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come la verace occupazione dell' uomo libero e la scuola del soldato. Catone dice che il campagnuolo è colui che ha meno cattivi pensieri; in lui si conserva il vecchio ceppo della nazione che si guasta nelle città ove vengono a porsi commercianti ed artisti stranieri, nell' istesso modo che i nativi del paese peregrinano per dove sono tratti dall' esca del guadagno, pertutto ove è viva la schiavitù gli affrancati fanno istanza d'intrattenersi in questo genere d'affari che procacciano bene spesso ricchezze. Per questo nell' antichità erano tutte nelle lor mani così fatte professioni, e per questo appunto erano poco convenienti ai cittadini. Onde ne venne l'opinione che fosse dannoso e pregiudicasse al carattere della nazione l'ammettere delle genti di mestiere alla pienezza dei diritti di cittadino (515). Gli antichi non avevano alcuna nozione del governo onorevole dei maestri delle arti, come ce lo mostra la storia delle città del medio eve, per cui mal si saprebbe negare che lo spirito bellicoso non sia caduto quando le tribù soverchiarono le case, e che alla fin fine non si sia estinto intieramente e con lui ogni esteriore riputazione e la libertà delle città. Ai nostri giorni peranco il paesano italiano, quando è proprietario è onesto, onorato e molto più riputato del cittadino della sua nazione. L'agricoltura è la vera vocazione della nazione come la vita marittima l'è dei Greci e lo fu dei Napolitani.

L'antica plebe romana era esclusivamente costituita di agricoltori e di operai campagnuoli, e quantunque la povertà ne privasse molti d'ogni patrimonio, non v'era però un solo che si nutrisse di un' altra professione ajutandosi col commercio o con qualche altro mestiero (516).

Il potere censorio anche prima d'essere affidato a par ticolari magistrati, vigilava che il faticoso agricoltore stesse

solo nella tribù de' suoi padri, e che ne fossero invece cacciati gli scialacquatori, e quelli che abbandonavano la vocazione (517). Pei primi tempi i plebei delle quattro tribù urbane devono essere tenuti come agricoltori; in parte perchè nell' immenso recinto delle mura vi aveano dei giardini e dei vigneti in parte perchè i coltivatori aveano in città delle case e dei granai.

E' vero che il medesimo Dionisio che mantiene cosi formalmente che ogni professione non agricola era interdetta ai plebei, ne dice in un altro luogo che Romolo gli assegnò per vocazione l'agricoltura, l'educazione del bestiame e le professioni lucrative (518). Ma è nel quadro della pretesa costituzione primitiva del popolo romano data da Ro molo in qualità di fondatore; descrizione che fu tolta ad un antiquario romano che intendeva il suo soggetto e che ricordava ciò che esisteva in un tempo in cui non v'erano nello stato che dei patrizi e dei clienti. Lo scrittor greco s'è lasciato condurre nell' errore che questi ultimi ed i plebei fossero del medesimo ordine (519).

L'occasione di questo errore nasce senz'altro perche nell'ottavo secolo vige va una clientela, che non soltanto legava a suoi patroni la parte affrancata di questa plebs urbana ma che rannodava altresì ad un patrono di scelta più d' un uomo bennato, che senza fortuna, e senza alcuna circostauza favorevole voleva entrare innanzi nel mondo; in genere questa maniera di clientela congiungeva il cittadino dei municipj colla gens, a cui altre volte la sua patria avea data protezione. Questo vincolo era così alieno dall' antica ed onorata clientela, quanto la plebe lo era dall'antico e riputato comune; ma questa confusione congiunta al fatto che pel decemvirato la clientela fu ricevuta nelle tribù, ingannò altresì T. Livio e gli fece so

gnare che individualmente i plebei erano i clienti dei particolari patrizi (520). Quantunque non manchino dei passi che esprimono nel modo più concludente la diversità dei due ordini, ed anche la loro opposizione. Dionisio stesso benchè intieramente preoccupato di questo error fondamentale, fece sempre la medesima distinzione nel progresso del suo racconto, perchè teneva sotto gli occhi l'espressione degli annali non alterati.

