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ampiamente nel primo libro delle Tusculane, provando che la morte non è un male nè per quelli che già son morti nè per quelli che devono morire, e talvolta togliendo ad Epicuro persin le parole, come in questo passo: "in quo quid potest esse mali, quum mors nec ad vivos pertineat nec ad mortuos? Alteri nulli sunt, alteros non attinget. 1 E alcuni argomenti addotti da Cicerone si riscontrano anche nel dialogo del Leopardi. Cicerone per esempio, afferma: "quam (idest mortem) qui leviorem faciunt somni simillimam faciunt.... Quid curet autem, qui ne sentit quidem? Habes somnum imaginem mortis eamque cotidie induis. Et dubitas quin sensus in morte nullus sit, quum in ejus simulacro videas esse nullum sensum 2 e il Morto del Leopardi dice di non essersi accorto del punto proprio della morte, come nessuno s'accorge del momento che comincia a dormire; e domanda: che dolore ha da essere quello del quale chi lo prova non se ne accorge? Cicerone non crede che l'anima si diparta dal corpo con dolore; perchè il più delle volte si muore senza accorgersene e qualche volta anche con piacere (fit plerumque sine sensu, non numquam etiam cum voluptate); e il Leopardi dimostra per l'appunto che il morire può bene essere causa di piacere, non mai di dolore.

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Anche Ovidio s'accosta ad Epicuro, quando dice della morte:

Aut fuit, aut veniet, nihil est praesentis in illa;
Morsque minus poenae quam mora mortis habet.
(Her. Epist. X, v. 82)

1 Tuscul. lib. 1° XXXVIII 91. Tuscul. lib. 1o XXXVIII 92. Tuscul. lib. 10 XXXIV 82.

Parimenti L. A. Seneca, spesso epicureo nel suo stoicismo, compendia il sofisma di Epieuro in un verso delle sue Troiane1:

Post mortem nihil est, ipsa que mors nihil

e nella 4 epistola a Lucilio, trattando del timor della morte, gli scrive: "Nullum magnum quod extremum est. Mors ad te venit? timenda erat, si tecum esse posset: necesse est, aut non perveniat aut transeat „. Sicchè si vede che è un errore il credere che lo spogliare la morte della veste nera e orribile, in cui al volgo appare avvolta, sia solamente una conseguenza logica del pessimismo che considera la vita un male. Epicuro e Cicerone, per esempio, non sono pessimisti, eppure si rappresentano la morte. con poetica dolcezza e ne ragionano con filosofica rassegnazione, sia che intendano con ciò di non turbare la vita con inutili timori, sia che nella commentatio mortis facciano consistere tota philosopho

rum vita.

Il Leopardi, che certamente non ignorava questi autori e che anzi nel Dialogo ricorda il parere degli Epicurei intorno alla natura dell'anima e il capitolo settimo del De senectute in cui Cicerone dice che nessuno è talmente decrepito che non si prometta di vivere almanco un anno, tuttavia non cita nè Epicuro nè Cicerone in quegli argomenti che sono di

1 Verso 397. Questa è una delle tragedie che anche la critica moderna con fondate ragioni attribuisce a Seneca morale. Vedi il pregevole lavoro di Alfredo Pais, П Teatro di L. A. Seneca (Torino, Loescher, 1890), nel quale avrei però desiderato che si fosse meglio studiata la somiglianza delle massime del filosofo Seneca con quelle sparse nelle tragedie attribuitegli, non come argomento della loro autenticità, ma come elemento di un più compiuto giudizio sul loro valore letterario.

Eppure il Leopardi conosceva le vite dei filosofi di Diogene Laerzio, il quale alla vita di Epicuro (lib. X) aggiunge anche la

maggior importanza e che costituiscono, come a dire, i capisaldi del suo dialogo. Ma v'ha di più: Lattanzio nel libro 3o Divinarum institutionum, opera che il Leopardi ha tanto studiato da valersene e citarla spesso nella sua Storia dell'astronomia e nel Saggio degli errori popolari degli antichi, confuta il sofisma di Epicuro nel modo che segue: "At idem (Epicurus) nos metu liberat mortis, de qua haec ipsius verba sunt expressa: Quando nos sumus, mors non est: quando mors est, nos non sumus; mors ergo nihil ad nos. Quam argute nos fefellit! quasi vero transacta mors timeatur qua jam sensus ereptus est, ac non ipsum mori, quo sensus eripitur. Est enim tempus aliquod, quo nos etiamnum sumus et mors tamen nondum est; idque ipsum videtur miserum esse, cum et mors esse incipit et nos esse desinimus. Nec frustra dictum est: Mors misera non est. Aditus ad mortem est miser: hoc est, morbo tabescere, ictum perpeti, ferrum corpore excipere, ardere igni, non quia mortem afferunt, sed quim dolorem magnum1„. Orbene anche il Leopardi, comechè con intendimenti e sentimenti diversi, tratta la stessa questione del punto proprio della morte, in cui le operazioni vitali cessano del tutto, e non per poco spazio di tempo, ma in perpetuo, vale a dire dell'ipsum mori quo sensus eripitur.

