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territorio romano: il gianicolo e il vaticano non sono che delle insignificanti eccezioni.

I Romani non presentivano dunque che le catene che infransero di propria mano potevano riescire una vana dimostrazione; la disfatta degli Etruschi innanzi ad Aricia è senza contrasto istorica: la vittoria di Cuma che condusse Aristodemo alla sovranità è raccontata dagli annali greci. E quando per una falsa vergogna gli annali di Roma nou avessero dissimulato un' antecedente umiliazione avrebbero potuto raccontare con gioia come seppero animosamente rompere il giogo della tirannide benchè senz' armi e minacciati in tutto ciò che si poteva avere di più caro. In questo punto poteva essere utile il trafugarsi degli ostaggi e in questo punto l'eroina che li conduceva poteva meritare delle ricompense.

Questa insurrezione dovette aver per effetto di mettere in potere dei Romani fatti liberi molte cose che nel recinto della città appartenevano al dominator forestiero ; d'onde senza dubbio venne l'origine dell' uso simbolico praticato negli incanti di vendere i beni di Porsena. Tito Livio che lo trovò ancora in vigore, comprese che non s'accordava col racconto che termina la gnerra in una maniera amichevole; se non che non avrebbe dovuto contentarsi dell' insipida spiegazione che ne reca.

Il fatto di Porsena d'essere stato eroe delle leggende etrusche, le quali lo riferirono ad epoche più lontane che non sono i tempi storici, pare indicato dalla favolosa descrizione della sua tomba, la quale non può essere imma❤ ginata che come l'edifizio delle fate che sfuma al modo del palazzo di Aladino. È possibile che senza alcun fondamento le tradizioni romane abbiano appiccata a questo re la guerra d'Etruria che balzò Roma dalla sua grandezza;

ma ciò che noi premettiamo senza perplessità si è che dal principio della guerra sino alla fine non v'ha un sol tratto che possa passare per istorico,

È una cosa particolare agli annali romani, una conse➡ guenza della sterilità dei loro autori in fatto d'invenzione che s'abbiano a ripetere in diversi tempi e più d' una volta i medesimi avvenimenti. Così in ciò che ci si dice della guerra di Porsena si trova per così dire rifranta lą guerra contro Veia nel 277, la guerra che dopo il disastro di Grimera mise Roma sull' orlo del precipizio. In essa guerra i Veienti occuparono il gianicolo, e quel che è più plausibile dopo una vittoria in rasa campagna. Quivi pure un Orazio preservò la città e fu il console che in un momento decisivo condusse a celerissimo viaggio il proprio esercito dal paese dei Volsci. Intanto i vincitori facevano dal campo delle escursioni oltre il fiume guastando il paese finchè delle battaglie fatte precisamente al tempio della Speranza, ed alla porta Collina vi posero termine ciò che non tolse che non iscoppiasse una gran carestia nella città. Ma quand' anche tutti questi fatti fossero stati trasferiti nella guerra di Porsena per colmare una lacuna, una siffatta guerra non cesserà di essere perciò un semplice riverbero una riprova dell' altra, come una delle guerre contro gli Aurunci. Questa fu realmente la guerra etrusca per cui Roma perdette dieci regioni ben ch' ella sorgesse e ricuperasse la propria indipendenza; e conviene che questa guerra abbia avuto luogo prima del 259, anno in cui le. tribù si fecero ammontare a 21. Nulladimeno io stimo che, fosse intorno a quest' epoca.

E stimo pure le numerazioni per così autentiche come lo potevano parere ai Romani abbenchè sembrino incredi hili le cifre rispetto ai tempi che precedono la conquista