Stando sui loro vestigi T. Livio racconta che in una veemente dissensione fra i due ordini, il comune si ritrasse tutt' intiero dall' elezione dei consoli, elezione che non fu fatta che dai patrizj coi loro clienti (521). Forse si è mal compresa un' elezionę tolta di tutto punto dalle mani dellę centurie; s' egli è così quest' errore ebbe luogo perchè si volle ricordare come in un tempo più recente si facevano le elezioni quando il popolo disperato abbandonava i comizi (522). Racconta altresì che prima del giudizio di Coriolano i patrizi vedendo tutti i plebei esacerbati inviarono i loro clienti per arringarli individualmente o per sgomentarli (523), e dice che dopo il bando di Gesone Quinzio apparvero nel foro con una gran turba di clienti (524) e si misero in aperta guerra coi plebei; e dice di più che quando Apio Erdonio occupò il campidoglio, i tribunį vollero tenere un concilium plebis, una riunione di plebei, a cui fecero intendere che non erano forestieri quelli che si erano impadroniti della fortezza ma ospiti e clienti dei patrizi che si erano messi dentro per isgomentare il comune onde trarlo col giuramento al militare servizio (525). In fine T. Livio spiega lo scopo della legge Publilia nel senso, che subito che i tribuni furono nominati dalle tribù, i patrizi perdettero affatto il potere di

far eleggere i loro aderenti per le voci dei loro clienti (526).

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Nel medesimo modo Dionisio ne dice che quando il popolo ebbe abbandonata la città, i patrizi presero le armi coi loro clienti (527). Racconta sia come proposta fatta dal senato durante l' emigrazione del popolo o quando negava di servire, sia come risoluzione presa in un caso simile racconta che i patrizi uscirono tutti coi loro clienti e coi plebei che vollero accompagnarli (528) e loda i plebei che in una carestia fra il tumulto della dissenzione in vece di saccheggiare i pubblici granai ed i mercati si nudrirono d' erbe e di radici, e commenda altresì i patrizi perchè colle loro proprie forze e la numerosa turba dei clienti non vennero sopra questi uomini affamati per ucciderli o per cacciarli dalla città (529). Dappoi conformemente a ciò che noi abbiamo detto testè di T. Livio, riferisce che per attraversare che non fosse tenuto il concilio dei plebei, o per disperderli, i patrizi apparvero nel foro coi loro clienti (530).

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Queste molte e non oscure testimonianze furono neglette in grazia d'una asserzione contaminata di palpabili errori. Forse più d'un lettore le avrà trovate enigmatiche e senza forse gli autori medesimi; ma cotestoro scrivevano in un tempo in cui i ricchi ed i poveri costituivano le sole vere classi di cittadini, dove l' indigente quantunque di nobilissima origine aveva necessità di un protettore; ed ove it milionario fosse puranco uno schiavo francato era richiesto come tale. Non so se questi storici conoscessero vestigio di dipendenza ereditaria; ma so che dopo la reintegrazione della filologia i lettori non avevano nessun concetto di questa natura onde non gli venne fatto che di rappresentare i plebei non altrimenti che come borghesi

ancora

urbani opposti ai nobili ed in cui la nobiltà avea i suoi aderenti ed i suoi subordinati, sotto il nome di clienti, ma che però non l'erano che in ragione dei bisogni personali e finchè duravano questi bisogni.

Nulladimeno quantunque non vi fosse alcun esempio particolare che rischiarasse l'oscura espressione dell' antichità, quel che si disse finora della clientela sarebbe bastato per mostrare che la plebe di cui parla la storia era necessariamente ed essenzialmente estranea a questo genere di relazioni. I mali trattamenti e le oppressioni sofferte dal comune potrebbero conciliarsi colla clientela che imponeva al patrono l'obbligo di proteggere il suo cliente ed i suoi più prossimi parenti ed ajutarli in tutti i modi ? I clienti avrebbero implorato altra protezione che quella dei loro patroni? avrebbero mai avuto bisogno di tribuni contro chi che fosse ? e come in seguito s' avrebbe potuto nelle assemblee rendere dei decreti contro l'interesse dei patrizi, interesse che risguardava individualmente ogni patrono? I clienti che li avessero così offesi sarebbero stati posti fuori della legge.

Quello che deve far meraviglia non è la gran differenza che corre fra i plebei ed i clienti; giacchè questi ultimi non erano così stranieri alle tribù come lo dice Tito Livio parlando delle conseguenze della rogatio Publilia ma è piuttosto una testimonianza formale che prima del decemvirato votavano nei comizi delle centurie (531). Se non fosse così s'incontrerebbero in essi dei meteques come quelli della Grecia che sprovvisti d'ogni diritto pub blico non esercitavano i diritti civili che nella persona dei loro patroni; ma l'analogia non può nulla contro un' asserzione così solenne. Tuttavia non ne trae a presupporre che tutti i clienti fossero dei cittadini aerarii e che non

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