citata epistola a Meneceo; conosceva pure le opere di Pietro Gassendi, il grande interprete delle dottrine di Epicuro. Il Leopardi cita la vita di Epicuro, scritta da Diogene Laerzio, per es. nel Saggio sopra gli errori popolari (pagg. 122, 124, 171); nella sua Storia dell'astronomia dalla sua origine fino all'anno MDCCCXI non solo si vale dell'opera Philosophiae Epicuri Syntagma del Gassendi, ma dell'autore narra la vita a pagg. 259-60 (Vol. 2o Opere inedite).

1 Lib. III, pagg. 235-37

Ediz. Parigi 1748.

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Il Petrarca, il poeta da cui il Leopardi tolse in parte lo bello stile, nonchè certe note malinconiche, nel secondo capitolo del Trionfo della Morte imagina di ragionare con Laura intorno al punto della morte:

Ed io: alfin di quest'altra sirena

Ch'à nome vita, che per prova 'l sai,
Deh dimmi se 'l morir è si gran pena.
Rispose: mentre al vulgo dietro vai,
Ed a l'opinion sua cieca e dura,
Esser felice non puo' tu giammai.

La morte è fin d'una pigione oscura
Agli animi gentili; agli altri è noia,
Ch'anno posto nel fango ogni lor cura

1

Negar, disse, non posso che l'affanno
Che va innanzi al morir, non doglia forte,
Ma più la tema del futuro danno:

Ma pur che l'alma in Dio si riconforte,
El cor, che 'n se medesmo forse è lasso,
Che altro ch'un sospir breve è la morte?

In questi versi, com'è naturale, il Petrarca parla più da poeta cristiano che da severo filosofo. E pure cristianamente G. Battista Gelli combatte il timor della morte nel 2° dialogo della Circe e meglio nei Capricci del bottaio. 2 Dell'affanno che va innanzi al morire trattarono in modo più o meno bizzarro alcuni scrittori del cinquecento e del seicento che si

1 Veggasi con quanta ragione M. A. Tancredi in un suo articolo (Imitazione o plagio? v. Fanfulla della domenica, 6 gennaio 1889) intorno al noto sonetto del Monti Sopra la morte, asserisca che il Crébillon fu il primo a mettere in relazione con la morte i vari affetti e le condizioni dell'uomo. E neppure il Petrarca fu il primo!

2 V. Ragionamenti II-VII-X.

piacquero di questioni curiose. Basterà ricordare che quello scapigliato di Ortensio Laudo, specie di camaleonte letterario trasmutabile in tutte guise, tra i Dubbi di Monsignor Silva, pone anche questo: "Perchè chiamasi la morte l'ultima delle più terribili cose che ne avenghino naturalmente però accadendoci?,, e che Alessandro Tassoni ne' suoi Pensieri diversi, opera oggidi troppo e a torto dimenticata, ricercando qual di tutte le passioni sia la più intensa e vigorosa dell'uomo, così ragiona del timor della morte: "Ma il timor della morte, chiara cosa è, che quando la morte è certa e vicina, come nei condannati e condotti alle forche, se gli uomini non sono più che umani, è più terribile di tutte le passioni; che come la vita è il maggior bene che ne possa dar la natura, così la morte, che ne priva di vita, è il maggior male che paia a noi di poter ricevere; onde è ragione che più di tutti gli altri ne conturbi e ne prema. Ma, perchè d'ordinario la morte sempre suol essere accompagnata da incertezza e da speranza di vita, però fuora de' casi, ne' quali vicina e inevitabile la stimiamo (che molto di rado e per lo più una sol volta e non a tutti suole avvenire), il suo terrore non ne suol perturbare con impeto molto gagliardo.", 2 È noto poi che Daniello Bartoli, con gli stessi intendimenti ascetici del Cardinal Bellarmino,3 ha scritto un grosso trattato dal titolo L'uomo al

1 V. Selva di bellissimi dubbi con dotte solutioni a ciascun dubbio accomodate di nuovo rivista e d'utili annotationi arricchita da Annibale Novelli Piacentino (In Piacenza, Giov. Bazachi 1597) pag. 263. È opera di Ortensio Lando.

2 V. Pensieri diversi Libro VI. Quesito XXVI.

3 Il celebre cardinale scrisse un trattato in latino intorno all'arte di ben morire, che recentemente è stato tradotto in italiano dal sac. Pietro Colbachi ni (Torino, libreria salesiana 1885).

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