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verso Roma accompagnato da molti; ma la città gli era serrata sul viso. In questo mezzo Bruto fattosi guida dei volontarj guadagnava il campo per una strada recondita. Erano state obliate tutte le querele coi patrizj tutte le ingiustizie tutte le diffidenze le centurie dell' armata confermarono ciò che avevano fermato le curie. Il re deposto convenne coi figli Tito ed Aronte a Cere ove gli esuli di Roma aveano diritto di porsi come cittadini. Sesto ritornò a Gabio come nel suo proprio principato. Questa temerità dicde animo agli amici di quelli che avea immolati di fare una vendetta di sangue.

Si conchiuse una tregua con Ardea e l'armata tornò a Roma. Una solenne risoluzione delle centurie raccolte nel campo di Marte confermò il partito preso dalle curie e dall' esercito: bandi per sempre Tarquinio e la rea famiglia, disfece la dignità reale e mise fuori della legge chiunque imprendesse di regnare in Roma: giurarono tutti per sè e pei posteri loro. Fu ristaurata la legislazione di Servio, e tolta di nuovo la schiavitù per debiti; si acconsenti ai plebei il diritto di collegarsi per tribù e cantoni e si affidò in conformità a queste leggi il potere reale nelle mani di due uomini e per un anno soltanto. Le centurie gradirono per consoli Bruto e Collatino e le curie gli conferirono l'imperium.

Da Cere ove l'esule principe non avea trovato che un ricovero, s' indirizzò a Tarquinia, dove fece dono persino ai Vejenti stessi di quelle parti di territorio che Roma si era usurpate in quelle contrade. Etruschi ambasciatori intercessero dal senato la ristaurazione del re o se non altro

che fossero restituite le proprietà ed i beni di tutti quelli, che aveano esulato con lui i quali non erano pochi (318) e tutte di poderose famiglie (319). Le curie che dovevano

risolvere su questo particolare, perchè le confische erano state fatte a profitto dei cittadini (320) votarono per la redenzione di questi beni. Questa pratica concesse tanto spazio agli ambasciatori di poter tramare una cospirazione a cui parteciparono i Vitelli coi figli d'una loro sorella i due figli di Bruto di compagnia cogli Aquilj parenti di Collatino, e molti altri ancora. Parecchi di questi congiurati piangevano la licenza e l'impunità indi in grazia del grado e della parentela erano francati d'ogni delitto sotto Tarquinio. Parecchi forse aveano le libertà plebee per un male più grande di tutti i misfatti dei tiranni. Uno schiavo di buon animo che avea avuto sentore di alcuni scellerati divisamenti, intese senza essere scorto l'ultimo disegno dei congiurati ch' erano convenuti insieme in un oscuro ritrovo. Gli appartamenti delle case romane per la più parte non aveauo luce che dalla porta. Furono catturati sulla sua sola denuncia, e tratti di buon mattino al comizio mentre sedevano i consoli, ed eranvi raccolti tutti i cittadini. Bruto dannò i suoi figli in qualità di padre, le di cui decisioni non erano sottomesse ad appello, e prefisse il modo di morte a norma de' suoi doveri consolari. Gli altri condannati potevano come patrizj invocare la decisione delle curie. Ma il giudizio d' un padre rese impossibile ogni pietà, essi espiarono tutti il loro delitto.

Cotesto tradimento che fu per essere consummato rese nulla la buona intenzione per la restituzione dei beni. Era ormai chiaro che conveniva assicurare la libertà o la fedeltà del comune. Le proprietà mobili dei Tarquini furono date da saccheggiare alla moltitudine. I domini rurali, e quelli della corona divisi fra i plebei; e i campi che si stendevano dalla città al fiume, furono consacrati a Marte padre di Roma. Sopravvenuto il raccolto pareva non pio Niebuhr T. II.

di levare le messi onde i covoni furono gittati al fiume che scorre lentamente in estate e quivi s'accumularono e costituirono il letto dell'isola che sette generazioni più tardi doveva ricevere la divinità di Epidauro.

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Tutta la gente tarquinia fu cacciata in esiglio e Collatino istesso fu tratto a deporre il suo grado ed abbandonar Roma. Morì a Lavinio; ma non presso i nemici. Publio Valerio fu eletto in luogo sue. Si mosse in favor dei Tarquini un grande esercito di Vejenti ed i Tarquiniensi, ed i Romani si mossero contro essi. Aronte Tarquinio conduceva la cavalleria etrusca, Bruto la romana tutti e due si gittarono oltre le legioni per darsi di cozzo tutti e due caddero mortalmente feriti. I fanti continuarono la battaglia e tenzonarono finchè la notte divise i due eserciti i quali egualmente prostrati nè l' uno nè l' altro volle darsi per vinto. A mezzanotte fu inteso da ambe le parti il genio della foresta Arsia, la voce del quale annunciava la vittoria ai Romani perchè era caduto un etrusco dippiù. Erano queste sorti di voci che spandevano. i terrori panici; gli Etruschi si misero in piena rotta quando si numerarono i morti, se ne trovarono mille trecento de' suoi, ed un meno soltanto dal canto dei Romani. Publio Valerio se ne tornò trionfante in città ed il giorno seguente rese gli ultimi uffici al corpo di Bruto. Le matrone portarono il lutto un anno intiero come pel proprio padre; e la repubblica alzò nel Campidoglio la sua statua in bronzo armato di clava, fra quelle dei sette re.

