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Dell' omicida lucido d' Achille
Rifatto il giorno mille

E cinquecento e tredici fiate,

Sacro al Battista in mezzo della state.

Nella Tosca città, che questo giorno
Più riverente onora,

La fama avea a' spettacoli solenni
Fatto raccor, non che i vicini intorno,
Ma gli lontani ancora.

Ancor' io vago di mirarvi venni,
D'altro ch' io vidi, tenni

Poco ricordo, e poco me ne cale.
Sol mi resta immortale

Memoria, ch' io non vidi in tutta quella
Bella città, di voi cosa più bella.

Voi quivi, dove la paterna e chiara

Origine traete,

Da prieghi vinta, e liberali inviti

Di vostra gente con onesta e cara

Compagnia far più liete

Le feste, e a far più splendidi i conviti

Con i doni infiniti,

In ch' ad ogn' altra il ciel v' ha posta inanzi, Venuta erate dianzi,

Lasciato avendo lamentar indarno

Il re de' fiumi, ed invidiarvi ad Arno.

Porte, fenestre, vie, templi, e teatri
Vidi piene di donne

A giochi, a pompe, a sacrifici intente
E mature ed acerbe, e figlie e matri
Ornate in varie gonne:

Altre star a conviti, altre agilmente
Danzare, e finalmente

Non vidi nè senti' ch' altri vedesse,
Chi di beltà potesse

D'onestà, cortesia, d' alti sembianti
Voi pareggiar non che passarvi avanti.

Trovò gran pregio ancor dopo il bel volto
L' artefice discreto,

Ch' in aurei nodi il biondo e spesso crine
In rara e sottil rete avea raccolto:

Soave ombra di dietro

Rendeva al collo, e dianzi alle confine
Delle guancie divine,

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1 collo?

E discendea fin' all' avorio bianco
Del destro omero, e manco;

Con queste reti insidiosi amori

Preser quel giorno più di mille cori.

Non fu senza sua lode il puro, e schietto
Serico abito nero:

Che come il Sol luce minor confonde,
Fece ivi ogn' altro rimaner negletto.
Deh, se lece il pensiero

Vostro spiar, dell' implicate fronde
Delle due viti, donde

Il leggiadro vestir tutto era ombroso,
Ditemi il senso ascoso.

Sì ben con ago dotta man le finse,
Che le porpore, e l' oro il nero vinse.

Senza misterio non fu già trapunto

Il drappo nero, come

Non senza ancor fu quel gemmato alloro
Tra la serena fronte, e il cale

Che delle ricche chiome

assunto:

In parte ugual và dividendo l'oro.

Senza fine io lavoro

Se quanto avrei da dir vo' por in carte,
E la centesma parte

Ma par ch' io ne potrò dir a fatica,
Quando tutta mia età d' altro non dica.

Tanto valor, tanta beltà non m' era
Peregrina, nè nova;

Sì che dal folgorar d' accesi rai,

Che facean gli occhi, e la virtude altera,

Già stato essendo in prova,

Ben mi credea d' esser sicur omai,

Quando men mi guardai

Quei pargoletti, che nell' auree crespe

Chiome, attendean qual vespe,

A chi le attizza, al cor mi s'avventaro,
E nei capelli vostri vel legaro.

Vel legaro in sì stretti e duri nodi,
Che più saldi un tenace

Canape mai non strinse, nè catene;
E chi possa venir, che me ne snodi,
D' imaginar capace

Non son, s' a snodar morte non lo viene.
Deh dite, come avviene,

Che d' ogni libertà m' avete privo,
E menato captivo,

Nè più mi dolgo, ch' altri si dorria
Sciolto da lunga servitute, e ria?

Mi dolgo ben, che de' soavi ceppi
L' ineffabil dolcezza,

E quanto è meglio esser di voi prigione,
Che d' altri re, non più per tempo seppi.
La libertade apprezza

Fin che perduta ancor non l' ha, il falcone
Preso che sia, dipone

Del gire errando sì l'antica voglia,

Che sempre, che si scioglia,

Al suo Signor a render con veloci
Ali s' andrà, dove udirà le voci.

