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CRONACA

CONTEMPORANEA

Roma 11 novembre 1850,

1.

Allocuzione della Santità di N. S. Pro IX nel Concistoro del 1 Novembre 1850 sopra gli affari ecclesiastici Piemontesi.

Venerabili Fratelli.

Nel discorso che vi tenemmo il 18 di Maggio di quest'anno non abbiamo tralasciato, Venerabili Fratelli, di ricordare brevemente e lamentare con esso voi quanto poco prima era stato fatto e decretato contro il diritto della Chiesa nello Stato del carissimo nostró figliuolo in Cristo il Re di Sardegna, ed insieme vi abbiamo significato essere Nostro pensiero di fare su tutto ciò nel consesso vostro parole più speciali ad altro tempo più opportuno. Ed era veramente Nostra speranza che intanto alle ingiurie colà recate alla Chiesa si sarebbe apportato qualche rimedio il quale Noi potessimo annunziarvi. Ma poichè la cosa andò difatti assai diversameate dal nostro desiderio, abbiamo finalmente creduto esser ufficio nostro di lamentarci, e riclamare con parole più gravi, contro tutto ciò che fu fatto o decretato a danno della Chiesa nel territorio sia continentale sia insulare di quel regno: e toccare insieme brevemente quanto fin dal principio fu da noi operato in quest' affare.

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Voi conoscete, o Venerabili Fratelli, il solenne Concordato conchiuso il 27 Marzo dell' anno 1841 fra l'inviato Pontificio e Regio approvato poi e confermato senz' indugio dal nostro Predecessore di venerata memoria Gregorio XVI, e dalla felice memoria di Carlo Alberto Re di Sardegna; ben sapete che quel Concordato tendeva a ciò che le immunità ecclesiastiche in vigore in quel regno da molti secoli in forza della sanzione dei sacri Canoni rilasciate poi in parte per patti più recenti e per benignità dei Romani Pontefici, fossero ancora circoscritte ad altri nuovi e più strett iconfini. Nè mancò nelle provincie subalpine chi si meravigliasse dell' indulgenza in ciò del nostro Predecessore quasi che troppo ampie fossero state le concessioni: ed anche il Regio governo si astenne per alcuni anni dall'introdurre le leggi di quel Concordato nell'isola di Sardegua. Se non che lo stesso governo nell'anno 1848 ci chiese un nuovo Concordato, e il dì 14 di Settembre di quell'anno il Regio Inviato consegnò al Legato da Noi deputato lettere proponenti la formola di cotesto Concordato distinto in pochi articoli preceduti da un certo proemio certamente di momento non l'eve. Conobbe facilmente il Nostro Legato che quella petizione non si poteva in modo veruno ammettere in quell' ampiezza che s'intendeva in quelle parole: anzi che neppur trattavasi in lei di patteggiare qualche vicen levole concessione: giacchè nulla vi si proponeva in che il governo paresse contrarre verso la Chiesa anche la più piccola obbligazione. Pertanto il medesimo Nostro Legato propose nuovi articoli consentanei, nel miglior modo che credette potersi fare, ai voti di quel governo, ai quali ne aggiunse altri aventi per iscopo che la Chie sa la quale era per perdere quasi ogni civile immunità compensasse almeno quella perdita con un più libero esercizio di altre cose di suo diritto. Dichiarò allora il Regio Inviato che egli avrebbe chieste al suo governo novelle istruzioni per poter rispondere pienamente alle cose proposte. Non sappiamo per verità se quelle istruzioni siano mai giunte a Roma: ma si può congettuare che il Regio Governo abbia differita la cosa per le notissime catamità che poco dopo afflissero quasi l'intiera Italia, e che constrinsero Noi stessi a partire dal nostro Temporale Dominio. Tranquillate poscia le cose, quando vicino a Napoli aspettavamo il tempo opportuno di ritornare a Roma, Ci fu mandato colà un nuovo In

viato straordinario che aveva fra le altre cose commissione di ricominciare le trattative intramesse del Concordato. Ma dopochè ebbe trattato di altri negozi dichiarossi richiamato dal Regio governo, e parti senza aver per anco incominciato l'affare. Credevamo dunque dover sperare che fosse paruto ai Ministri del Re più opportuno di rimettere quelle trattative a tempo più idoneo, quando cioè fossimo ritornati a Roma.

Ma dopo pochi mesi udimmo che il Regio Ministero aveva portato alle Camere del Regno una nuova legge sulla compiuta abolizione delle immunità dei chierici e delle chiese sull'attribuzione ai Tribunali laici del giudizio anche sulle nomine dei Patroni ai Benefizi ecclesiastici e di a'trettali cose da stabilirsi allora e poi contro il diritto della Chiesa, e non senza pericolo della Religione.

Appena che Ci venne annunziata la proposta di tali leggi ingiungemmo di reclamar loro contro sia al Cardinale Nostro Pro-Segretario di Stato, sia anche al Nostro Apostolico Nunzio residente allora a Torino. Ma tornate a niente ambedue le riclamazioni convenne protestare poco dopo contro le stesse novità sopra a cennate approvate dalle due Camere, e subito sanzionate dalla Regia autorità. Nell'andamento e nell'esito del qual affare non solo è a dolersi che siano stati col fatto violati e conculcati i santissimi diritti della Chiesa da tanti secoli in vigore secondo le sanzioni dei Canoni, ma ancora che molti fra i Deputati e Senatori del Regno che ragionarono nel pubblico deliberare di ambedue le Assemblee, eil cui parere vinse, non dubitarono di arrogare a sè ossia alla Podestà laica l'autorità di rescindere, e dichiarare e rendere nulle senza il consenso della Sede Apostolica, anzi Lei reclamante, le solenni convenzioni con Quella stabilite sopra l'uso di quei medesimi diritti.

