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della gloria per uno spazio così lungo di tempo quanto il consenti la vicissitudine delle umane cose.

Non si avrebbe potuto ottenere che in apparenza per forza o per inganno il consenso di quegli che rovesciarono una così fatta legislazione. Adoperò bene apertamente il principe che si sentiva chiamato dal cielo a pronunciare secondo che dettava la sua coscienza in favore del diritto e dell' equità; non lasciò che si costituissero giudici nella propria causa quelli che ne potevano avere un' utilità, costituirsi giudici ad usurpati privilegi, che mutati ormai nella loro intima natura non aveano più che una vita di

nome.

Gli Oligarchi stavano ma quel diritto che gli fu consentito nell' esercizio del potere, non valse che entro i brevi termini in cui i loro antenati ne aveano partecipato, e in questi brevi termini fa ancora tanto più ristretto in quanto che i presenti paragonati ai loro predecessori erano venuti meno di numero di vigore e d' importanza. Quello che s'era spento in loro, era trapassato laddove fioriva una nuova vita. Se era nella loro mente di conservare intatto il loro corpo, avrebbero dovuto facendo pieno il loro numero conservarsi freschi ed intieri. Rispetto alle cose affatto nuove che sorgevano e fiorivano fuori di questa sfera non potevano far valere diritto alcuno, e la parte che gli poteva essere acconsentita in grazia di transazioni non era per essi che un puro beneficio.

La nuova vita che si sveglia accanto a cose antiche non è un attentato a ciò che viveva precedentemente. Ma sarebbe bene un assassinio spegnere i moti di questa vita novella, una ribellione contro la provvidenza. Siccome la vita più perfetta è quella che anima gli organi più vari, il più nobile governo è quello dove i poteri originari e

distinti sono congiunti l'uno presso all' altro in centri comuni d'azione e costituiscono un tutto conservando le loro infinite varietà. Quel che intervenne ad Atene quando in odio della propria casta il nobile Clistene spense le distinzioni colla fusione delle tribù, fu ad un tratto ingiusto e pernicioso; fondò un' egualità che si convertì in torbida democrazia, benchè una fortuna inconcepibile preservasse Atene dall' oppressione dei tiranni. Servio non restriuse la libertà di alcun romano, se non che acquistata a poco a poco questa libertà, aveano obbliato che in origine le minores gentes e le seconde centurie non ne erano private meno del comune attuale.

Venne un tempo in cui i mani di questi fieri patrizi, errando fra i loro discendenti, furono testimoni dell' altezza in cui sorse il comune con tutta la repubblica, in grazia di quelle medesime leggi da cui s'erano lasciati esacerbare sino alla ribellione ed al tradimento; allora pieni di rammarico dovettero confessare la loro cecità se amarono veramente la patria. Senza queste leggi Roma poteva bene, come l'Etruria, conseguire una fragile grandezza che non avrebbe durato che poco spazio di tempo. I Romani non avrebbero avuto pari anche in questo agli Etruschi fanteria di linea mentre la potenza Sannita, fondata sull'eccellenza dei fanti avrebbe finito con soverchiar Roma stessa prima che i due popoli si urtassero fra loro.

Se la costituzione si fosse serbata con le leggi che v' erano annesse e così fatte come se ne dà merito a Servio, Roma avrebbe raggiunta duecento anni più presto e senza sacrifizio quella fortuna che non poteva afferrare che a prezzo di forti battaglie e grandi patimenti dopo che gli furono tolte presso che tutte queste concessioni. Ben è vero che se la storia d'un popolo è come la vita d'un uomo, e sc

il ben' essere d' un' epoca compensa π mal' essere d'un* altra, mal' essere senza cui non si avrebbe potuto avere quel bene, Roma non ebbe pregiudizio di sorta. L'indugio che si frappose prima di poter condurre a termine la costituzione differì pur lungo tempo la decadenza e la degenerazione della nazione; oltre che quella lotta penosa l' informò per così dire ad una vita più operosa. Ma infamia agli offensori e maledizione a coloro che distrussero per quanto fu in essi la libertà della plebe.

TARQUINIO IL TIRANNO.

EPOCA DELL' ESPULSIONE DEI RE.