dei Galli. E fin che non abbia giustificata questa confidenza che io gli accordo si concederà per lo meno che ci apprestino dei prospetti sull' aumento, e sulla diminuzione dello stato romano. Un annalista inventore non avrebbe mancato di fabbricarle unanimi a' suoi racconti ; se adunque queste numerazioni sono affatto inconciliabili cogli annali, meritano qualche attenzione per essere l'espressione di una forma appartenente ad un' epoca molto più antica. Ora Dionisio ci dà il censo di 246, 256 e 261 colle cifre 130,000, 150,700, 110,000, e nei nostri annalisti la guerra contro Porsena cade fra il primo ed il secondo di questi anni. Dal 257 al 261 non vi ha nè peste, nè perdita di territorio, ma sì bene la vittoria sopra i Latini. Mal saprei dove ritrovare una maggiore contraddizione; ma chiunque non si lascia abbagliar dagli annali appunto perchè sfoggiano delle date potrà sempre sperimentare una spiegazione. E si acconsenta almeno come ipotesi che il primo accrescimento di popolazione ha per causa l'estensione dell' isopoliția. La separazione di popoli isopoliti può da un altro canto spiegar benissimo la diminuzione di 40,000 anime, ma la perdita delle regioni levate a Roma pare che v' abbia avuto una gran parte. Per verità tutti i proprietari non saranno rimasti addetti alla gleba, e lo fossero anche il loro numero non si alzava a tante migliaia. Nulladimeno la somma dei Romani ne scemò gran fatto, e la circostanza che in T. Livio non s'incontrano in questi anni che nomi e non avvenimenti, conferma la congettura che ve ne aveano degli sventuratissimi ad occultare. La servitù del Lazio sotto Mesenzio altro non è che la ricordanza di quei tempi risospinta a tempi ancor più lontani; e potrebbe occorrere che Virgilio, così avanti in archeologia avesse veramente conosciute delle tradizioni

,

che riferivano al medesimo etrusco da cai più tardi il Lazio si scosse, la sommissione d' Agilla, città che al tempo di Ciro, quand' essa consultava l'oracolo di Delfo era forse ancora del tutto tirrena.

Se il termine della guerra tirrena dinnanzi a Cuma fosse storicamente certo, vi avrebbero senza dubbio delle ragioni intrinseche che si opporrebbero che la spedizione d'Aristodemo verso Aricia fosse posta alla fine della 70a Olimpiade; perchè è già assai poco credibile che vent'anni soli dopo il primo di cotesti avvenimenti (437) gli Oligarchi avessero cercato di perderla per tutte quelle animosità che covavano; giacchè le inimicizie non si covavano così nelle antiche repubbliche. Dionisio però non ha calcolato l'intervallo se non perchè degli autori greci gli indicavano l' epoca della guerra di Cuma (438) e degli autori romani quella della spedizione d' Aricia. Ma l'indicazione cronologica d'una guerra in cui i fiumi montano alle loro sorgenti, non ha più pregio a miei occhi della favola dei Pelopidi, ove il sole fece altrettanto. E quelli che stimano che rispetto a questo tempo la storia di Cuma abbia miglior fondamento di quella di Roma, confrontino di grazia le narrazioni di Dionisio sopra Aristodemo con quelle di Plutarco (439).

DAL PERIODO CHE CORSE DOPO LA MORTE

DI TARQUINIO.

Eccomi costretto a dividere il tempo in periodi sui medesimi limiti dell' istoria mitologica che degl' annali non potrebbero se non per miracolo surrogare ad un tratto.

Obbedisco in questo ad una spiacevole necessità che non vorrei che mi fosse rimproverata come una discordanza. Il confronto dei due storici fa vedere di qual natura siano le narrazioni che corrono su questo tempo. Sotto gli auni 251 e 252 T. Livio racconta una guerra contro Pomezia e gl' Aurunci, guerra che ripete nel 259 come fatta contro i Volsci (440). Dionisio non poteva ingannarsi a questo proposito onde non la riferisce che all' ultima di questo date. Men ponderato in questa parte, T. Livio si mostra più savio nella guerra sabina. Di tutti i fasti non cita che due trionfi, nè dice cosa degl' avvenimenti guerreschi, che Dionisio racconta con tutti i suoi particolari come che fossero cinque campagne.

Quest' ultimo non entra in minori dettagli nella guerra Latina, dove, se si eccettua la battaglia del lago Regillo, non s'incontra in T. Livio che un magro ricordo che nell'anno 255 fu posto l'assedio a Fidene, occupata Crustomeria, e che Preneste si gittò dalla parte di Roma. In quanto a questa battaglia cosi celebrata, confessa egli stesso che se taluni, di cui segue l'avviso, la pongono nel 255 degl' altri la differiscono sino al 258 sotto il consolato di Postumio, come fa Dionisio. È chiaro per questa discordanza che gl' antichi fasti dei trionfi non ne parlavano per nulla. E senza dubbio anche Postumio non ebbe nome Niebuhr T. II. 14

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