Ben vedete, Venerabili Fratelli, quali cose queste siano e di qual peso: ben vi accorgete qual sarebbe la condizione delle cose sacre se non si serbi il dovuto onore ai diritti della Chiesa, se si disprezzino i suoi Canoni se non si faccia conto del diuturno possesso se finalmente si violino i patti legittimamente convenuti tra questa Santa Sede e la Podestà Civile. Nè certamente ignorate che assai rileva non solo alla Religione, ma anche all'Ordine Civile e ad ogni pubblico e privato affare che le medesime convenzioni eccleciastiche si abbiano per sante ed inviolabili: poichè disprez

zato e infranto il loro vigore e diritto cadrebbe ancora ogni altra guisa di pubblici e privati patti.

Alle ingiurie recate alla Chiesa ed a questa Santa Sede dagli accennati decreti, dopo breve tempo altre se ne sopraggiunsero, quando cioèi Regi Impiegati, e Giudici laici citarono ai loro tribunali principalmente due sacri Pastori nostri Venerabili Fratelli, l'Arcivescovo di Sassari, e l'Arcivescovo di Torino; e quello sostennero invece di carcere in casa sua, questo a mano armata condussero nella Cittadella di Torino ed ambedue finalmente condannarono a pena civile; e ciò non per altra cagione se non perchè secondo il loro pastorale uffizio avevano dato ai Parroci istruzioni sul modo con cui provvedere in cospetto della nuova legge alla coscienza loro, ed a quella delle loro greggi timorate di Dio. Questo dunque si arrogò l'autorità civile di giudicare delle istruzioni che i Pastori delle Chiese avevano date secondo il loro uffizio a norma delle coscienze.

Poco dipoi si aggiunse un'altra ingiuria ancor più grave dopochè un certo nobile Personaggio da tutti conosciuto per uno dei precipui consiglieri della sopradetta ingiustissima legge, e che ricusava di riprovare quel suo fatto pubblicamente, fu giudicato per autorità dell' Arcivescovo di Torino indegno di ricevere gli ultimi sacramenti dei moribondi. Nella qual occasione e lo stesso Arcivescovo a mano armata fu strappato dalla sua Chiesa, e gettato in un forte sotto severa guardia, ed il Parroco del sacro Ordine dei Servi di Maria Vergine che aveva obbedito all'Arcivescovo, secondo era suo dovere, tutti i suoi religiosi compagni furono per forza cacciati dal loro Convento ed in altri traslocati: come se potesse appartenere alla Laica Potestà il giudicare dell'amministrazione dei divini Sacramenti, e delle disposizioni necessarie per riceverli.

Nè basta. Questa stessa causa dell'amministrazione dei Sacramenti, e l'altra ancora di nuove istruzioni per regola delle coscienze, date prima dal mentovato Arcivescovo anche per nostro mandato, furono deferite al Tribunale di appello di Torino: dal quale subito il dì 25 del mese di settembre fu stabilito che l'Arcivescovo fosse esiliato dai regii Stati e i beni dell'Arcivescovado posti sotto sequestro. Pressochè nel medesimo tempo cioè il dì 24 dello stesso mese il tribunale di appello del Regno di Sardegna diede simile decreto contro il nostro venerabile Fratello l'Arcive

scovo di Cagliari a cui s'appose a delitto di aver dichiarato con parole generali (cioè non esprimendo il nome di alcuno) che avevano contratte col fatto medesimo le censure Ecclesiastiche coloro, i quali violando l'immunità della residenza Episcopale avevano osato entrare a forza in una parte dell'archivio episcopale. In vigore de' quali decreti i predetti Pastori furono privati del possesso ed amministrazione dei beni e dei redditi temporali spettanti alla sacra mensa, e l'uno fu costretto a recarsi in Francia, l'altro in questa nostra alma città.

Ma vi sono ancora altre cose, e queste non leggiere, le quali il governoSubalpino stabili e fece contro i diritti della Chiesa, e a danno della Religione. Fra queste non possiamo non dolerci gravemente della funestissima legge che sapemmo essere stata fatta fino dal 4. ottobre 1848. sopra la pubblica istruzione e le scuole pubbliche e private delle primarie e secondarie discipline. Tutto il regime delle quali, eccettuati in qualche modo i Seminarii vescovili, vedesi in quella legge attribuito al Ministero del Re ed agli impiegati da lui dipendenti: ed attribuito per guisa che nell'articolo 58 di essa legge si stabilisce e dichiara nessua altra autorità essere per avere diritto d'intromettersi nella disciplina delle scuole, nel regime degli studi, nella collazione dei gradi, nella scelta od approvazione de' maestri. Quindi in quel paese cattolico le scuole di qualunque fatta, e perfino le cattedre delle sacre scienze, delle quali si fa menzione nella legge, non che l'istituzione dei fanciulli negli elementi della fede cristiana, il quale ufficio la stessa legge attribuisce ai maestri elementari, sono sottratte all'autorità dei Vescovi. E perchè niuno possa di ciò dubitare gli stessi direttori di spirito sono nel mentovato articolo numerati tra quelli che possono scegliersi ed approvarsi dal Regio Ministero o dagli impiegati suoi subalterni. Donde viene che i sacri Pastori non solosono ingiustissimamente privati di quella speciale autorità che avevano da molti secoli, sopra almeno molti istituti di studi in forza delle Costituzioni Pontificic e Regali, e delle leggi di prima fondazione, ma neppure riesce loro libero d'invigilare scpra ciò che concerne nel regimedelle scuole la dottrina della fede, i costumi cristiani o il culto divino.

Giova certamente sperare che almeno nell' esecuzione di quella legge si abbia qualche riguardo all' Episcopale autorità. Tuttavia si vede aver

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