La mia Donna, Canzon, solo ti legga
Sì ch' altri non ti vegga,

E pianamente a lei di' chi ti manda;
Es' ella ti comanda

Che ti lasci veder, non star' occolta,
Se ben molto non sei bella, nè colta.

PIETRO BEMBO.

1470-1547.

SONETTO.

Lasso me, ch' ad un tempo e taccio e grido, E temo e spero, e mi rallegro e doglio; Me stesso ad un Signor dono e ritoglio; De' miei danni egualmente piango e rido. Volo senz' ale; e la mia scorta guido:

Non ho venti contrari, e rompo in scoglio: Nemico d' umiltà non amo orgoglio: Nè d'altrui nè di me molto mi fido. Cerco fermar il Sole, arder la neve;

E bramo libertate, e corro al giogo:
Di fuor mi cuopro, e son dentro percosso.
Caggio, quand' i non ho chi mi rileve;

Quando non giova, le mie doglie sfogo:
E per più non poter fo quant' io posso.

MICHELANGELO BUONARROTI.

1476-1564.

SONETTI.

Non ha l'ottimo artista alcun concetto,
Ch' un marmo solo in sè non circoscriva
Col suo soverchio, e solo a quello arriva
La man che obbedisce all' intelletto.

Il mal ch' io fuggo, e 'l ben ch' io mi prometto,
In te, Donna leggiadra, altera e diva,
Tal si nasconde; e perch' io più non viva,
Contraria ho l' arte al desiato effetto.
Amor dunque non ha, nè tua beltate,

O fortuna o durezza o gran disdegno,
Del mio mal colpa, o mio destino o sorte,
Se dentro del tuo cor morte e pietate

Porti in un tempo, e che 'l mio lasso ingegno
Non sappia ardendo trarne altro che morte.

Dimmi di grazia, Amor, se gli occhi miei
Veggono 'l ver della beltà ch' io miro,
Os' io l'ho dentro il cor; ch' ovunque io giro,
Veggio più bello il volto di costei.

Tu ' dei saper, poichè tu vien' con lei

A tormi ogni mia pace, ond' io m' adiro;
Benchè nè meno un sol breve sospiro,
Nè meno ardente foco chiederei.

La beltà che tu vedi, è ben da quella;
Ma cresce, poich' a miglior loco sale,
Se per gli occhi mortali all' alma corre.

Quivi si fa divina, onesta e bella,

Come a sè simil vuol cosa immortale;

Questa, e non quella agli occhi tuoi precorre.

Carico d' anni, e di peccati pieno,
E nel mal uso radicato e forte,

Vicin mi veggio all' una e all' altra morte,
E in parte il cuor nutrisco di veleno.
Nè proprie ho forze, ch' al bisogno sieno
Per cangiar vita, amor, costume e sorte,
Senza le tue divine e chiare scorte,
Nel mio fallace corso, e guida e freno.
Ma non basta, Signor, che tu ne invogli
Di ritornar colà l' anima mia,
Dove per te di nulla fu creata.
Primachè del mortal la prive e spogli,
Col pentimento ammezzami la via,
E fia più corta a te tornar beata.

Giunto è già 'l corso della vita mia

Con tempestoso mar per fragil barca
Al comun porto, ov' a render si varca
Giusta ragion d' ogni opra trista e pia:
Onde l'affettuosa fantasia,

Che l'arte si fece idolo e monarca,
Conosco ben quant' era d' error carca;
Ch' errore è ciò che l' uom quaggiù desia.
I pensier miei, già de' mie' danni lieti,

Che fian or, s' a due morti m' avvicino? L'una m' è certa, e l' altra mi minaccia; Nè pinger nè scolpir fia più che queti

L'anima volta a quell' amor divino,

Ch' aperse a prender noi in croce le braccia.

ALLA SIGNORA VITTORIA COLONNA,

Marchesana di Pescara.

Posciach' appreso ha l' arte intera e diva
D' alcun la forma e gli atti, indi di quello
D'umil materia in semplice modello
Fa il primo parto, e 'l suo concetto avviva:
Ma nel secondo in dura pietra viva

S'adempion le promesse del martello;
Ond' ei rinasce, e fatto illustre e bello,
Segno non è che sua gloria prescriva.

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