

Danzava intorno, e per li rami intanto
Salian scherzando i pargoletti Amori.
Spesso Diana con le Ninfe a canto
L' arboscel soavissimo prepose

Alle selve d' Eurota, e d' Erimanto,

E questa, ed altre Dee sotto l'ombrose
Frondi, mentre in piacer stando, ed in festa,
Benedicean talor chi il ramo pose,

Lassa onde uscì la boreal tempesta?

Onde la bruma?
Onde la neve a'

onde il rigor, e 'l gelo? danni miei sì presta?

Come gli ha tolto il suo favore il cielo?

Langue il mio Lauro, e della bella spoglia
Nudo gli resta, e senza onor lo stelo.
Verdeggia un ramo sol con poca foglia,

E fra tema, e speranza sto sospesa,
Se lo mi lasci il verno, o lo mi toglia.
Ma più che la speranza il timor pesa,

Che contra al ghiaccio rio, che ancor non cessa,
Il debil ramo avrà poca difesa,

Deh perchè innanzi che sia in tutto oppressa
L' egra radice, non è chi m' insegni,
Com' esser possa al suo vigor rimessa?
Febo rettor degli superni segni,

Aiuta l'arboscel, onde corona
Più volte avesti ne' Tessali regni.
Concedi Bacco, Vertunno, o Pomona
Satiri, Fauni, Dríade, e Napee 2,
Che nove fronde il Lauro mi ripona.
Soccorran tutti i Dei, tutte le Dee,

Che degli arbori han cura, il Lauro mio,
Però ch' egli è fatal, se viver dee,
Vivo io, se dee morir, seco moro io.

CANZONE.

Non so s' io potrò ben chiudere in rime

Quel che in parole sciolte

Fatica avrei di raccontarvi a pieno,
Come perdei mia libertà, che prima,

Madonna, tante volte

Difesi, acciò non avesse altri il freno.
Tenterò nondimeno

Farne il poter, poichè così v' aggrado,
Con desir, che ne vada

La fama, e a molti secoli dimostri

Le chiare palme, e i gran trionfi vostri.

Alcuni furono d' opinione che in questo Capitolo il Poeta introducesse la Città di Firenze a dolersi della grave malattia di Lorenzo de' Medici, della quale poi morì.

2 spezie di Nife delle valli,

F. Fabbrucci.

Le sue vittorie ha fatto illustre alcuno,
E con gli eterni scritti

Ha tratto fuor del tenebroso oblio;
Mali perduti eserciti nessuno,

E gli avversi conflitti,

Ebbe ancor mai di celebrar desio:
Sol celebrar voglio io

Il dì ch' andai prigion, ferito a morte;
Che contra man si forte,

Bench' io perdei, per l' aver preso assalto
Più che mill' altri vincitor mi esalto.

Dico che 'l giorno, che di voi m' accesi,
Non fu il primo che 'l viso

Pien di dolcezza, ed i real costumi
Vostri mirassi affabili, e cortesi,

Nè che mi fosse aviso,

Che meglio unqua mirar non potea lumi;
Ma selve, e monti, e fiumi,

Sempre dipinsi innanzi al mio desire,
Per levarli l'ardire

D'entrar in via, dove per guida porse
Io vedea la speranza, costar in forse. 1

Quinci lo tenni e mesi ed anni escluso,
E dove più sicura

Strada pensai, lo volsi ad altro corso:
Credendo poi, che più potesse l' uso,
Che 'l destin, di lui cura

Non ebbi, ed ei, tosto che senza morso
Sentissi, ebbe ricorso,

Dove era il natural suo primo instinto,
Ed io nel Labirinto

Prima lo vidi, ove ha da far sua vita,
Che pensar tempo avessi a darli aita.

Nè il dì, nè l' anno tacerò, nè il loco
Dov' io fui preso e insieme

2

3

Dirò gli altri trofei, ch' allora aveste,
Tal che appo loro il vincer mi fu ponto 3,
Dico, da che il suo seme

Mandò nel chiuso ventre il Re celeste,
Avean le ruote preste,

forse: e star in forse, per: stare in dubbio.

morso per freno.

3

poco?

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