Simil di me model nacqu' io dapprima, Di me model, per opra più perfetta Da voi rinascer poi, Donna alta e degna. Se il men riempie, e 'l mio soperchio lima Vostra pietà, qual penitenza aspetta Mio cieco e van pensier, se la disdegna?
Per fido esempio alla mia vocazione Nascendo mi fu data la bellezza, Che di due arti m' è lucerna e specchio; Es' altr' uom crede, è falsa opinione. Questa sol l'occhio porta a quell' altezza, Per cui scolpire e pinger m' apparecchio. Son i giudizj temerarj e sciocchi, Che al senso tiran la beltà che muove, E porta al cielo ogni intelletto sano. Dal mortale al divin non vanno gli occhi Che sono infermi, e non ascendon dove Ascender senza grazia è pensier vano.
RISPOSTA ALL' EPIGRAMMA DI GIOVANNI STROZZI
sopra la Statua della Notte, che è questo:
La Notte, che tu vedi in sì dolci atti Dormir, fù da un Angelo scolpita
,,In questo sasso; e, perchè dorme, ha vita: Destala, se no 'l credi, e parleratti."
Grato m' è il sonno, e più l' esser di sasso; Mentrechè 'l danno e la vergogna dura: Non veder, non sentir m' è gran ventura; Però non mi destar; deh parla basso!
Indirizzato a Vittoria Colonna.
Mentre da vaghi e giovenil pensieri
Fui nodrita, or temendo, ora sperando, Piangendo or trista, ed or lieta cantando, Da desir combattuta or falsi, or veri; Con accenti sfogai pietosi, e feri
I concetti del cor, che spesso amando Il suo male assai più che 'l ben cercando, Consumava dogliosa i giorni interi. Or che d' altri pensieri, e d'altre voglie Pasco la mente, alle già care rime Ho posto, ed allo stil silenzio eterno. E se allor vaneggiando, a quelle prime Sciocchezze intesi, ora il pentirmi toglie Palesando la colpa, il duolo interno.
In lode di Carlo V, Imperatore.
Vincere i cor più saggi, e i Re più alteri, Legar con l'arme e scioglier con la pace, Dargli e tor libertà, quando a voi piace, Esser dolce agli umili, acerbo ai fieri;
Che pajan falsi appo de' vostri veri
Gli onori altrui; che di virtù la face Viva si accesa in voi, che ancor vi spiace Dell' error l'ombra e del vizio i pensieri: Nasce, Signor, da unir la salda mente
Con l'eterno voler, far poca stima, Che ceda al suo valor l'empia fortuna. Onde sarà la gloria vostra prima
In terra, e l'alma in ciel sovra ciascuna, Quella d' onor, questa d' amore ardente.
Si come augelli semplicetti, e puri Lunge dal suo natìo almo ricetto, Volano al Ciel, cercando a lor diletto Piagge più verdi, o fonti più sicuri: Così lasciando gli atri giorni, e scuri Dopo le spalle, e ogni mortal difetto, Con pari passo a fido albergo eletto Moveste, che nè tempo, e morte furi. Era per seguitarvi anch' io già mosso,
Ma invidia n' ebbe il mio destin nemico : In tanto vi perdei miser di vista. Lasso, ben so, che del mortal mio scosso Non fui, perch' io restassi più mendico, Menando vita tenebrosa, e trista.
Io pur doveva il mio bel Sole, io stesso 1 Seguir col piè, come segu' or col core, E le fredd' Alpi, e 'l Ren, ch' aspro rigore Mai sempre agghiaccia, rimirar d' appresso, El Danubio, ch' a giogo fu sommesso
Si grave dianzi; udir al Ciel l'onore Mandar di lui, al cui giovenil fiore Carco sì periglioso è già commesso. Ch' or mel par riveder di caldo sangue Tinger le piaggie, e le più folte schiere, Aprir con la sua invitta inclita spada; O quando in parte la battaglia langue, Dopo molto sudor, con l' elmo bere Onda, che per lui tinta al mar sen vada.
Indirizzato al cardinale Ippolito de' Medici, guerreggiando nel 1532 contro ai Turchi.
Schietti arboscelli, e voi bei lochi aprici, Ch' ogni mio mal narrar m' udite appieno, Il fosco stato mio fia mai sereno?
E i miseri miei dì lieti, e felici? Rivedrò mai le due luci beatrici
Della mia vita? o verrà quivi meno Quest' arso, e molle mio vivo terreno? Ditel voi, piagge, e ditel voi, pendici. Dimmel tu chiaro, e mormorante fiume, Che del mio lagrimar sovente cresci, Cangerà mia fortuna mai costume? Mentre ciò chiedo, par, ch' augelli, e pesci Dican: convien, che sempre ti consume, Se col morir del tuo dolor non esci.
Sul vago fiume, che le piagge oblico 1 Vostre native mormorando bagna, Candido augel, allor ch' ogni campagna Zeffiro infiora a pensier verdi amico, Col suon dell' aure per costume antico Le chiare note sue dolci accompagna, E quanto dura quei, tanto si lagna, Fuggendo il verno d' amendui nemico. Così al partir, ed al tornar del vento S'acquieta, e piagne, e lo bel vostro nido Empie di dilettoso almo concento.
Tal io al suon di voi mi desto, e grido, E mentre io v' odo di cantar consento, O caro mio vital zeffiro fido.
CAPITOLO AI SIGNORI ABATI.
Signori Abati miei, se si può dire,
Ditemi quel, che voi m' avete fatto: Che gran piacer l'avrei certo d' udire. Sapevo ben, ch' io era prima matto, Matto, cioè, che volentieri amavo, Ma or mi pare aver girato affatto. Le virtù vostre mi v' han fatto schiavo, E m' han legato con tanti legami,
Ch' io non so quanto i piè mai me ne cavo. Gli è forza, ch' io v' adori, non ch' io v' ami, D'amor però di quel savio d' Atene,
Non di questi amoracci sporchi e infami. Voi siete sì cortesi e sì da bene,
Che non par da me sol, ma ancor da tutti, Amor, onor, rispetto vi si viene.
Ben sapete, che l' esser anche putti
Un non so che più v' accresce e v' acquista, Massimamente, che non siete brutti.
Ma per Dio siavi tolta dalla vista,
Nè dalla vista sol, ma dal pensiero Una fantasiaccia così trista.
Ch' io v' amo e vi vuo' bene a dir il vero, Non tanto perchè siete bei, ma buoni; E potta ch' io non dico di san Piero! Chi è colui, che di voi non ragioni?
Che la virtù delle vostre maniere, Per dirlo in lingua furba, non canzoni? Che non è oggi facile a vedere,
Giovane, nobil, bella e vaga gente,
Ch' abbia anche insieme voglia di sapere. Ch' adorni il corpo ad un tratto, e la mente, Anzi ch' a questa più ch' a quello attenda, Come voi fate tutti veramente.
Però non vuo', che sia chi mi riprenda, S' io dico, che con voi sempre starei A dormir, ed a far ogni faccenda. E se i fati o le stelle, o sien gl' Iddei Volessin, ch' io potessi far la vita Secondo gli auspici e voti miei,
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