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Valerio temporeggiando di troppo a fare eleggere un successore a Bruto ed edificando su l' alta Velia ove avea dimorato Tullo Ostilio (presso santa Francesca Romana ), una casa di pietra, che vista dal foro avea sembiante d'una fortezza destò il sospetto che volesse occupare il

grado di re. La sua innocenza non sera punto avveduta di questi sospetti, fattone avvertito fece atterrare la casa per cui il popolo vergognoso e pentito gli fece dono del terreno al piede del pendio che conduce a Velia, ed onde conservare una perenne memoria di questo dono v'aggiunse il privilegio d' aprire le sue porte sulla pubblica strada.

Valerio non avea voluto occupare tutto solo il consolato se non per porre colle leggi un termine fisso alla potenza dei consoli senza essere impedito da un collega l'opposizione del quale sarebbe stato un ostacolo inespugnabile. Questi limiti in quanto all' autorità regia che avea i suoi principii prima delle leggi scritte, non si conoscevano che relle consuetudini ed erano stati molte volte vareati. Quando Valerio volle che s'inclinassero i fasci al cospetto dell' assemblea, si fu per dare avviso che il potere venia dalle carie, e che i consoli doveano rendere omaggio alla loro supremazia. Di qui gli venne il nome di Publicola. E nella consuetudine stessa di non potere portare in città che dei fasci senza scure vi ha un tacito riconoscimento della facoltà dei plebei di richiamarsi al giudizio dei loro pari nelle pene corporali che il console avrebbe potuto pronunciare in virtù della sua onnipotenza. Dacché furono adottate queste leggi depose i fasci nelle mani di Sp. Lucrezio come quegli ch' era costituito in età più avanzata ma siccome non sopravvisse oltre il fine dell'anno, M. Orazio lo compì come suo successore il quale dopo il volgere dell' anno intiero venne rieletto con Publio Valerio.

Il desiderio di procacciarsi un' eterna rinomanza mise la discordia fra i due colleghi. La parte che mancava al compimento del tempio Capitolino quando Tarquinio fu cacciato dal trono fu condotto a termine sotto i consoli. La fortuna avea designato M. Orazio per farne la consacrazione.

Mentre egli stava abbracciato al pilastro della porta del tempio, mentre stava per proferire le sacre parole, M. Va lerio fratello del console recò una bugiarda novella esclamando o Marco che fate? vostro figlio è morto! Il tutto pareva che dovesse interrompere la cerimonia; ma intrepido come Bruto Orazio rispose: portate a seppellire il suo corpo, io lo piangerò dopo, così continuò la consacrazione e il suo nome stette sul frontespizio del tempio sino alla sua distruzione nei giorni di Silla. Ed è agli Idi di settembre in cui era stata fatta la consacrazione che si cominciò a contar l'era onde tutti gli anni in sì fatto giorno si conficcava un chiodo nel medesimo luogo.

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Fra gli altri oggetti d'arte onde l'ultimo re voleva ornare il tempio era stata scelta una quadriga di terra cotta da porsi sulla parte più alta dell' edificio. Questo gruppo ch' era stato lavorato da un artista di Veia s' inturgidi miracolosamente nel fuoco che convenne abbattere la fornace per trarlo fuori. Un simile segno non sarebbe stato equivoco neppure presso un popolo meno abile degli Etruschi a presentire il destino. I Veienti negarono di consegnare la quadriga ai Romani sotto pretesto che non era Roma, ma Tarquinio che ne avea fatta la commissione. Ma gli Dei non sostennero che Roma fosse privata da questo lavoro, in cui le volevano dare un presagio. Ai primi giuochi del circo celebrati a Veja, il carro vincitore corse d'un tratto sino a Roma, e gittò il guidatore senza vita sulle soglie del Campidoglio alla porta Ratumena così chia¬ mata dal nome di questo etrusco (321). Antiveggendo che una siffatta disgrazia mutarebbe in pianto il riso di ogni lor festa, i Veienti vennero nell' intenzione di soddisfare alla richiesta dei Romani (322).

Questo tempio grato soggiorno alle divinità supreme,

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