Questa fu opera dell' usurpatore, fu il prezzo a cui i suoi complici gli accordarono la dignità reale senza che vi fosse neppure apparenza di consenso per parte delle curie. Furono aboliti tutti i diritti dati gli onori accordati da Servio al comune; s'interdissero le radunanze pei sacrifici e per le feste che più che altro ne aveano fatto un corpo; e prostrò di nuovo l'eguaglianza dei diritti di cittadino, e si rinnovò l'imprigionamento per debiti. Simili ormai ai semplici metechi i ricchi plebei furono gravati di tasse arbitrarie, ed i poveri di lavori forzati per un sottile salario ed un magro mantenimento; le miserie ne trassero molti a togliersi la vita.

In tanto gli oppressi ebbero ben tosto la trista consolazione di veder tramutarsi in costernazione la gioia dei loro nemici. Come presso i tiranni greci i senatori ed i principali cittadini furono i primi oggetti delle inquietu

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dini e della avidità dell usurpatore, ed appunto al costume dei despoti ei teneva una guardia onde poter meglio regnare secondo il suo capriccio. A molti fu tolta la vita, ad altri la patria coll' esilio, l' avere colla confisca. Non erano riempite le vacanze dei magistrati, e quel senato che per la pochezza del numero contava si poco non era neppur convocato. Tiranno così nequitoso come qualunque altro di quest' epoca in Grecia (311), Tarquinio era così ben' atto come qualunque altro ad imprendere gran cose per lo splendor dello stato e la fortuna gli fu per lungo tempo fida. Nè è meraviglioso che la Dea acconsentisse agevolmente i buon' esiti a colui che non esitava giammai ad adoperar i modi più efficaci. Esercitava nel Lazio una vasta influenza per opera di un Ottavio Mamilio di Tuscolo a cui avea sposata una propria figlia. Turno Erdonio d'Aricia che scongiurò i Latini di non confidarsi a lui fu dannato a morte dalla propria assemblea per una bugiarda accusa di Tarquinio, giacchè alcune armi che per tradimento certi schiavi aveano occultate nella sua casa parevano convincerlo del delitto. Il Lazio si curvò all' onnipotenza di Roed allora in poì il re alle ferie latine sacrificò sul monte Albano innanzi al tempio di Giove Laziare quel toro, la di cui carne era dispensata in tutte le città per tutti i confederati. Ciascuno recava a questo sacrificio il prefisso contingente di montoni di latte di caci e di focaccie. Queste feste erano piene di antiche gratulazioni a cui in progresso si voleva attribuire un senso simbolico. E per questo si volle che l'altalena ricordasse come Latino dopo che era scomparso, era stato cercato in terra ed in cielo. Gli Ernici pure si sommisero al re, e si congiunsero a questa festa. Ma le loro coorti accompagnavano senza farne

ma,

parte, le legioni che erano costituite di centurie romane e latine ordinate in manipoli.

Questa armata si mosse primamente contro Suessa, Pomezia, la città floridissima dei Volsci ricca di vasti e fertili campi, che negli anni di penuria furono il granaio di Roma. Ella fu presa, e si vendettero tutti i suoi abitanti liberi o schiavi e tutto i loro averi e la decima del prodotto fu consacrata all' edificazione del tempio del Campidoglio che nella guerra contro i Sabini, il padre del re avea fatto voto di erigere. I soli fondamenti assorbirono il bottino di Pomezia, e per continuar l'edifizio convenne aiutarsi con gravi imposte e dure corvees. Ai tempi di Tazio il Campidoglio era stato ornato di altari e di cappelle, erano picciole aree consacrate di qualche piede quadrato, ma dedicate ad un gran numero di divinità che non si potevano spossessare senza il consenso degli auspici. Tutti cessero il loro posto al cospetto delle tre supreme divinità della religione etrusca Giove, Giunone, Minerva. Ne stettero che juventus e terminus per dinotare che la gioventù del popolo romano non sarebbe stata caduca e che i suoi confini non si sarebbero ristretti finchè il pontefice , per onorare gli Dei, salirebbe il Campidoglio accompagnato dalla vergine taciturna. Il tempio e per conseguenza il monte Tarpeio furono chiamati Campidoglio perchè negli scavi pei fondamenti, gli operai rinvennero un capo umano ancora fresco e sanguinoso, presagio che annunziava che questo luogo era destinato a diventare la capitale del mondo.

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I libri sibillini si conservarono in un sotterraneo sotto un santuario di Giove. Una vecchia non nota avea proferti al re nove libri per trecento monete d'oro; accolta con scherno, ne brucciò tie, e poi tre ancora presta a distrug

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